31.7.11

La catastrofe annunciata del Corno d'Africa.

In questi giorni alcuni giornali si sono accorti, e hanno deciso di far sapere, quanto sta accadendo nel Corno d'Africa, dove la fortissima siccità espone al rischio della morte per fame milioni di persone. I campi profughi della zona sono stracolmi, eppure basterebbe davvero poco per salvare centinaia di migliaia di vite. Queste sono le questioni che deovno interessarci e per le quali dobbiamo muoverci.
Che oggi, nella società dell'opulenza e della ricchezza, della vita piegata alla produzione, si possa morire di fame, non è che la prova del fatto che viviamo dentro un sistema malato.
Malato per le ingiustizie che provoca e la morte che porta con sé.
Malato perché riesce a non farci vergognare di quello che abbiamo o della bassezza dei nostri problemi dinnanzi a tragedie come questa.



di Matteo Guglielmo, dottore in Sistemi Politici dell'Africa all'Università degli Studi 'L'Orientale' di Napoli.

RUBRICA GEES, CORNO D'AFRICA. La regione è sconvolta da una grave carestia. Particolarmente colpita la Somalia, dove la popolazione è in fuga dalla fame e dal conflitto. Portare assistenza è difficile. Le strategie internazionali, quelle di al Shabaab e il business dell’aiuto.
Da diverse settimane che il Corno d’Africa affronta una grave carestia, la più dura degli ultimi sessant’anni secondo le parole di Elisabeth Byrs, portavoce dell’ufficio di coordinamento per gli Affari umanitari dell’Onu. Anche se da gennaio le Nazioni Unite avevano cercato di mettere in guardia i donatori internazionali, la grave siccità causata dall’insufficienza di pioggia ha costretto migliaia di persone a spostarsi. Secondo l’Unhcr almeno 11 milioni di persone sono a rischio malnutrizione, mentre la mole di aiuti richiesta per affrontare solo i prossimi due mesi si aggira intorno ai 300milioni di dollari.

La Somalia è il paese più colpito: nel mese di giugno circa 20mila abitanti hanno lasciato le province centro-meridionali del Basso Shabelle, del Bay e del Bakool per raggiungere Mogadiscio. Molti altri sono fuggiti dal paese, diretti nei campi di Dadaab (Kenya) e Dollo Ado, sul confine etiopico. Solo a Dadaab sono ospitate circa 400mila persone, e i somali che hanno trovato rifugio in altri Stati della regione come Etiopia, Kenya, Yemen, Gibuti, Eritrea, Uganda e Tanzania sono circa un milione, su una popolazione che secondo alcune stime non dovrebbe superare le 10-12milioni di unità.

Le cifre sconcertanti dell’ultima crisi si innestano nel clima di scontro che tende ad aumentare di ora in ora. I problemi principali per le organizzazioni umanitarie derivano dall’impossibilità di operare sul territorio; neanche le Istituzioni federali di transizione (Ift) di Mogadiscio rappresentano un partner adeguato per gestire le risorse finanziarie e gli aiuti. L'alto tasso di corruzione, come sottolineato in un recente rapporto del centro di ricerca statunitense Atlantic Council, impone alla comunità internazionale la ricerca di nuove e più efficaci strategie di aiuto.

A gravare sulla crisi somala non sono solo le lacune istituzionali, che peraltro delegittimano e indeboliscono anche la missione di peace-support dell’Unione Africana Amisom agli occhi degli stessi attori politici e militari, ma anche la mancanza di linee politiche precise della comunità internazionale, la quale continua ad agire in modo disarticolato.

Gli Stati Uniti, che ormai da tempo hanno avviato un processo di disimpegno dal teatro politico somalo, restano tuttavia concentrati sul settore della sicurezza, riservando i maggiori sforzi politico-militari all'antiterrorismo e alla lotta alla pirateria. Un’inchiesta del settimanale statunitense The Nation ha rivelato che la Cia avrebbe da tempo inaugurato una sede a Mogadiscio, dove sarebbero stati avviati dei programmi di extraordinary renditions condotti da forze speciali somale addestrate e finanziate direttamente da Washington.

Negli Stati Uniti è in vigore inoltre una struttura, denominata Office of foreign assets control (Ofac) che vigila e impedisce al Tesoro di mobilitare risorse finanziarie per progetti o aiuti diretti in luoghi dove vi è il comprovato rischio di creare vantaggi anche per i gruppi inseriti nella lista nera del terrorismo. Ciò vorrebbe dire che se al-Shabaab resta per Washington un’organizzazione terroristica connessa ad al Qaida, saranno automaticamente escluse dagli aiuti Usa tutte le popolazioni che si trovano sotto l’amministrazione del movimento islamista.

Anche l’Unione Europea continua ad anteporre il paradigma della sicurezza all’azione politico-diplomatica unitaria. La necessità di predisporre una diplomazia capillare e capace di muoversi all’interno delle innumerevoli sfumature del teatro somalo resta prioritaria anche rispetto all’adozione di misure di aiuto che si possano riconvertire in politiche di sostegno allo sviluppo. Anche se la Commissione Europea ha annunciato un aumento del fondo per la carestia di circa 28milioni, il rischio è che ancora una volta non si riesca a guardare al di là della mera emergenza.

La questione legata all’aiuto umanitario nel Corno d’Africa, e in particolare in Somalia, ha sempre rappresentato un terreno scivoloso, che ha finito in alcuni casi per protrarre la crisi, rendendola di fatto strutturale. Gli aiuti sono spesso diventati un business lucroso per gli attori armati presenti sul campo, come ad esempio per diversi signori della guerra che prima del 2006 - ovvero nel periodo antecedente all’avvento delle Corti Islamiche - si erano suddivisi i quartieri della capitale e i suoi sobborghi.

Secondo fonti somale ci sarebbero proprio queste dinamiche dietro la prima apertura degli Shabaab verso le agenzie dell’Onu, poi prontamente smentita col netto rifiuto degli aiuti da parte del portavoce dei giovani mujahiddin Sheikh Ali Mohamed Raghe. Per le fonti locali infatti i circa 20mila sfollati giunti questo mese dalle regioni del Bay e Bakool a Mogadiscio sarebbero stati costretti a spostarsi nella capitale da alcuni elementi del movimento islamista che speravano di impadronirsi delle risorse connesse alla gestione degli aiuti.

Che siano fondate o meno, queste voci denotano comunque l’esistenza di un forte dibattito all’interno degli Shabaab. Resta la difficoltà di affrontare una crisi sempre più stratificata e multidimensionale, dove ai conflitti interni si sommano dinamiche regionali e globali fortemente destabilizzanti.




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