27.9.10

Non occorre essere musulmani per non avere piacere di entrare in chiesa

Camminando per il centro di macerata il mio sguardo si sofferma sulle notizie esposte fuori dalle edicole, atte a richiamare l'attenzione dei lettori sui fatti più importanti, o giudicati tali. Questa volta però i miei occhi leggono qualcosa di incredibilmente strano; il Corriere Adriatico titola: Macerata, classe visita la basilica
Tre studenti musulmani: non entriamo
Lo stupore e l'incapacità di capire perché quel fatto fosse in prima pagina si mescolano, e il dubbio che l'accaduto fosse stato strumentalizzato non è così remoto.
L'articolo infatti narra l'accaduto enfatizzando alcuni caratteri e tralasciandone altri importanti. Ad esempio nel tracciare i tratti dei tre ragazzini coinvolti, dice testualmente:Un ragazzo pachistano e due ragazzine mediorientali, una delle quali indossava il foulard islamico, forse temendo di essere costretti ad assistere ad una cerimonia religiosa, hanno detto agli insegnanti: "Noi non possiamo entrare in una chiesa".
Ma il cronista si dimentica di dire che non è la funzione religiosa a essere discriminante nella decisione dei tre di rimanere all'esterno, lo è il fatto che non tutti gli appartenenti alla religione musulmana hanno facoltà e piacere di entrare in un luogo di culto che non sia la moschea.
Inoltre la frase riportata dal cronista è decisamente stigmatizzante e tendenziosa.(una delle quali indossava il foulard islamico, commento inutile ai fini della cronistoria e volontariamente riportato per lasciare spazio a tutto quell'immaginario che vede nel velo uno strumento di oppressione, fondamentalismo e rigidità-diversità).
Lo stesso preside, che a colloquio con i tre ragazzi, spiega che entrare in chiesa per una attività di carattere culturale non ha valenza religiosa e non presuppone alcun coinvolgimento, si dimentica di mettersi nei panni delle persone che ha davanti: non sarà un coinvolgimento religioso per lui, magari lo è per loro e nessuno può giudicare sbagliato un sentire che, anche se non fosse supportato da un precetto di carattere culturale-religioso, è comunque un sentire proprio di tre persone che esprimono un disagio e una esigenza.
Quando la smetteremo di confondere l'accettazione e l'accoglienza con la subordinazione? Quando la smetteremo di agire e pensare come se l'Italia fosse uno stato confessionale di religione cristiano-cattolica? Quando la smetteremo di confondere l'integrazione con l'assimilazione? Quando la smetteremo di pensare che ciò che va bene per noi stessi è la regola per tutti? Quando la smetteremo di essere ignoranti e di dare per scontato tutto quello che è diverso da noi? Quando la smetteremo di affermare che si fa così da sempre quindi è giusto? Quando la smetteremo di fare finte attività di integrazione, finte marce per la pace e finti laboratori sul rispetto dei diritti umani nelle scuole?
Mi chiedo: come si saranno sentiti quei tre ragazzi e come li avranno percepiti i loro compagni di classe dal momento che, invece di trattare questo fatto come una libera scelta personale e di rispettarla in quanto tale, è stato passato ancora una volta il messaggio del diverso uguale sbagliato....
Non occorre essere musulmani per non avere piacere di entrare in chiesa, anche se per una attività a sfondo culturale, basta essere atei. Ma non avrebbe fatto tanta notizia, sarebbe passato come il solito ragazzo bullo e disobbediente che per provocazione è rimasto fuori.
E' ora di imparare ad incontrare l'altro non di far finta di accettarlo fino a quando non mina la nostra stabilità emotiva, valoriale, culturale.
Piena solidarietà ai tre ragazzi.
Per leggere l'articolo:

Valentina

20.9.10

"ll coraggio della nonviolenza: riflessioni ed esperienze"

Ecco un'iniziativa promossa da Assopace sulla nonviolenza.

