17.4.12

Lavoro e beni comuni: che ne dite? di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei

Articolo del 17.04.2012 su Il Manifesto

Proviamo a dare qualche contenuto concreto alla discussione sul soggetto politico nuovo che si svolgerà il 28 aprile prossimo a Firenze. Così possiamo cominciare a rispondere alle diverse posizioni critiche che sono state avanzate nel dibattito (molto vivo e interessante) che sta svolgendosi sul Manifesto.
Innanzitutto, una decisione che va presa a Firenze, cominciando a sperimentare subito il piacere di decidere collettivamente, è il nome del nuovo soggetto. Il nome non è questione da poco, perché per suo tramite si offre un orizzonte di senso alla nostra operazione politica.

Un nome è poi indispensabile per qualunque uso istituzionale si voglia fare del nuovo soggetto sia prima che alle elezioni del 2013. Ciò risulta di una qualche urgenza perché autorevoli compagni hanno letto nella attuale denominazione di “soggetto politico nuovo” un accento di nuovismo politico. Nulla di più lontano dalle nostre intenzioni. Il nuovismo, la rottamazione, il far pulizia, il giovanilismo sono tutte manifestazioni becere di antipolitica e vanno in una direzione opposta rispetto al nostro scopo di contribuire a un’altra politica che pensi e rifletta prima di lanciare facili slogan e scorciatoie. Noi proponiamo di chiamarci Lavoro e beni comuni (Lbc).

Altri hanno parlato di Democrazia continua. A parte l’acronimo imbarazzante di quest’ultima denominazione, lavoro e beni comuni segnala senza ambiguità che il nostro soggetto politico nasce nel conflitto il quale si sta articolando, a livello globale, sulla ristrutturazione costituente del rapporto fra capitale e lavoro, declinato sulla questione proprietaria e sui beni comuni. Immaginando il soggetto politico nuovo come un “Cln anti-tecnocrazia”, noi collochiamo la nostra proposta come declinazione italiana di una grande resistenza globale. Diremmo quasi, se non fossimo pacifisti senza se e senza ma, che l’Italia deve schierarsi (dando l’ esempio fra le grandi economie occidentali) a fianco dei popoli oppressi del Sud globale, in una guerra mondiale di liberazione contro l’oppressione del neoliberismo che, come i peggiori regimi del ’900, sta devastando il mondo e lo stesso piacere e senso di vivere.
Il rapporto fra capitale e lavoro, contro le plurime declinazioni della sovranità autoritaria, sarà dunque il terreno di sfida e i beni comuni l’orizzonte di senso e di alleanze globali con cui cercare di vincere, stabilendo un’egemonia nuova finalmente sostitutiva di quella neoliberale, divenuta anche da noi sempre più aggressiva, para-fascista e comunque in stridente contrasto coi nostri valori costituzionali. Nome e collocazione politica globale dovrebbero da un lato far chiarezza sulle alleanze possibili e sul grande discrimine politico, e dall’altra ci consentono di superare (non di buttare via ma di contestualizzare storicamente) contrapposizioni che potevano aver senso nel ’900, con la sovranità politica ancora salda negli Stati ma che non ne hanno più oggi che la sovranità è privatizzata a livello globale. È oggi che Lavoro e beni comuni (o come altro si chiamerà) dichiara che “non c’è più tempo”. È sul contesto dell’oggi che deve articolare la sua proposta per il domani. Collocarsi dalla parte del lavoro e affrontare la questione dei beni comuni significa resistere all’accumulo proprietario senza fine, con ogni strumento di lotta politica, sociale e giuridica, a livello globale e locale contemporaneamente.

Cosa faremmo nei nostri primi 100 giorni di governo? Questa è la proposta che dobbiamo cominciare a elaborare a Firenze, per aver pronta fra un anno un’alternativa sistemica credibile. Nulla di meno! Dobbiamo smetterla di parlare di risultati a due cifre come se una rappresentanza parlamentare minoritaria in un Parlamento che non conta più nulla potesse soddisfarci. Forse interesserebbe a qualche politicante in cerca di ricollocazione, non certo a chi vuole liberare l’Italia dalla tirannia tecnocratica ed autoritaria del pensiero unico neoliberale. Avrà senso partecipare alle elezioni, come uno degli strumenti di lotta politica in campo, se si riesce a organizzare una grande alleanza capace di esprimere in modo credibile una proposta di governo del paese che davvero inverta la rotta, proponendo anche a livello globale un modello italiano, che innanzitutto passa dalla piena consapevolezza che il re è nudo.

