31.8.11

Manovra, Gianni Rinaldini: «L'unica risposta a questo attacco al lavoro è il conflitto»

Intervista di Roberto Farnesi tratta da Liberazione.

Gianni Rinaldini, lo sciopero generale della Cgil contro la manovra del governo sta ricevendo più consensi dalla società civile che dalla politica. Solo le forze minori della sinistra vi appoggiano, il Pd oscilla tra l’aperta ostilità dell’area liberal e la prudenza del segretario Bersani, il quale si è limitato a dire che il suo partito sarà presente «a tutte le diverse iniziative» che le forze sociali assumeranno. Tra le critiche alla Cgil, la più ricorrente è che scioperare da soli, senza Cisl e Uil, è un errore. Come rispondi?
E’ la solita litania. Ogni volta che decidiamo uno sciopero, l’unica cosa che ci sentiamo dire è «dovete essere uniti». Il che è un modo come un altro per non entrare nel merito delle questioni alla base della nostra mobilitazione. Quando c’è uno sciopero generale, con le relative proposte, uno dice se le condivide o no. Il resto fa parte di quell’incomprensibile linguaggio politicista che poi è alla base della frattura sempre più evidente tra politica e società civile. La cosa che mi impressiona è il fatto che in questa manovra - oltre agli aspetti di iniquità nella redistribuzione della ricchezza, con misure che penalizzano le fasce popolari - c’è un decreto lavoro che rappresenta un’enormità. Nel senso che ci troviamo di fronte alla cancellazione di parte della storia del movimento operaio. Se dovesse passare questa operazione, d’ora in poi attraverso i contratti aziendali si potrà intervenire su tutte le materie relative alla prestazione lavorativa inclusi gli aspetti legislativi, dal controllo degli ambienti di lavoro anche con strumenti audiovisivi, fino alla scelta di non applicare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In sostanza, salta l’equilibrio costituzionale fondato sui diritti sociali, che sono la sostanza della democrazia, dal momento che quei diritti in quello schema diventano una variabile del mercato. Ora a me pare straordinario che un’operazione di siffatta natura non abbia sollevato l’indignazione delle forze politiche, tanto più di quelle che storicamente avevano rappresentato la sinistra nel nostro paese. Tra l’altro non è un caso che in commissione bilancio del Senato, sul decreto lavoro il Terzo Polo abbia votato assieme al governo. Il che sta a indicare che, quando non c’è il merito, non si fa molta strada.
La Cisl non la vede così drammatica. Per Bonanni il decreto lavoro non è un problema, anzi «rafforza il potere delle parti».
Che non sia preoccupato Bonanni non mi sorprende, perché negli atti compiuti nel corso di questi anni - dal condono fiscale al collegato lavoro - Confindustria, Cisl e Uil hanno perseguito questa strada. Una strada per cui nella globalizzazione non ci sono più vincoli sociali di solidarietà ma tutto viene ricondotto a una logica di mercato. Esattamente ciò che prevede questo decreto.
Secondo Susanna Camusso, l’articolo 8 della manovra «è un tentativo di cancellare l’intesa del 28 giugno con Confindustria», che invece confermerebbe il ruolo primario del contratto nazionale.
Penso esattamente l’opposto. E cioè che non l’accordo ma l’ipotesi di accordo siglata il 28 giugno abbia contribuito ad aprire la strada all’intervento successivo del governo. Così come è stato un errore partecipare al blocco delle forze sociali, sottoscrivendo un documento in sei punti, quando, alla prova dei fatti, è emerso che non c’era nessuna posizione vera di carattere unitario. Oggi i soggetti firmatari del 28 giugno interpretano quell’accordo sostenendo che il decreto lavoro corrisponde a quello che anche la Cgil ha sottoscritto. Mi pare evidente che in queste condizioni quell’accordo non esiste più.
La proclamazione dello sciopero generale da parte della Cgil rappresenta un cambiamento rispetto alla linea del dialogo con Cisl e Uil portata avanti dalla segreteria nei mesi precedenti?
Io credo che questo decreto rappresenti uno spartiacque. A me pare evidente che il sindacato e la Cgil si trovino ad affrontare una situazione totalmente nuova, sconosciuta nella storia repubblicana di questo paese. E quindi lo sciopero generale del 6 non può essere uno sciopero “una tantum” e dopo riprendono le cose come prima. Dobbiamo invece ragionare su come aprire una fase conflittuale nel paese, definendo proposte e pratiche rivendicative che disegnino concretamente una alternativa sociale a quello che sta avvenendo. E’ lì che vedremo se tutta la Cgil è disponibile a questo confronto. In un contesto completamente diverso e molto peggiore, richiamarsi a quelli che sono stati i documenti congressuali lo riterrei un errore.
Però è vero che uno sciopero generale fatto dalla sola Cgil è meno efficace. Davvero l’unità con Cisl e Uil oggi non ha più senso?
Io sono per l’unità sindacale, è nel dna della Cgil. Il problema è che oggi ci troviamo di fronte al fatto che Cisl e Uil hanno scelto, rispetto anche alla crisi dei sindacati provocata dai processi di globalizzazione, un’idea di modello sindacale del futuro che non è quello della Cgil. Ciò fa si che in questa fase non sia all’orizzonte il processo di unità sindacale così come è stato concepito classicamente, perché le differenze tra le organizzazioni sindacali non sono su questo o su quel punto ma sono proprio di carattere strategico. Altra cosa è l’unità d’azione sulle singole questioni, che però può essere possibile nella chiarezza e con le procedure democratiche.
Secondo Bersani, se Cgil Cisl e Uil sono divise è solo per colpa del governo...
Insisto. La cancellazione del contratto nazionale, in una fase di recessione e di crisi, determinerà il fatto che i lavoratori saranno costantemente ricattati dalle aziende: “o accettate le nostre condizioni o vi chiudiamo la fabbrica”. Come ha fatto la Fiat. Ciò rappresenta per questo paese un salto all’indietro di civiltà. Ora, nel merito, dicano se sono d’accordo.
Per la verità, il Pd ha già detto che l’articolo 8 va eliminato
E allora ne traggano le conseguenze.