Programma:
Sabato 25/09/2010
Ore 10:00: Apertura e introduzione
Sirio Conte, Associazione per la Pace http://www.assopace.org/
Interverranno:
Lisa Clark, Associazione Beati costruttori di Pace http://www.beati.org/
Oliviero Alotto, Associazione Terra del Fuoco http://www.terradelfuoco.org/
Giulio Marcon, Campagna Sbilanciamoci http://www.sbilanciamoci.org/
Riccardo Troisi, Città dell'Altra Economia http://www.cittadellaltraeconomia.org/

Luisa Morgantini, Associazione per la Pace
Gabriella Stramaccioni, Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie http://www.libera.it/
Lubna Masarwa, Comitati per la resistenza nonviolenta, Free Gaza http://www.freegaza.org/
Ronnie Barkan, Comitati per la resistenza nonviolenta, Anarchici Contro Muro http://www.awalls.org/ Gruppo Donne Dal Molin http://www.nodalmolin.it/
Operazione Colomba http://www.operazionecolomba.com/

Ore 14:00 Break

Ore 15:30 In Italia e all’estero “Campagne e Progetti”
Farshid Nourai. – Associazione per la Pace
Intervengono i rappresentanti dei gruppi locali dell’Associazione per la Pace.
Dibattito: Pacifismo, nonviolenza “Il nostro futuro”
Moderatore: Gianni Rocco, Associazione per la Pace

Ore: 18:30 Chiusura della prima giornata


Domenica 26/09/2010

Ore 10:00 Dibattito: documento finale del Congresso
Modera: Laura Cappelli e Giannina Del Bosco, Associazione per la Pace
Bilancio Nazionale
Marco Dell’Armi, Associazione per la Pace
Approvazione del documento finale
Rinnovo degli incarichi sociali.

Ore 14:00 Chiusura dei lavori.


Come arrivare alla Città dell'Altra EconomiaDalla Stazione Termini: Metro, linea B, scendere a Piramide Con autobus: linea 75, scendere alla fermata Marmorata – Galvani
Per pernottamento i soci possono utilizzare la Città dell’Utopia in Via Valeriano 3F, IT 00145 Roma previa di prenotazione. Occorre munirsi di saccopelo e asciugamani. Il costo, per la notte del 25/08, è di €8,00. Le prenotazioni devono essere inviati esclusivamente via e.mail al
assopace.nazionale@assopace.org

17.9.10

Sul Laboratorio: qualche 'perché' e molti 'come'...

Il punto di partenza del Laboratorio Giovanile Sociale è stato un NO: la presa d'atto dell'incapacità dei partiti, nelle loro proposte, forme e pratiche, di essere punto d'incontro di soggettività e persone nonché punto di snodo di idee politiche condivise. Il riconoscimento di questa lacuna, forse storica o forse contingente, ci spinge a chiederci come sia possibile una Politica che sia Polis, luogo di comunione e comunità, non semplice amministrazione dell'urbs ma vero centro di costruzione di una civitas. Il nostro NO alla politica dei partiti di oggi, ripiegati su rendite di posizione e ancor di più fondati sul monopolio gerarchico nella proposta e nella gestione dell'apparato, non si limita al rifiuto di queste pratiche infelici, ma è figlio di una profonda considerazione: non c'è politica senza partecipazione. La politica, in special modo in una città di piccole dimensioni e grandi potenzialità come Macerata, non può non essere partecipazione e condivisione di luoghi, ricerca collettiva di parole e proposte adatte alle esigenze nostre e della cittadinanza tutta. Il NO ai partiti è un grande NO alla politica della delega, della rappresentanza, delle oligarchie, degli pseudo-tecnici che decidono in piccole riunioni come lavorare per la città.
Ecco perché il Laboratorio si configura come un luogo nuovo, in divenire e da costruire: provare a mettere assieme realtà, pratiche collettive, lavorando su temi specifici e provando ad ascoltare direttamente la voce della gente, partendo dai giovani. Partendo da noi, da ciò che siamo, dalle nostre ansie e paure, ma anche dalla volontà e dai sogni che la Politica deve saper declinare.
Questo percorso, che non risponde alle logiche elettorali di ricerca del consenso, vuole viceversa edificare una casa comune, che fa della partecipazione il suo baluardo, della messa a disposizione dei saperi, della capacità, delle creatività un momento di scambio e arricchimento.

Uno spazio, per certi versi, privo d'identità... de-identitarizzato... Sempre dentro un orizzonte culturale e politico di riferimento, ritengo sia il momento di mettersi in gioco e interrogarsi, porre sul tavolo alcune domande e cercarne risposte.

