22.4.11

Lavoro come bene comune

Proponiamo un articolo interessante uscito su Carta pochi giorni fa, che ben si inserisce nel percorso sui beni comuni che il Laboratorio sta per affrontare. Tra l'altro, l'autore - Paolo Cacciari - sarà a Macerata il 31 maggio per presentare il suo ultimo libro ("La società dei beni comuni"), nell'ultima iniziativa di "Costruire bene Comune".


Si sta avvicinando lo sciopero generale [e generalizzato, speriamo] del 6 maggio. Un appuntamento fortemente voluto dalla Fiom. In molte città si sono costituiti comitati Uniti contro la crisi e per lo sciopero generale.
Uno degli aspetti più innovativi [e controversi] delle mobilitazioni dei metalmeccanici dopo Pomigliano e Mirafiori è stato lo slogan «Lavoro bene comune». Di impatto immediato e di facile percezione, è un altro modo di dire: «il lavoro non è una merce». Una affermazione in controtendenza rispetto al processo di individualizzazione del lavoro e di privatizzazione del rapporto di lavoro. Già Karl Polany [1886–1964, l’autore de La grande trasformazione] scriveva che terra [risorse naturali] e lavoro umano sono «merci fittizie», nel senso che non sono «prodotti» in senso proprio da nessuna impresa capitalistica e quindi nessuno se ne può impadronire, comprare e vendere a suo piacimento. Ma non solo. Riconoscere e rivendicare il lavoro come bene comune contiene una proposta in positivo: sottrarre la «forza lavoro» alla disponibilità del mercato e delle sue logiche [sfruttamento al minimo costo, precarizzazione, concorrenza tra lavoratori…] e, contemporaneamente, assegnare al lavoro una funzione sociale generale.
«Lavoro come bene comune» significa considerare il lavoro un patrimonio sociale collettivo, connotato da diritti di cittadinanza e democrazia. Lo stesso valore monetario del lavoro è solo il prezzo simbolico, convenzionale, derivato dal posto che la società decide di attribuirgli. Mani, cervello e tempo, non sono pinze, calcolatori e orologio marcatempo. Sono abilità, pensiero, sentimenti, vita.
Il lavoro può uscire da una dimensione esclusivamente individuale e privata e diventare un «bene comune» solo all’interno di un processo in cui assume alcune specificazioni qualitative. Se si realizzano almeno tre condizioni. Ricordava Friedrich Schumacher [Piccolo è bello, prima edizione del 1973, ora riedito da Slow Food] che la funzione del lavoro è triplice: «dare all’uomo una opportunità di utilizzare e sviluppare le sue facoltà; metterlo in condizione di superare il suo egoismo unendosi ad altri in un’impresa comune; infine, produrre i beni e i servizi necessari a un’esistenza degna». Vediamo in dettaglio queste tre condizioni.
Primo. Il lavoro è parte costitutiva dell’autorealizzazione dell’essere umano. Il lavoro può definirsi un bene solo se si fonda sulla dignità del lavoratore e produce un ritorno di appagamento e di gratificazione in chi lo ha svolto perchè adeguato alle aspirazioni e alle capacità di ciascuno. Il prodotto, il frutto del lavoro, non può essere considerato più importante del lavoratore stesso. Diceva sempre Schumacher: «organizzare il lavoro in modo che perda ogni significato, diventando noioso, degradante o una tortura per i nervi del lavoratore sarebbe poco meno che criminale». Quello che già prima Erich Fromm chiamava «robotismo» della società moderna. «L’impossibilità di progettare il proprio futuro, condanna i lavoratori ad essere soggetti ansiosi, angosciati, smarriti: soggetti la cui esistenza è deturpata dall’incertezza permanente cui sono soggetti» [Mario Alcano, La società-azienda e la biopolitica, in Critica Marxista, 2011]. Per contro, il «lavoro buono» è quello che restituisce soddisfazione a chi lo compie bene.
Secondo. Il lavoro è un bene comune se viene svolto in cooperazione virtuosa, in mutua, creativa e affettuosa collaborazione [non con rivalità] tra tutti coloro che in un modo o in un altro concorrono alla realizzazione dei prodotti. Il lavoro continua a essere lo spazio principale di socializzazione di gran parte degli individui. Si apre qui tutto il campo teorico e sperimentale delle forme di co-decisione e di partecipazione dei lavoratori alle decisioni economiche e aziendali.
Terzo. Il lavoro ha una funzione sociale e diventa un bene sociale comune se è finalizzato alla produzione di manufatti e servizi capaci di soddisfare i bisogni vitali degli individui, quindi utili al miglioramento della vita e delle condizioni della vita su questo pianeta. L’utilità effettiva di un prodotto-merce non è quasi mai determinata dal gioco del mercato. Le attività lavorative devono far proprie e devono essere orientate a risolvere le sfide epocali che l’umanità ha di fronte: la sostenibilità ambientale [quindi evitare il suicidio della specie umana], la lotta alla povertà [quindi il contenimento demografico], l’equità [quindi la giustizia e la democrazia sociale]. Gli obiettivi di rientro nella sostenibilità ambientale e quelli per la dignità del lavoro, devono poter essere posi al centro dell’organizzazione del lavoro e delle politiche economiche.



Nessun commento:

Posta un commento