Verso lo sciopero: si va in piazza e ci si resta

Sono mesi che come LGS monitoriamo la situazione dei conflitti sociali nella nostra città, li stimoliamo là dove serve (vedi scuole superiori), lì sosteniamo (leggi Diritto allo studio, al lavoro e al reddito), li trasformiamo in vittorie (Referendum) e nel complesso li analizziamo con momenti di autoformazione.
Quanto sta avvenendo in Italia è nel mondo sta sconvolgendo il quadro esistente e comportando misure drastiche che mirino a salvare il capitalismo dalla crisi riducendo i diritti collettivi.
La Manovra del Governo Berlusconi, la terza in otto mesi, rappresenta un colpo fortissimo e forse mortale per il nostro Paese: di un'iniquità impressionante, allunga le pensioni e taglia i sussidi statali, non tocca le grandi ricchezze e non combatte in maniera drastica l'evasione. Insomma, niente si muove nella direzione di un cambio di sistema, che semmai peggiora e ulteriormente punta ad accumulare sul lavoro e i diritti delle donne e degli uomini.
Come LGS SOSTENIAMO LO SCIOPERO INDETTO DALLA CGIL PER IL 6 SETTEMBRE PARTECIPANDO ALLA MANIFESTAZIONE, invitiamo alla mobilitazione le classi sociali colpite dalla manovra, e ribadiamo che la CGIL DEVE SCENDERE E RIMANERE IN PIAZZA per essere, con noi ed i movimenti sociali, protagonista del cambiamento.

Riportiamo un articolo di Giorgio Cremaschi, FIOM-CGIL.


Sommano già a ben 131 miliardi di euro gli interventi complessivi, 2010-2014 decisi dal governo. E per qualcuno i mercati non sarebbero ancora contenti di questo massacro senza precedenti. In realtà, con gli ultimi provvedimenti e modifiche, il governo ha ulteriormente aggravato l’impatto antisociale della manovra. Viene salvata dal contributo di solidarietà la casta dei supermanager e dei direttori dei grandi giornali, che può festeggiare. In compenso vengono sostanzialmente cancellate le pensioni di anzianità, con una vera e propria truffa a danni dei lavoratori che hanno fatto il servizio militare o che hanno pagato di tasca loro i contributi per l’università. E con un disastro occupazionale che si preannuncia perché ci saranno centinaia di migliaia di persone costrette a rimanere al lavoro, con altrettante persone che non troveranno posto.
Inoltre, migliaia di lavoratori e lavoratrici posti in mobilità rischiano di non arrivare più alla pensione. Nello stesso tempo la manovra sui contratti distrugge il contratto nazionale, aumenta gli orari di lavoro per chi ha un posto, incrementa la precarietà e i licenziamenti selvaggi. Anche per questo la Cgil deve immediatamente ritirare la firma dall’accordo del 28 giugno, trasformato dal governo in decreto liberticida.
Tutto il costo della manovra è, alla fine, a carico del lavoro dipendente, dei pensionati e dei più poveri. I ricchi non pagano, niente, per l’evasione fiscale si fanno chiacchiere. Questa è una brutale manovra di classe, fatta da un governo squalificato, che si aggancia all’Europa solo per giustificare la propria esistenza.
Lo sciopero generale a questo punto è ancora più giustificato, ma deve dare il via a un movimento che punti a rovesciare il governo e la manovra. Dobbiamo fermarli. Dobbiamo fermare il disastro provocato da Berlusconi, ma dobbiamo anche dire basta al governo unico delle banche europeo che sta portando l’Europa a una recessione drammatica, per difendere la speculazione e la finanza. Basta con Berlusconi, basta con la Bce e l’Europa delle banche. Su questo si scende in piazza e ci si resta.
Giorgio Cremaschi