Solo in questa cornice possiamo inserire i percorsi di ricerca dei prossimi mesi:
-ri-politicizzare le scuole: stimolare forme di aggregazione (politica, culturale, sportiva) in uno spazio sempre più ridimensionato, depotenziato, culturalmente degradato a momento di passaggio (agli occhi dello studente), di controllo (a quelli del professore) e pseudo-costruzione di capitale umano (per i ministri);
-tavole rotonde sul lavoro: da situare anche fisicamente nei luoghi del conflitto (fabbriche, call center, università), vogliono porre in questione il lavoro, nella convinzione che prima che tema cruciale della politica è momento essenziale della vita, luogo di un confronto aspro sulla pelle delle persone il cui valore sembra scomparire definitivamente dinnanzi a casi come quelli di Pomigliano e Melfi;
-incontri sulla questione palestinese: partendo dall'esperienza di alcuni di noi, nonché dalla testimonianza di chi lavora, studia e coopera in Medioriente, provare ad interrogarci su un conflitto paradigma delle oppressioni globali; insomma, non rinunciare a mettere la testa fuori da Macerata e dall'Italia;
-la Scuola della Politica: un momento di formazione su alcune tematiche specifiche (la partecipazione, il lavoro, le nuove frontiere dei diritti) con esperti, studiosi e praticanti della Differenza, nella convinzione che training di auto-formazione permettano di mettere in comune esperienze, fare ricerca condivisa, stimolare proposte e domande, favorire la messa in rete.

Questi sono solo alcuni dei tracciati che possiamo percorrere assieme, con l'obiettivo di costruire una coscienza critica basata sull'informazione, la ricerca e condivisione continua, le buone pratiche sul territorio.
Crediamo che soltanto questo genere di lavoro possa rispondere alla crisi politico-culturale che investe la nostra città come tutto il Paese. L'inadeguatezza attuale di rappresentanti che si reputano classe dirigente non fa scomparire la cruciale questione della rappresentanza e del momento elettorale; tuttavia la nostra convinzione è che solo un lavoro sul territorio che riorganizza lo stare assieme e la collaborazione, risponde ai problemi attraverso micro-pratiche anche quotidiane, possa generare quel mutamento di humus di cui il Paese tutto avrebbe bisogno.

14.9.10

Partiti e società.

di Gustavo Zagrebelsky

“Politica” è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa.
Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b). Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? – inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare “con” le altre persone, non “sopra”, nemmeno “accanto” o, peggio, “altrove”; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, “uno di loro”; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, “si entra”, o, come si dice autorevolmente, “si scende” (una volta si sarebbe detto “si sale” o si “ascende”), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che “giro” appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che “gira”, per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna “allevare” nuove leve politiche, il linguaggio – l’allevamento – tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto “ricambio”, quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta “società civile”, un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di “politico” vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come “i salotti” dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa “società civile”, piuttosto “incivile”, chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi “servitori civili”, quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello “Che cos’è il terzo stato”, un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: “Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa”. Noi potremmo tradurre: “Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa”.
Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere. Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia “il” partito, ma vi siano “i” partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole,” democratura”, secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di “posti” che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: “questa è casa mia” e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti “integri”, cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un “sistema” e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra “normale” e “diverso”, eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di “scenari”, alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.
(Intervento per la Festa del PD, Torino, 11 settembre 2010)

13.9.10

«Pochi docenti e 40 alunni in una sola classe». Ecco le storie del primo giorno di scuola.

Le campanelle che sono suonate per riportare in classe decine di migliaia di ragazzi hanno risvegliato molti dal torpore indotto dall’ennesima favola berlusconiana, quella di una scuola perfetta, un luogo che il premier, per mano del suo ministro Gelmini, avrebbe reso paradisiaco, pieno di ultimi ritrovati tecnologici e percorsi didattici all’avanguardia.

Ma già fin dalla prima ora di lezioni è stato evidente che quando il ministro parlava di “selezioni meritocratiche degli insegnanti” intendeva mandare a casa i precari e ridurre la didattica, quando prometteva risorse in verità nascondeva tagli. E sembra di sentirle le voci spezzate, arrabbiate, sconfortate di insegnanti e genitori che a centinaia ci hanno scritto per denunciare una scuola in ginocchio.

Milena Guadagno, da Salerno, fa due più due e crede di aver capito cosa la Gelmini intenda per “meritocrazia”: «Trentotto alunni più disabile nella stessa aula: la scuola della meritocrazia». Sempre dalla Campania fa sentire la sua anche Marina Palumbo: «Io denuncio una situazione ancora più terrificante, i tagli ai docenti di sostegno, in una scuola con 40 alunni diversamente abili dovremmo coprire i posti con solo 14 docenti, il governo taglia i diritti di istruzione e formazione anche a chi ne avrebbe più bisogno».