Proponiamo di seguito un decalogo per la discussione fiorentina. Alcune proposte potrebbero sembrare radicali ma ci paiono percorribili e indispensabili nella ricerca di un modello che faccia l’ interesse del 90% della popolazione. Si tratta di articolare le tre sovranità di cui parlava Tonino Perna, un’operazione che chiunque abbia buon senso non può che voler sottrarre dagli interessi privati multinazionali.

1. Rinegoziare radicalmente il debito pubblico. L’Italia deve dar vita ad un audit serio che si collochi come base per rinegoziare la nostra stessa posizione in Europa. La sovranità monetaria va recuperata senza tabù. La stessa esclusività dell’euro come valuta in circolazione va ripensata.

2. Ri-nazionalizzazione delle principali banche dopo averle sottoposte a audit. Piano quinquennale di attuazione dell’ art. 43 Costituzione in materia economica, alimentare ed energetica di informazione e di cultura. Ricostruzione di un Iri che intervenga a salvaguardia delle aziende in crisi finanziando e supportando il loro progressivo trasferimento ai lavoratori.

3. Azzeramento del budget offensivo della difesa e uscita immediata dell’ Italia da ogni azione di guerra globale, anche se mascherata da intervento umanitario. Muovere passi concreti per una collocazione internazionale dell’ Italia come paese neutrale. Uscita immediata dalla Nato e apertura di negoziato volto a chiudere ogni presenza militare sul nostro territorio.

4. Moratoria immediata su ogni processo di dismissione, privatizzazione o liberalizzazione e contestuale promulgazione di una legge che stabilisca principi chiari e trasparenti sulle condizioni di governo del patrimonio pubblico.

5. Tassa patrimoniale sulla ricchezza mobiliare ed immobiliare con un’aliquota fortemente progressiva. Tassa sullo spreco, il che include l’acquisto e l’utilizzo di Suv ed altri veicoli socialmente dannosi. Utilizzo dei proventi di tale tassazione per l’immediato finanziamento di posti di lavoro per un grande piano pubblico di tutela del territorio e del patrimonio immobiliare.

6. “Reddito minimo” garantito e immediata abrogazione della riforma pensioni e della riforma del lavoro così come concepite dalla tecnocrazia. La retribuzione deve garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

7. “Reddito massimo” controllato: nessuno deve poter guadagnare in nessuna forma oltre una certa cifra annua (250 mila euro è la nostra proposta).

8. Moratoria venticinquennale di ogni grande opera. Riconversione di quanto stanziato a tal fine per opere volte a favorire la libera circolazione delle persone sul territorio a prezzi accettabili ed in condizione degne.

9. Semplificazione radicale dell’ordinamento giuridico e dell’organizzazione amministrativa tramite istituzione di una commissione permanente di monitoraggio e riforma del diritto. Riforma del sistema penale e recupero della funzione riabilitativa della pena. Depenalizzazione dell’uso della droga e di ogni reato connesso col disagio della migrazione tramite politiche di integrazione fortemente proattive.

10. Introduzione di una tassazione seria sulla successione per dare a ogni giovane che nasce in Italia opportunità non troppo diverse da ogni altro. Limiti di durata per la concessione della personalità giuridica privata. Statuto giuridico di diritto pubblico per i partiti politici e per i sindacati.

Si può fare? Si tratta davvero di un programma che può prendere voti solo a sinistra o se ben spiegato parla il linguaggio di un nuovo senso comune? Cominciamo a parlarne a Firenze, tenendo conto che l’egemonia passa attraverso l’abbattimento delle barriere fra destra e sinistra, proprio come ha saputo fare il neoliberismo reagan-tatcheriano, creando una falso realismo che ha portato laburisti, democratici, socialisti e socialdemocratici a di tutto il mondo a perseguire politiche di destra senza neppure saperlo.