29.8.11

Il comune in rivolta

di Toni Negri e Judith Revel

Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.
Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:
1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche. La dittatura politica dei vari Ben Ali e quella politico-economica delle nostre democrazie di facciata non saranno certo equivalenti – anche se le seconde hanno per decenni accuratamente costruito, appoggiato e protetto le prime – ma ormai la voglia di democrazia radicale è ovunque e traccia un comune di lotta a partire da fronti diversi, permette intrecci e mescolanze, ibrida le rivendicazioni dagli uni con quelle degli altri;
2) dove le medesime forze sociali, che soffrono della crisi in società con rapporti di classe ormai decisamente controllati da regimi finanziari in economie miste, manifatturiere e/o cognitive, si muovono su terreni diversi con pari determinazione (i movimenti degli operai, degli studenti, e dei precari in genere, prima; ed ora movimento sociali complessi del tipo “acampados”);
3) dove la ripresa di movimenti di puro rifiuto, attraversati da composizioni sociali quanto mai complesse, stratificate sia verticalmente (classi medie che precipitano verso il proletariato dell’esclusione), sia orizzontalmente (nelle diverse sezioni della metropoli, fra gentrificazione e zone ormai “brasilianizzate” – come ricorda la Sassen –, dove cioè i rapporti fra gang cominciano a lasciare segni di kalashnikov sulle pareti dei quartieri, perché l’unica – drammatica, entropica – alternativa all’organizzazione delle lotte è quella della criminalità organizzata).
Le attuali rivolte inglesi appartengono a questa terza specie ed assomigliano molto a quelle che hanno attraversato qualche tempo fa le banlieues francesi: misto di rabbia e di disperazione, di frammenti di auto-organizzazione e di spezzoni di sedimentazione di altro tipo (gruppi di quartiere, solidarietà di rete, tifoserie ecc.), esprimono ormai l’insopportabilità di una vita ridotta a macerie. Le macerie che le rivolte lasciano dietro a se stesse, senz’altro inquietanti, non sono alla fine così diverse da quelle che costituiscono il quotidiano di molti uomini e donne oggi: brandelli di vita ad ogni modo.
Come aprire la discussione su questo complesso di fenomeni dal punto di vista di un pensiero del comune? Quanto verremo qui di seguito formulando, ha la sola intenzione di aprire uno spazio di dibattito.
Innanzitutto, ci sembra si tratti di respingere alcune interpretazioni che i mezzi di comunicazione delle classi dominanti veicolano.
Si sostiene in primo luogo, che si tratta di movimenti (questi di cui parlavamo) da considerare, dal punto di vista politico, nella loro “radicale” diversità. Ora, che questi movimenti siano politicamente diversi è ovvio. Ma che lo siano “radicalmente” è semplicemente idiota. Tutti questi movimenti sono, infatti, radicalmente qualificati non semplicemente – a secondo dei casi – dall’opposizione a Ben Ali o ad altri dittatori, non dalla denuncia del tradimento politico di Zapatero o di Papandreou, non dall’odio nei confronti di Cameron o dal rifiuti dei diktat della BCE – ma piuttosto, tutti insieme, dal rifiuto di pagare le conseguenze dell’economia e della crisi (niente sarebbe più errato che considerare la crisi come catastrofe accaduta all’interno di un sistema economico sano; niente di più terribile del rimpianto per l’economia capitalistica prima della crisi), cioè dell’enorme spostamento di ricchezza che queste stanno provocando a favore dei potenti, organizzati nelle forme politiche dei regimi occidentali (democratici o dittatoriali, conservatori o riformisti…).
Queste sono rivolte che nascono in Egitto o in Spagna o in Inghilterra, dal rifiuto allo stesso tempo, dell’assoggettamento, dello sfruttamento e del saccheggio che l’economia ha predisposto sua vita di intere popolazioni del mondo, e delle forme politiche nelle quali la crisi di questa appropriazione biopolitica è stata gestita. E questo vale anche per tutti i regimi cosiddetti “democratici”. Questa forma di governo non sembra preferibile, se non per l’apparente “civiltà” con la quale maschera l’attacco sferrato alla dignità e all’umanità delle esistenze che frantuma: la dissoluzione dei rapporti di rappresentanza ha raggiunto misure rovinose. Quando si afferma che esistono – secondo i criteri della democrazia occidentale – differenze radicali fra la rappresentanza nella Tunisia di Ben Ali o nella Tottenham, o nella Brixton di Cameron, si finge semplicemente di non vedere l’evidenza: la vita è stata troppo compressa e saccheggiata per non esplodere in un moto di rivolta. Per non parlare dei dispositivi di repressione, che riportano l’Inghilterra ai tempi dell’accumulazione originaria, alle prigioni di Moll Flanders o alle fabbriche di Oliver Twist. All’affissione delle foto dei ragazzi rivoltosi sui muri e sugli schermi delle città inglesi, andrebbe davvero opposta la stampa grand format delle facce da maiali (altra variante dei PIGS?) dei padroni delle banche e delle finanziarie che hanno condotto interi quartieri a quella condizione, e che continuano a fare della crisi occasione di profitto.