Situazione simile in provincia di Agrigento: «A Licata – scrive Emma Giannì – ce ne sono 2, di prime superiori, con 40 alunni, e 2 con 35, come gestirli?». Davanti i cancelli delle elementari i problemi, se possibile, si moltiplicano. «Ho visto bambini – scrive sulla nostra pagina Facebook Roberto Zannini – con carta igenica, scatole di gessetti, cancellini per la lavagna e risme di carta da portare a scuola, e dopo? Ma dove stiamo andando? Ogni regime ha voluto un popolo ignorante colpendo sempre le scuole, ogni regime taglia l'istruzione, perchè l'istruzione fa paura al regime!».

E se è vero, come è vero, che in quegli anni lì si formano personalità e visioni della vita, chissà cosa si è impresso negli occhi delle due bambine di Francesca: « Primo giorno di scuola delle mie figlie: quinta elementare e prima elementare. Emozione, attesa e... tanta tristezza. Tristezza per il prato incolto, tristezza per la classe che ospiterà la prima senza tende, con i vetri sporchi, senza gesso né cancellino, con la sala computer senza computer, e soprattutto senza maestre. Abbiamo una maestra di ruolo che farà italiano e inglese (sempre sperando che lo sappia!), una maestra non ancora assegnata che farà matematica, una maestra "di supporto" e una maestra che farà geografia. Dal maestro unico siamo passati allo spezzatino di maestre».

Dall’altro lato della cattedra, la situazione non è meno problematica. Maria Luisa Militello scrive: «Precaria da anni, oggi sono passata vicino alla scuola elementare di Padova dove mi è capitato di insegnare l’anno scorso. Un nodo mi si è formato in gola, a vedere i miei ragazzi, le mie bambine, le tante ore passate con loro a fornirgli le conoscenze base su cui formeranno la loro futura cultura. Finora, per me, nessuna chiamata. Sono siciliana, ho deciso comunque di trasferirmi in Veneto, lontana dai miei affetti, per provare la sorte anche quest’anno, anche se le prospettive sono nerissime».

Le fa eco Francesca, supplente Ata, che a 51 anni si ritrova ancora precaria: «Per molti ragazzi è stato il primo giorno di scuola, e lo è stato anche per me, che ho 51 anni e sono una supplente ATA, costretta quindi a cambiare scuola ogni anno e a svolgere un lavoro completamene diverso ogni anno. Tutto ciò a discapito di chi vive la scuola. Quelle che il Ministro racconta sono le sue verità, perchè l'assorbimento dei precari è previsto nella misura di una parte dei pensionamenti e non delle necessità delle scuole, che nel tempo si sono viste triplicare il lavoro e dimezzare il personale».

11.9.10

11 settembre, missione incompiuta: tutti gli errori Usa nella lotta al terrore.

In America, l’anniversario dell’11 settembre si profila polemico. Da una parte la destra cristiana incita a bruciare il Corano nelle pubbliche piazze e dall’altra il Tea Party, il movimento conservatore, accusa il Presidente Obama di essere musulmano.
Invece di onorare i 3 mila morti nell’attacco terrorista più spettacolare della storia moderna, l’America cerca vendetta. Eppure pochi giorni fà le truppe di stanza in Iraq sono tornate a casa, una decisione che Washington ha preso per motivi elettorali: l’amministrazione non vuole arrivare alle mid-term elections di novembre, considerate una sorta di referendum sulla sua popolarità, con i cadaveri dei soldati americani negli aeroporti militari.

Voltare pagina senza una vittoria è però difficilissimo. L’elettorato sa bene che le truppe si sono lasciate alle spalle una nazione democratica, che però da sei mesi non riesce a formare un governo, un Paese etnicamente diviso dove la violenza sta tornando a far parte del quotidiano. Il desiderio di vendetta della destra cristiana nasce proprio dalla certezza di aver perso la guerra contro il terrorismo, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan dove l’esercito talebano continua ad avanzare ed Osama bin Laden è ancora a piede libero. Quello del resto del Paese invece è stimolato dalla crisi economica dal momento che molti intuiscono che tra terrorismo ed economia esiste un filo diretto.
Per seguirlo bisogna rivisitare l’assurda certezza di bin Laden, espressa alla fine degli anni Novanta in una serie di lettere, le Epistole Ledenesi, dove spiegava che l’11 settembre avrebbe inflitto un colpo mortale all’economia americana. Anche se i danni a Wall Street sono stati trascurabili, paradossalmente la risposta di Bush ha messo in moto una serie di eventi che hanno fatto precipitare l’America e l’occidente nel pantano economico attuale.