11.4.12

La svolta autoritaria del neoliberismo. Debito e austerità: il modello tedesco del pieno impiego precario

di MAURIZIO LAZZARATO
[Prefazione all’edizione italiana de La Fabbrica dell’uomo indebitato, Derive Approdi, marzo 2012]


L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato.
K. Marx, Le lotte di classe in Francia

L’uscita dalla crisi si fa fuori dai sentieri tracciati dall’Fmi. Questa istituzione continua a proporre lo stesso tipo di modello di aggiustamento fiscale, che consiste nel diminuire i soldi che si danno alla gente – i salari, le pensioni, i finanziamenti pubblici, ma anche le grandi opere pubbliche che generano lavoro – per destinare il denaro risparmiato al pagamento dei creditori. È assurdo. Dopo quattro anni di crisi non si può andare avanti a togliere denaro sempre agli stessi. È esattamente quello che si vuole imporre alla Grecia! Tagliare tutto per dare tutto alle banche. L’Fmi si è trasformato in un’istituzione con lo scopo di proteggere unicamente gli interessi finanziari. Quando si è in una situazione disperata, com’era l’Argentina nel 2001, bisogna saper cambiare carte.
Roberto Lavagna, ministro argentino dell’Economia tra il 2002 e il 2005

Meno di vent’anni dopo la «definitiva vittoria sul comunismo» e a quindici anni dalla «fine della storia», il capitalismo è entrato in un’impasse storica. Dal 2007 è vivo grazie alle trasfusioni di somme astronomiche di denaro pubblico. Eppure continua a girare a vuoto. Nel migliore dei casi, riesce a riprodursi, ma dando un colpo di grazia, con rabbia, a ciò che resta delle conquiste sociali degli ultimi due secoli.
Da quando è scoppiata la «crisi dei debiti sovrani» fornisce uno spettacolo esilarante del proprio funzionamento. Le regole economiche di «razionalità» che i «mercati», le agenzie di rating e gli esperti impongono agli Stati per uscire dalla crisi del debito pubblico sono le stesse che hanno prodotto le crisi del debito privato (d’altra parte all’origine della prima). Le banche, i fondi pensione e gli investitori istituzionali esigono dagli Stati il riordino dei bilanci pubblici, quando ancora detengono miliardi di titoli spazzatura, che sono il risultato di una politica di sostituzione di salari e reddito con un sistema di credito. Le agenzie di rating, dopo aver dato un giudizio di triplice A a titoli che oggi non valgono più niente (con un campione di 2679 titoli su 17.000, relativi a prestiti immobiliari, una banca ha fatto un’analisi dei giudizi di Standard & Poor’s: il 99% aveva una triplice A al momento dell’emissione, ma oggi il 90% ha giudizi che scoraggiano l’investimento: non-investment grade), hanno la pretesa, contro qualunque buon senso, di detenere il giusto giudizio e la buona misura economica. Gli esperti (professori di economia, consulenti, banchieri, funzionari di Stato ecc.) – la cui cecità sui disastri che la presunta autoregolazione dei mercati e della concorrenza ha prodotto sulla società e sul pianeta è direttamente proporzionale alla loro servitù intellettuale – sono stati catapultati dentro governi «tecnici», che ricordano irresistibilmente i «comitati d’affari della borghesia». Più che di «governi tecnici» si tratta di «tecniche di governo» autoritarie e repressive che segnano una rottura persino con il «liberalismo» classico.
Ma al colmo del ridicolo stanno probabilmente i media. L’«informazione» dei telegiornali e i talk-show ci spiegano che «la crisi è colpa vostra, perché andate troppo presto in pensione, perché spendete troppo in cure mediche, perché non lavorate così a lungo e così bene come si dovrebbe, perché non siete abbastanza flessibili, perché consumate troppo. Insomma, avete la colpa di vivere ben al di sopra dei vostri mezzi».
La pubblicità, invece, che viene regolarmente a chiudere il becco ai discorsi colpevolizzanti di economisti, esperti, giornalisti e uomini politici, afferma esattamente il contrario: «Siete del tutto innocenti, non avete alcuna responsabilità! Nessun errore e nessuna colpa macchia la vostra anima. Tutti, senza eccezione, meritate i paradisi della nostra merce. È un vostro dovere consumare in modo compulsivo».
Gli «ordini» e le ingiunzioni veicolati dalle semiotiche significanti del senso di colpa e dalle semiotiche iconiche e simboliche dell’innocenza si scontrano. C’è aperta contraddizione tra la morale ascetica del lavoro e del debito e la morale edonista del consumo di massa, esse non sono più ricomponibili.
Più che a un’uscita dalla crisi, tutta questa agitazione somiglia a un circolo vizioso nel quale il capitalismo sembra impantanato. La visione delle nostre classi dirigenti non andando mai oltre il loro portafogli, c’è da aspettarsi il peggio. La ferocia con la quale i governi tecnici e non perseguono il rimborso del debito e la difesa della proprietà privata (i rappresentanti delle banche e dei fondi creditori del debito greco hanno provato, stando al «New York Times», a portare in giudizio alla Corte europea per i Diritti dell’uomo lo Stato greco, che violerebbe dei diritti fondamentali: «property rights are human rights») non indietreggia di fronte a niente. Persino la recessione e la depressione (Grecia) sono mali minori di fronte all’eventualità di non mantenere la promessa di rimborsare il debito. In una recente intervista, il presidente della Bce propone, con un cinismo alquanto tatcheriano, rimedi che non solo sono all’origine della crisi, ma che non faranno altro che aggravarla: diminuzione dell’imposizione per arricchire i ricchi e riduzione delle spese sociali per impoverire i poveri. I politici sono ridotti a fare i contabili e i «procuratori» (Marx) del capitale. Sarkozy ha proposto che le entrate per pagare «gli interessi del debito greco vengano depositate su un conto bloccato che funzioni da garanzia affinché i debiti dei nostri amici greci vengano saldati». Angela Merkel, «favorevole» all’idea, ritiene che la cosa consentirebbe di essere «sicuri che questi soldi siano disponibili in modo durevole».
Se vi è una costante nel capitalismo, è appunto quella di uno stato di guerra al quale il liberalismo sembra condurre in forma quasi «automatica». La guerra inter-capitalistica appare oggi meno intensa di quella che ogni singolo capitale nazionale conduce contro il proprio nemico interno. I diversi capitalismi, in disaccordo su come dividersi la torta dello sfruttamento mondiale, convergono su come intensificarla all’interno dei singoli Stati.
Per uscire dalla crisi, i tempi sono quelli delle «riforme» strutturali: regolazione della finanza? Ridistribuzione della ricchezza? Riduzione delle disuguaglianze, della precarietà, della disoccupazione? Fine della scandalosa «assistenza» dello Stato sociale e dei regali fiscali ai ricchi e alle imprese? Le uniche «riforme di struttura» immaginate e messe in opera sono due: ristrutturazione del mercato del lavoro accompagnata dalla riduzione dei salari e drastici tagli alle spese sociali, a cominciare, come sempre, dai sussidi di disoccupazione. Il modello di riferimento è tedesco. In una delle sue comparsate televisive, Sarkozy ha citato la Germania nove volte e il governo tecnico di Mario Monti seduce la novella «lady di ferro», dalla quale riceve diretti «consigli».