Torniamo alla vulgata dei giornali. Diverse sarebbero queste rivolte, poi, dal punto di vista etico-politico. Alcune legittime, come nei paesi del Maghreb, perché la corruzione dei regimi dittatoriali avrebbe condotto a condizioni di miseria; comprensibili quelle degli studenti italiani o degli “indignados” perché “precarietà è brutto”; criminali quelle dei proletari inglesi o francesi, semplici movimenti di appropriazione di quello che non è loro, di vandalismo, e di odio razziale.
Tutto ciò è in gran parte falso, perché queste rivolte tendono – fra le diversità, che non si tratta qui di negare – ad avere natura comune. Non sono rivolte “giovanili”, ma rivolte che interpretano condizioni sociali e politiche considerate del tutto insopportabili da strati di popolazione sempre più maggioritari. La degradazione del salario lavorativo e di quello sociale è andata oltre quel limite che gli economisti classici e Marx identificavano nel livello di riproduzione dei lavoratori e chiamavano “salario necessario”. Ed ora, che i giornalisti dichiarino che queste lotte sono prodotte da derive del consumismo, se osano!
Ne viene una prima conclusione. Questi movimenti possono essere “ricompositivi”. Essi penetrano in effetti le popolazioni – che si tratti di lavoratori finora garantiti o di precari, di disoccupati o di chi non ha mai conosciuto altro che “attività”, arte di arrangiarsi, lavoretti sommersi – e ne esaltano i momenti di solidarietà nella lotta contro la miseria. Nella povertà e nella lotta per reagirvi si ricongiungono ceti medi declassati e proletariato migrante e non, lavoratori manuali e cognitivi, pensionati, casalinghe e giovani. Qui si ritrovano condizioni di lotta unitaria.
In secondo luogo, salta immediatamente agli occhi (ed è questo che soprattutto inorridisce gli interlocutori che pretendono vedere caratteristiche consumistiche in questi movimenti) che questi non sono movimenti caotico-nichilisti, che non si tratta di bruciare per bruciare,  che non si vuole decretare la potenza distruttiva di un no future inedito. Quarant’anni ormai dopo il movimento punk (che fu peraltro, alla faccia degli stereotipi, appassionatamente produttivo), non sono movimenti che decretano, avendola registrata e introiettata, la fine di ogni futuro ma che al contrario vogliono costruirlo. Essi sanno che la crisi che li tocca non è dovuta al fatto che i proletari non producono (sotto padrone o nelle condizioni generali della cooperazione sociale che ormai innerva i processi di captazione del valore), o non producono abbastanza, ma al fatto che sono derubati del frutto della loro produttività; che cioè essi devono pagare una crisi che non è la loro; che i sistemi di sanità, di pensionamento, di ordine pubblico, se li sono già pagati mentre la borghesia accumulava per le guerre ed espropriava per il suo proprio profitto. Ma soprattutto sanno che dalla crisi non si uscirà se loro, i rivoltosi, non mettono le mani nei meccanismi di potere e nei rapporti sociali che quei meccanismi regolano. Ma, si obbietterà, quei movimenti non sono politici. Quand’anche esprimessero posizioni politicamente corrette (come spesso è avvenuto per gli insorti nord-africani o per gli indignados spagnoli) – aggiungono i critici – quei movimenti si pongono pregiudizialmente fuori o in posizione critica dell’ordine democratico.
Per forza, ci sembra di poter aggiungere: nell’ordine politico attuale, è difficile, se non impossibile, trovare fori, passaggi, percorsi attraverso i quali un progetto che attacchi le attuali politiche di superamento della crisi, possa darsi. Destra e sinistra, quasi sempre, si equivalgono. La patrimoniale riguarda i redditi da 40/50 mila euro per gli uni, quella di 60/70 mila euro per gli altri: sarebbe quella la differenza? La difesa della proprietà privata, l’estensione delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni sono all’ordine del giorno di ciascuna parte. Il sistema elettorale è ormai puramente e semplicemente ridotto a sistema di selezione di delegati dei ceti privilegiati. Ecc, ecc. I movimenti attaccano tutto questo: sono politici o no quando lo fanno? I movimenti sono politici perché si pongono su un terreno non rivendicativo ma costituente. Attaccano la proprietà privata perché la conoscono come forma della loro oppressione ed insistono piuttosto sulla costituzione e la gestione della solidarietà, del Welfare, dell’educazione – insomma, del comune, perché ormai è questo l’orizzonte di vita dei vecchi e dei nuovi poveri.
Naturalmente nessuno è tanto stupido da pensare che queste rivolte producano immediatamente nuove forme di governo. Ciò che tuttavia queste rivolte insegnano è che “ l’uno si è diviso in due”, che la compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo è ormai solo una vecchia fantasmagoria – che non c’è modo di riunificarla, che il capitale è definitivamente schizofrenico, e che la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro questa rottura.
Noi speriamo che i compagni che ritenevano le insurrezioni un vecchio arnese delle politiche dell’autonomia sappiano riflettere su quanto sta avvenendo. Non è sfiancandosi nell’attesa di scadenze parlamentari, ma inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire.