Il Patriot Act, introdotto poche settimane dopo la distruzione delle Torri Gemelle, non solo non ha tarpato le ali al finanziamento del terrorismo ma ha inflitto un durissimo colpo al dollaro.
Per paura di essere perseguitati, gli investitori musulmani hanno rimpatriato circa 3000 miliardi di dollari mentre le banche internazionali, per evitare i controlli delle autorità monetarie americane, hanno suggerito alla clientela di ridurre gli investimenti in dollari ed aumentare quelli in euro. Infine, il riciclaggio del denaro sporco ha traslocato dagli Stati Unti in Europa, dove ancora oggi non esiste una legislazione simile. Questi eventi hanno rivoluzionato i flussi dei capitali, riducendo drasticamente la domanda mondiale di dollari che a sua volta ha fatto crollare il valore del biglietto verde.

La war on terror passerà alla storia come il conflitto più costoso mai intrapreso e questo perché lo scopo vero non era catturare Osama bin Laden e distruggere al Qaeda, ma ridisegnare la mappa geopolitica del mondo. Un’impresa gigantesca preannunciata nel lontano 1993 dall’allora sottosegretario alla difesa Dick Cheney che voleva rilanciare il ruolo egemonico degli Stati Uniti nelle aree strategiche del pianeta.
L’Iraq dove dal 1991 tutte le amministrazioni americane, inclusa quella di Clinton, avevano cercato di sbarazzarsi di Saddam Hussein, era una di queste. Con l’elezione di Bush figlio questa visione del mondo diventa il credo dei neo-conservatori e la guerra contro il terrorismo lo strumento per metterla in atto.

A finanziare questa follia economica e politica non è però l’erario pubblico ma la vendita del debito pubblico statunitense all’estero. E per rendere competitivi i 4 mila miliardi di dollari di buoni del tesori che l’America di Bush ha smerciato sul mercato dei capitali internazionali la Federal Riserve non esita a tagliare drasticamente i tassi di interesse. Si tratta di un vero crollo: dal 6% alla vigilia dell’11 settembre al 1,2% nei primi mesi dell’estate del 2003 quando Bush dichiara Missione Compiuta.
Alan Greenspan persegue questa politica deflazionista in un momento in cui l’economia mondiale cresce troppo rapidamente e c’è pericolo che si formino bolle finanziarie, quando insomma c’è bisogno di una politica di tassi alti per frenare l’economia. Lo fa perché l’abbattimento dei tassi è lo strumento utilizzato per combattere tutte le crisi economiche della globalizzazione, da quella del Rublo, a quella dei mercati asiatici, e l’11 settembre ha innescato in occidente una mini recessione.

Oggi sappiamo che questa politica ha creato le condizioni ideali per la creazione e diffusione dei mutui subprime e per la cartolarizzazione del debito insolvente, ovvero la genesi della crisi del credito. A quasi 10 anni dall’11 settembre l’America ha capito che la guerra contro il terrorismo è alla radice dei suoi mali economici e cerca quella vendetta che ne’ Bush ne’ Obama hanno saputo darle: la distruzione del vero nemico.

10.9.10

Antidemocratici.

Rimaniamo solo agli ultimi giorni.
Il presidente del consiglio cerca di scassinare la Costituzione e di portare a compimento la distruzione del liberalissimo principio della divisione dei poteri affermando che il presidente di uno dei due rami del parlamento deve rispondere a lui; una deputata della maggioranza denuncia la diffusione della prostituzione elettorale; il segretario del maggior partito di opposizione dice che la politica è ormai «una fogna»; l’associazione di categoria degli industriali rivendica lo smantellamento unilaterale del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici; il sindaco di Roma e il ministro dell’interno chiedono che anche in Italia comincino le deportazioni per i migranti; la poltrona del ministero dello sviluppo è vuota nonostante quel dicastero debba gestire più di 170 tavoli di crisi aziendale [e sono solo alle aziende con più di 150 dipendenti]; il presidente del Consiglio di Stato – organo supremo della giustizia amministrativa – compare nelle liste della cricca di Anemone; un sindaco del salernitano viene freddato vicino casa sua, pare che avesse denunciato connivenze tra forze dell’ordine e criminalità.
Secondo la quasi unanime voce degli editorialisti e dei politici, l’attacco alla democrazia arriva dai contestatori della festa del Pd di Torino, colpevoli di aver rumorosamente criticato il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Secondo i suscettibili commentatori, gli unici a dover rispettare il savoir faire istituzionale devono essere quelli che hanno sempre scelto di metterci la faccia [e a volte la fedina penale] per esprimere critiche alla luce del sole. Più che mettere sul piatto il disco rotto dei «provocatori che fanno il gioco degli avversari», quelli del Pd dovrebbero riflettere sui successi dell’arena della loro festa nazionale, che ha ospitato ovazioni per chiunque si presentasse a correggere la linea del partito [Di Pietro e Vendola] e fischi per gli «interlocutori» istituzionali e sindacali [Schifani e Bonanni]. In alternativa, si potrebbe proporre l’istituzione della comoda e rassicurante «tessera del manifestante», che, dopo il successo di quella del tifoso, potrebbe portare a riempire le piazze con civilissimi e silenziosi contestatori di cartapesta muniti di deodoranti alle violette in luogo di fumogeni.
Si può ovviamente valutare l’opportunità di protestare. E altra cosa è discutere le forme e l’efficacia di un gesto piuttosto che un altro. Ma chi dice che fischiare in una piazza – o sventolare un’agenda rossa o cantare Bella ciao – equivale a essere violenti è un irresponsabile. Gridare alla guerra civile e alla democrazia in pericolo di fronte a un fumogeno significa indicare implicitamente la strada della clandestinità e del gesto individuale ai giovani precari e ai naufraghi della rappresentanza in cerca di uno spazio pubblico in cui far valere le proprie idee e uscire dalla solitudine.
Nell’Inghilterra che faceva scuola ai tempi della chicchissima «terza via», nessun giornale si inalbera quando l’ex primo ministro Tony Blair è costretto a rinunciare alle presentazioni del suo libro di memorie per timore di sacrosante contestazioni. Ma si sa, nell’era di Marchionne bloccare la catena di montaggio è compiere un gesto di sabotaggio alla produzione che vale il licenziamento in tronco. E fischiare un politico o un sindacalista è minacciare il libero confronto democratico.

8.9.10

Gli ultimi della classe.