22.8.11

Campeggio Alternativa Ribelle

Pubblichiamo di seguito, il programma del campeggio "Alternativa Ribelle 2011", che si terrà dal 22 al 29 Agosto presso il Camping internazionale di Frassanito - Otranto.

 
22 AGOSTO ORE 16-20
WORKSHOP: LA POLITICA DEI PARTITI E LA POLITICA DEI MOVIMENTI: LE NUOVE FORME DELLA PARTECIPAZIONE
LUCIO MAGRI
ONOFRIO ROMANO – ricercatore di storia Università di Bari
CIRO PESACANE – Presidente nazionale Forum ambientalista
CLAUDIO BAZZOCCHI – filosofo

h. 22.00 Dance hall
 
 23 AGOSTO ORE 16-20
WORKSHOP: IL CONFLITTO TRA CAPITALE E LAVORO COME FULCRO DELLA SOCIETA’ IN TRASFORMAZIONE
RICCARDO BELLOFIORE – ECONOMISTA
RICCARDO REALFONZO – ECONOMISTA
NANNI ALLEVA – GIUSLAVORISTA
ROBERTO D’ANDREA – SEGRETERIA NAZIONALE NIDIL – CGIL
RAUL MORDENTI – PROFESSORE ORDINARIO DI CRITICA LETTERARIA
SIMONE OGGIONNI – PORTAVOCE NAZIONALE GIOVANI COMUNISTI

h. 22.00 JAM SESSION- jambè e tamburelli
 
 24 AGOSTO 16-20
 WORKSHOP: GENERI, IDENTITA’, CULTURE: VECCHI CONFLITTI E NUOVI PARADIGMI
LAURA CORRADI – SOCIOLOGA
MARIA GRAZIA CAMPUS – MEDICO, ESPERTA DEL SETTORE
GIACOMO GUCCINELLI - RESPONSABILE ARCIGAY GIOVANI 


h. 22.00 CRAZY DICE-Cover band LED ZEPPELIN
 
 25 AGOSTO ORE 15-19
WORKSHOP: LA COMUNICAZIONE POLITICA E LA RETE: NUOVI ORIZZONTI PER UN MONDO CHE CAMBIA
HAIDI GIULIANI
ROSA RINALDI – SEGRETERIA NAZIONALE PRC – FDS
ITALO ARCURI – DIRETTORE DI QUINEWS
LEO PALMISANO – sociologo
PAOLA PELLEGRINI – UFFICIO POLITICO PDCI – FDS

h. 23.00 ARSURA-Pizzica
 
 26 AGOSTO ORE 21
LE RIVOLTE DI UNA GENERAZIONE E LA GUERRA IN LIBIA: UNO SGUARDO SUL MONDO
ANNA MARIA RIVERA – ANTROPOLOGA E ETNOLOGA
FRANCESCO FRANCESCAGLIA – RESP. ESTERI PDCI – FDS
PAOLO FERRERO – SEGRETARIO NAZIONALE PRC – FDS
ANNA BELLIGERO – PORTAVOCE NAZIONALE GIOVANI COMUNISTI

h 10 – MUSICA DAL VIVO
MAURETTO- Dance HALl
 
27 AGOSTO LIBERO/NOTTE DELLA TARANTA – PARTENZA PRIMO POMERIGGIO IN PULLMAN (15 €)
 
 28 AGOSTO ORE 15
ASSEMBLEA. VERSO UN NUOVO AUTUNNO DI LOTTA: ALTERNATIVA RIBELLE E IL MOVIMENTO
SINDACATI STUDENTESCHI E REALTA' IN MOVIMENTO
COMITATO "IL NOSTRO TEMPO E' ADESSO"
DELEGAZIONE LAVORATORI ADELCHI
FLC - CGIL 
NIDIL - CGIL
 
28 AGOSTO ORE 21
CONTRO TUTTE LE MAFIE PER UNA NUOVA QUESTIONE MERIDIONALE
modera Massimo Melillo – giornalista “Il quotidiano di Lecce”
 
GIOVANNI IMPASTATO – CASAMEMORIA DI CINISI (PA)
ALESSANDRO COBIANCHI RESP. LEGALITA' ARCI
DON RAFFAELE BRUNO - COORDINATORE LIBERA PUGLIA
ORAZIO LICANDRO – SEGRETERIA NAZIONALE PDCI – FDS
MARIA CAMPESE – SEGRETERIA NAZIONALE PRC – FDS
FLAVIO ARZARELLO – COORDINATORE NAZIONALE FGCI
 
 h. 23.00 TONDI MIRKO- Dance HALL

19.8.11

rEsistenze al presente: l'esperienza di Pulci In-differenti

Riportiamo di seguito il progetto promosso da Pulci In-differenti, collettivo di studenti universitari che mira a valorizzare le spiagge della Calabria.
Nel nostro Paese, come in tutto il mondo, un movimento politico e civile pratica e rivendica un mondo diverso: recuperando la gratuità esce dalle logiche del profitto; consumando e autoproducendo combatte il produttivismo e lo sfruttamento delle persone e della terra; occupando spazi abbandonati si riappropria del pubblico per trasformarlo in un luogo comune.