L'Italia è agli ultimi posti in Europa per investimenti sulla scuola: più precisamente è penultima, precede solo la Slovacchia. I dati, pesanti ma non certo inaspettati, vengono dall'Ocse, che ieri ha diffuso il suo consueto report annuale sul mondo dell'istruzione. Il nostro paese spende il 4,5% del pil nelle istituzioni scolastiche, contro una media Ocse del 5,7%. Numeri che sostengono le critiche di opposizione e sindacati (in particolare la Cgil) contro il governo e la ministra Mariastella Gelmini. Gelmini che, però, ieri non batteva ciglio, e anzi ribaltava i dati Ocse a proprio favore.La Slovacchia, «ultima della classe», spende solo il 4% del Pil. Ai primi posti si piazzano invece Islanda, Stati Uniti e Danimarca. Ogni scolaro costa in media ogni anno, in Italia, 6622 dollari (non molto lontana dalla media Ocse di 6687 dollari). L'Italia è inoltre ultima in classifica, per la percentuale di spesa pubblica destinata alla scuola, il 9% (rispetto a una media del 13,3%), seguita da vicino da Giappone e Repubblica ceca. Ma c'è un'altra notizia che certamente non stupirà nessuno, che purtroppo è scientifica conferma di quanto tutti nel nostro paese già sanno: gli insegnanti della scuola pubblica italiana vengono pagati poco, e in particolare meno della media dei colleghi dei Paesi Ocse. Come se non bastasse, il divario si accentua con il passare degli anni di servizio. Un maestro elementare italiano, ad esempio, guadagna poco più di 26.000 dollari l'anno a inizio carriera, contro una media Ocse di quasi 29.000. Alla fine della carriera, il suo stipendio sale a 38.381 dollari, ma la media nei Paesi Ocse è salita a 48.000 dollari, cioè quasi 10 mila euro in più. Lo stesso vale per il professore delle scuole medie (che guadagna tra i 28.098 dollari iniziali e i 42.132 di fine carriera) e per il docente delle superiori: quest'ultimo, tra gli insegnanti italiani, ha l'aumento più consistente, passando nel corso della carriera da 28.098 dollari a 44.041, ma la media dei suoi colleghi di altri Paesi passa da 32.500 dollari a oltre 54.700.Il solito disastro del Belpaese, che gli istituti internazionali ogni volta non fanno altro che certificare. Dalle associazioni studentesche, dall'opposizione e dalla Cgil, arrivano le critiche più pesanti al governo, dato che ha tagliato quest'anno ben 8 miliardi di euro all'istruzione pubblica. Dati negativi anche dal rapporto studenti insegnanti, e dalla dimensione delle classi: gli studenti sono più numerosi nelle classi italiane (22 contro una media Ocse di 18) e il rapporto studenti/insegnante è tra i più bassi (16,4 contro una media di 10,6). In Italia le ore di istruzione previste per i ragazzi tra i 7 e i 14 anni sono 8.200. Solo in Israele gli studenti stanno più a lungo sui banchi, mentre la media Ocse si ferma a 6.777. Secondo Mimmo Pantaleo, segretario Flc Cgil, l'Ocse «boccia sonoramente le politiche del governo sul sistema d'istruzione: l'Italia non solo spende meno, ma ha tagliato risorse pari a 8 miliardi di euro in tre anni alla scuola e 1,3 miliardi all'università. Per il governo l'istruzione è un costo e non una risorsa. Gli insegnanti sono pagati molto meno dei loro colleghi europei ma il governo ha bloccato per tre anni gli stipendi e cancellato gli scatti d'anzianità».La ministra Gelmini valuta i dati, al contrario, come «la conferma delle politiche del governo: gli studenti non devono passare tante ore in aula per avere una buona istruzione, e le retribuzioni degli insegnanti devono aumentare in base al merito e non solo per l'anzianità». Per Pd, Idv e Rete degli studenti medi, l'Ocse «boccia la Gelmini», e tutti chiedono «più investimenti nell'istruzione, come vera ricetta anti-crisi». Secondo la Cisl scuola, le cifre Ocse sono «occasione per una riflessione seria su alcuni problemi cronici».

4.9.10

Sconcerto.

Oggi condivido con voi l'assurdità totale di una situazione, quella israelo-palestinese, che oltrepassa i limiti dell'immaginario e raggiunge picchi di violenza inaudita, tanto violenti quanto sistematici e inarrestabili. E così vi presento Omar, un uomo intelligente, accogliente, delicato e umile, che in Palestina tre settimane fa ci chiese di aiutarlo a demolire la sua casa o almeno a portare fuori tutto il materiale che vi era all'interno prima della demolizione. Ricordo le facce di tutti quando il giorno di andare da Omar si avvicinava, i miei compagni di viaggio ed io non potevamo nominare quell'impegno preso senza il groppo in gola di chi non se la sente ma porta a compimento una richiesta fatta da un amico. Che dolore.
Siamo stati da Omar, abbiamo conosciuto la sua famiglia allargata, abbiamo ascoltato i loro racconti, ovviamente serviti e riveriti come fossimo gli ospiti più attesi, abbiamo visionato quei documenti che dovrebbero aver garantito Omar a suo fratello, abbiamo tentato di capire. Ma cosa c'è da capire quando l'assurdità di fa legge...
Così abbiamo abbiamo visitato quella casa e abbiamo filmato le ragioni di Omar per dar loro voce, per tentare almeno di far sapere quello che subisce il popolo palestinese; ma nulla più di questo.
L'abbiamo aiutato come potevamo e ci siamo salutati alla nostra partenza all'aeroporto, consapevoli che quella casa sarebbe stata demolita nonostante tutto.
Così è stato e vedere quei video è davvero una tortura, immaginate per Omar....
Non ho parole per descrivere, spero solo che leggiate anche voi, che non avete avuto la fortuna di conoscere Omar e guardando abbiate la sensibilità di indignarvi.
Omar non sei solo.

KARIM LEBHOUR: “UN NEGOZIATO INUTILE CHE VA BENE A TANTI”

Il commento dell'autore di "Jours tranquilles à Gaza" sui colloqui diretti israelo-palestinesi che si aprono oggi a Washington
di Irene Panighetti
Gerusalemme, 2 settembre 2010, Nena News – “Questi ennesimi incontri non porteranno a nulla, la gente a Gaza ne è convinta, ha la stessa disillusione che visse per la conferenza di Annapolis”: commenta così la stringente attualità Karim Lebhour, giornalista francese di Radio France Internationale che vive a Gerusalemme, invitato qualche giorno fa dal centro culturale francese per presentare il suo libro Jours tranquilles à Gaza (edizioni Riveneuve). “Sono negoziati inutili –ha spiegato- perché a tutti va bene lo status quo: a Israele, che può continuare a colonizzare la Cisgiordania; a Fatah, che riesce a stare al governo anche se il vincitore delle elezioni, democratiche ma non riconosciute dalla comunità internazionale, fu Hamas; ad Hamas, che almeno ha uno stato, seppur minuscolo e che, paradossalmente, potrebbe essere l’unico stato palestinese ad oggi possibile”. Dopo anni di osservazioni e di condivisione della vita politica e quotidiana della popolazione di Gaza il giornalista si è persuaso che “a Israele va bene che ci sia Hamas a Gaza, altrimenti lo avrebbe già eliminato, ha i mezzi per farlo, tra omicidi mirati e attacchi missilistici. Dal 1991 Israele ha iniziato ad isolare Gaza, cercando di perseguire l’intento di dividere sempre più la Striscia dalla Cisgiordania. Ha via via revocato i permessi di lavoro e poi ha messo in atto vere e proprie operazioni belliche, tra cui Piombo Fuso, che per me è iniziata, in modo indiretto, il 4 novembre, il giorno delle elezioni negli Usa. Quel giorno Israele violò la tregua con Hamas, con incursioni nel territorio della Striscia. Non è stato Hamas a romperla, ma Israele –insiste Lebhour- che non solo è riuscito a fare di Gaza una realtà assolutamente diversa dalla Cisgiordania, ma che ha sempre puntato a sfruttare la Striscia come pretesto per perseguire il suo fine politico, che, in questo momento, a me sembra profilarsi così: ridurre le restrizioni a Gaza, magari come frutto di questi incontri, dare l’illusione di una piccola libertà per poter continuare, al contrario, a tenersi la Cisgirodania come zona da colonizzare”.
Parole chiare e piuttosto insolite per un pubblico israeliano che, come è apparso lampante alla presentazione del libro, non ha alcuna idea di come si viva a Gaza, ma nemmeno in Cisgiordania, per un pubblico che “per lo più vuole dimenticare il conflitto, vivendo un una bolla come accade a Tel Aviv”, ha osservato Lebhour. Le domande lo hanno dimostrato con chiarezza, in particolare quelle relative a Gilat Shalit, che hanno fatto capire come una questione di poco conto nell’economia reale della situazione della Striscia, sia invece percepita come dirimente da chi resta alla superficie delle questioni. “Andare oltre il banale, prodotto della sovraesposizione mediatica in cui si trova la Palestina, andare al di là della caricatura per smentire le false credenze e le leggende metropolitane, per dare l’idea dell’assurdità della situazione di Gaza, resa tale dalla politica israeliana: questo è ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro- precisa l’autore, che su Shalit ha fornito la riposta che riceveva quando lui faceva la stessa domanda alla gente di Gaza: “Shalit? E chi è? Un prigioniero di guerra, tutto qui. Citatemi un solo prigioniero palestinese prigioniero da anni in Israele…” Certo, il giornalista è convinto che per un solo uomo la popolazione di Gaza abbia dovuto pagare un prezzo troppo alto, ma è anche certo che “questo non si dirà mai in situazioni pubbliche, nelle quali prevale la propaganda di Hamas”. In proposito del partito al governo Lebhour ha osservato come dall’estate 2009 ci sia stato un cambiamento, “una tentativo di islamizzare la società ma in modo insensato, proponendo misure che cozzano contro le tradizioni secolari, per esempio il tentativo di vietare di fumare il narghilé in pubblico, e che quindi sono respinte dal corpo sociale stesso”. Infine il giornalista ha voluto precisare agli israeliani presenti al Centro di Cultura Francese e che dimostravano di non sapere affatto la vera situazione dei Gazaui, che “a Gaza non c’è crisi umanitaria, la gente non muore di fame. C’è una crisi di dignità, la cui responsabilità ricade sull’assedio e sulla politica di Israele”.

tratto da http://www.nena-news.com/, portale di informazione indipendente sulla Palestina