Dieci tappe per dieci spiagge da ripulire in dodici giorni, dal 16 al 28 Agosto. La pulizia vera e propria si svolgerà nelle ore meno calde della giornata, al mattino e nel tardo pomeriggio, quando le spiagge sono meno affollate mentre, nelle ore più calde, allestiremo uno stand informativo per fare conoscere il nostro progetto ai frequentatori del luogo e per fare sensibilizzazione ambientale.
Ma non solo: vogliamo allestire dei laboratori di Riciclo Creativo, per dare una nuova vita agli oggetti che raccoglieremo.
Abbiamo diviso il progetto in tre parti: dal 16 al 20 ci occuperemo della costa tirrenica, il 21 e il 22 saremo nel comune di Reggio e dal 23 al 28 sarà la volta della costa jonica. Gli ultimi due giorni saranno dedicati alla chiusura del progetto e all’esposizione degli oggetti che creeremo durante i laboratori di riciclo.
Le tappe provvisorie sono:
  1. Costa tirrenica
  • Scilla (Lungomare) – Il tema su cui lavoreremo in questa spiaggia sarà il riciclaggio.
  • Favazzina – Questa spiaggia è situata vicino a una fiumara che scarica a mare senza depuratore, concentreremo il nostro lavoro sulla questione delle acque inquinate.
  • Bandafalò - Agiremo nei dintorni della parte di spiaggia sequestrata cercando di sensibilizzare la gente riguardo ai problemi legati alla gestione dell’amministrazione pubblica.
  1. Reggio Calabria
  • Calamizzi – In questo posto dei pescatori locali hanno recuperato un pezzo di spiaggia ormai degradato e casualmente delle tartarughe ci hanno fatto le uova (90!!!!!!) ma siccome non era abbastanza pulito per farle crescere le hanno fatte spostare a Bova, perciò insisteremo sull’ importanza di preservare il territorio anche per gli animali in via di estinzione.
  • Omeca - Qui c’è sia una realtà di recupero di strutture sequestrate alla mafia, lavoreremo in collaborazione coi ragazzi dell ARCI cercando di coinvolgere le persone sul tema dei beni confiscati alla mafia.
  1. Costa jonica
  • Saline - In questo posto ci avevano fatto un porto e doveva nascere la centrale siderurgica; il porto è stato progettato male, quindi abbandonato a metà, ma ha modificato la conformazione della costa, spostando quantità immense di sabbia creando un disagio non indifferente al territorio.
  • Palizzi - Raccoglieremo i rifiuti in spiaggia come piace fare a noi.
  • Brancaleone - Ci ricollegheremo all’università, per la quale lavorano volantari e ricercatori che studiano le tartarughe. Ci sarà una serata conclusiva tipo falò sperando di farla coincidere con la notte in cui si schiudono le uova delle tartarughe.

15.8.11

Il referendum cancellato - di Ugo Mattei

Non volevo credere ai miei occhi quando ho visto, già depresso per una manovra che si commenta da sé, che il ministro Fitto avrebbe messo a punto una norma che che prevede la messa a gara dei servizi pubblici locali (ad eccezione dell'acqua). La norma prevede che le gestioni in house, salvo quelle con valore economico inferiore a 900.000 euro, debbano cessare entro il 31 marzo del 2012. 

Un vero déjà vu. Fitto era già cofirmatario del decreto Ronchi, quello che (la maggior parte dei media sembrano averlo già dimenticato), la maggioranza assoluta del popolo italiano ha abrogato due mesi fa rispondendo sì al primo quesito referendario. La struttura del nuovo provvedimento, che non porta più la firma di Ronchi soltanto perché quest'ultimo, grazie al cielo, non è più al governo, è identica a quella della legge abrogata dal popolo sovrano. Un obbligo di messa a gara a data certa, ossia proprio quella struttura che tutti in Italia hanno capito avere un impatto devastante sul valore di quanto si vuole vendere. Non più l'acqua ma cespiti importanti del patrimonio pubblico come i trasporti locali, l'organizzazione della raccolta rifiuti e tutti i restanti servizi locali di rilevanza economica che verrebbero svenduti con un impatto drammatico sul valore del nostro patrimonio pubblico. Con l'eccezione dell'acqua, il contenuto del nuovo provvedimento è a sua volta identico a quello del Ronchi che, come ben noto, non riguardava soltanto l'acqua ma (stava scritto sull'intestazione della scheda n. 1 cui hanno risposto sì circa 27 milioni di elettori) le «Modalità di affidamento e gestione servizi pubblici locali a rilevanza economica. Abrogazione».

Insomma sta succedendo esattamente quanto temevo. L'esito referendario è stato svuotato (complici le opposizioni) del suo valore costituente e ridotto ad una mera questione tecnica legata alla sola gestione dell'acqua. La vera inversione di rotta relativa alle privatizzazioni (e liberalizzazioni camuffate) richiesta dal popolo non è stata interpretata politicamente da nessuno (ad eccezione del solo De Magistris a Napoli) L'esito di questo imperdonabile vuoto nell'interpretare il cambiamento di sensibilità politica nazionale è che impunemente il governo Berlusconi (al posto di andarsene a seguito del voto sul legittimo impedimento) impone (pare sotto dettatura dei poteri forti europei) una manovra che, con scelta politica deliberata, fa strame del patrimonio pubblico e dei beni comuni, sacrificandoli sull'altare della crescita. Ma il popolo aveva detto che i trasporti pubblici ed i rifiuti, non meno dell'acqua, devono essere governati in modo ecologico, sociale e sostenibile, nell'interesse comune e non in quello dei soliti poteri finanziari.

Il governo si fa beffe, in modo palesemente incostituzionale, della volontà sovrana chiara, espressa solo due mesi fa rispetto al primo (e più votato) quesito referendario che era contro il decreto Ronchi-Fitto. Che il referendum non fosse limitato all'acqua lo aveva abbondantemente detto anche il fronte del no in campagna elettorale!. Personalmente ho contribuito a redigerne il quesito e ho partecipato alla sua difesa di fronte alla Corte Costituzionale il 12 gennaio. La Corte era stata chiarissima nel ribadire che ogni quesito costituiva un referendum separato rispetto agli altri. La Corte aveva inoltre acclarato che Il primo quesito aveva come intento politico quello di riequilibrare il rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali che, ad avviso dei promotori, il decreto Ronchi-Fitto aveva stravolto tramite l'obbligo di messa a gara.

Quanto sta succedendo è di una gravità politica giuridica e costituzionale inaudita. A soli due mesi da un voto popolare espresso si ripropone il provvedimento abrogato negli identici termini di forma e di sostanza. Sul piano giuridico, se il governo avesse deciso ieri di privatizzare l'acqua non ci sarebbe stata alcuna differenza. L'Europa non può imporre ad un paese membro provvedimenti incostituzionali. Questo si sarebbe dovuto rispondere a Trichet e Draghi.
Il Presidente Napolitano ha adesso un dovere costituzionale di intervenire su questo punto. Il fronte di difesa dei beni comuni non può fare lo sconto a nessuno.

10.8.11

Uk riots. La corda si è spezzata.

Gli effetti della crisi economica e delle politiche governative fatte di tagli al welfare e ai diritti sociali trovano un contraltare nelle forme, diverse ma diffuse, di conflitto sociale che emergono negli ultimi mesi in Grecia, in Spagna, in Italia e hanno rappresentato il substrato delle rivoluzioni nordafricane. Abbiamo scritto della catastrofe nel Corno d'Africa (leggi: http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/07/la-catastrofe-annunciata-del-corno.html) e dei drastici tagli della Manovra Finanziaria italiana (http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/07/limpatto-della-manovra-finanziaria-sui.html), cosi come dei percorsi che noi giovani, assieme ai soggetti più vulnerabili quali migranti, precari, disoccupati, stiamo costruendo per determinare un cambiamento di sistema (http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/07/la-crisi-o-la-speranza.html).
"Loro la crisi, noi la speranza". Quanto accade a Londra non è "criminogeno", come afferma il Premier conservatore Cameron: è il risultato di una situazione esplosiva fatta di razzismo più o meno latente, della decomposizione del campo dei diritti e delle garanzie sociali; è il frutto di una società che vive della marginalità, dell'esclusione, della distruzione dell'alterità: e solo oggi scopriamo che anche a Londra, come in tutte le grandi capitali, ci sono i ghetti ed i quartieri dormitorio monocolor. La rivolta di questi giorni ha dunque, a mio parere, un carattere costituente: getta sul tavolo politico la violenza dello stato esistente, pretende diritti e riconoscimento sociale, immagina forme contaminate e meticce di cittadinanza.
In questi giorni faremo il possibile per riportare, descrivere, analizzare i conflitti presenti nel globo, lontani e vicini: ben sapendo che la fase più dura, anche per noi, deve ancora venire. Gli attacchi allo Statuto dei Lavoratori integrano e completano la riforma dell'Università, la fine del Contratto Nazionale di Lavoro e i tagli verticali alle sovvenzioni ed ai sussidi.
Prepariamoci a tornare in piazza e non smettiamo di fare politica: se queste lotte hanno carattere costituente, la nostra azione può generare un avvenire diverso.

Tratto da GlobalProject-Il tumulto continua e dilaga. Al terzo giorno di scontri ed espropri, quella che era cominciata come una rivolta localizzata contro il razzismo della polizia, sta assumendo contorni per certi versi inaspettati e diventando il “caso più serio e distruttivo di violenza urbana dai tempi delle rivolte di Brixton e Toxteth del 1981”, per usare le parole del quotidiano britannico the Guardian. Non più solo Londra ma altre città del paese. Non più solo giovani uomini e donne afro-caraibici od asiatici, i gruppi etnici più colpiti dalle angherie della polizia, ma anche bianchi britannici.
Le rivolte di questi giorni e la facilità e rapidità con cui si sono diffuse stanno portando alla luce l’esistenza di diversi conflitti. Il primo riguarda il comportamento della polizia ed il razzismo istituzionale. L’uccisione del taxista afro caraibico Mark Duggan, ed il successivo comportamento arrogante e sprezzante della London Met, il corpo di polizia della capitale britannica, che nella serata di sabato si è rifiutata di dare qualsivoglia spiegazione o rassicurazione ai familiari ed amici che chidevano giustizia e si erano radunati di fronte alla stazione della polizia di Tottenham, dimostrano che non molto è cambiato dalla rivolta di Brixton del 1981 scoppiata proprio a causa di un incidente analogo. Quella rivolta portò ad un inchiesta parlamentare, poi sfociata nello Scarman report, che riconobbe l’esistenza di comportamenti razzisti diffusi nei confronti degli abitanti afro-caraibici da parte della polizia. L’uccisione di Duggan e la rabbia espressa da migliaia di giovani e non ci dice che la polizia è un’istituzione ancora profondamente razzista.
Il secondo conflitto espresso dalle rivolte di questi giorni investe il piano di austerity ed i progetti di ristrutturazione del welfare state e della spesa pubblica da parte del governo Cameron. La dinamica delle rivolte di questi giorni, con i saccheggi di grandi magazzini di beni di largo consumo come le televisioni e gli articoli elettronici, l’abbigliamento sportivo, i telefoni cellulari, sono una forma di riappropriazione del reddito da parte di settori della popolazione che sono stati severamente colpiti dalla crisi e dai tagli di spesa pianificati dal governo. La stessa partecipazione di giovani bianchi ci dice che le rivolte di questi giorni non sono solo la legittima sollevazione di chi viene quotidianamente vessato dalla polizia od escluso sul mercato del lavoro a causa del proprio background etnico.
Haringey, la circoscrizione a cui appartiene il quartiere di Tottenham, è considerata una delle cinque zone più svantaggiate di Londra, con una disoccupazione, soprattutto giovanile, che nell’ultimo anno è cresciuta del 10%. In questo quartiere, nelle ultime settimane sono stati chiusi 13 youth clubs, centri giovanili di aggregazione organizzati dal comune, un fatto che ha suscitato sconcerto e rabbia tra la popolazione locale. Più in generale, nel paese, migliaia di strutture, dalle biblioteche ai servizi sociali o sanitari, verranno drasticamente ridimensionate o dovranno chiudere i battenti, con conseguenti effetti occupazionali, in seguito al taglio della spesa pubblica del 25% circa fino al 2013.
I tumulti di questi giorni vanno inquadrati in un contesto di protesta sociale diffusa, anche se non coordinata. Da quando Cameron è andato al governo poco più di un anno fa ed ha lanciato il suo programma di tagli il paese ha visto le proteste degli studenti tra cui l’assalto al quartiere generale dei Tory, l’occupazione di decine di università, diversi scioperi e proteste nei confronti dei consigli comunali dove venivano discussi i bilanci e decisi i tagli di spesa, la grande manifestazione del 26 marzo seguita da diverse azioni di sabotaggio nei confronti di catene commerciali e banche accusate di evadere il fisco. In questi giorni, le rivolte a Londra ed in altre città inglesi. È chiaro che ciascuno di questi eventi è stato scatenato da cause immediate diverse. Eppure, il filo conduttore è unico ed è la brutale politica economica del governo. I tumulti di questi giorni sono il segnale che la corda si è spezzata. L’illusione coltivata dalla santa trinità dei tagli Cameron-Osborne-Clegg che i piani di austerity sarebbero stati accettati senza che la pace sociale venisse compromessa ed in nome della compatibilità del sistema è definitivamente svanita.
Nicola Montagna, docente di sociologia alla Middlesex University di Londra.

5.8.11

I partiti sono diventati macchine di potere. - Intervista a Enrico Berlinguer

  
Riportiamo fedelmente l'intervista fatta ad Enrico Berlinguer da Eugenio Scalfari 30 anni fa...


La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.

Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
«La Repubblica», 28 luglio 1981

1.8.11

Marcos e la quarta guerra mondiale

IL SUBCOMANDANTE MARCOS scrisse il testo che alleghiamo qui sotto in Pdf, facilmente scaricabile e di rapida lettura, nella primavera del 2007. E’ forse il saggio di Marcos più lungo e più ambizioso. E’ una descrizione del mondo della globalizzazione, che a quell’epoca dispiegava tutto il suo ottimismo consumistico e completava la conquista del pianeta. Attraverso sette diverse «tessere» del rompicapo, il «sup» spiega gli effetti di questa rivoluzione globale.
Leggerlo oggi, a quindici anni di distanza, fa impressione. Di fatto, guerre e «crisi perfetta» (che mescola crisi ambientale e sociale, economica e finanziaria…) sono prefigurate in modo preciso. Non che Marcos sia un Nostradamus, ma – come scrivemmo allora a commento del testo io stesso, Marco Revelli e Gianfranco Bettin – è dai «margini» dell’impero globale del commercio e dell’economia della crescita che si potevano leggere più agevolmente le tendenze – catastrofiche – che il capitalismo mondializzato aveva messo in moto.
Quel testo fu tradotto dal sottoscritto e pubblicato in un libretto che andò in edicola come supplemento al manifesto. E fu un successo sorprendente: quasi 45 mila copie vendute. La ribellione zapatista era in quel periodo molto popolare, molto più di oggi, quando le comunità ribelli resistono a un assedio subdolo ma violento del governo federale: una resistenza che dura ormai da diciassette anni.

Vi proponiamo «La quarta guerra mondiale è cominciata», titolo con il quale lo pubblicammo in italiano e fu pubblicato da Le Monde diplomatique in francese e in spagnolo, come lettura estiva. Se ne possono ricavare spunti e idee – come suggerisce l’instancabile Annamaria Pontoglio, cui si deve il Pdf e la diffusione del testo nella sua lista di amici dell’Ezln – molto utili per affrontare quel che ci sta capitando ora. (Pierluigi Sullo)