Il modello tedesco
Da dieci anni la Germania porta avanti politiche di flessibilizzazione e di precarizzazione del mercato del lavoro e di rigidi tagli allo Stato sociale. Al parlamento europeo, Daniel Cohn-Bendit ha chiamato in causa direttamente Angela Merkel: «Com’è possibile che un paese ricco come la Germania abbia il 20% di poveri?»1. L’ex sessantottino è un grosso ingenuo o soffre di amnesia? Meglio dire un cinico ipocrita, visto che è stato il governo «rosso-verde» di Schröder ad aver introdotto, tra il 2000 e il 2005, la gran parte delle leggi all’origine della situazione attuale: quelle di un «pieno impiego precario» che hanno trasformato disoccupati e «inattivi» in una massa impressionante di working poors. Servono un minimo di storia e qualche dato per scovare le miserie del modello tedesco che la troika (Europa, Fmi, Bce) sta imponendo a tutti i paesi europei.
Tra il 1999 e il 2005 il governo «rosso-verde» ha portato avanti, appoggiandosi allo slogan «Fördern und fordern» (promuovere ed esigere), quattro riforme dell’assistenza alla disoccupazione e del mercato del lavoro, l’una più catastrofica dell’altra (leggi Harzt).
Nel gennaio 2003 la legge Harzt II ha introdotto i contratti «mini-job», una sorta di contratto di lavoro al nero legalizzato (sollevano i datori di lavoro dalle contribuzioni sociali e non garantiscono agli assunti né copertura per la disoccupazione né pensione), e i contratti «midi-job» (salario tra i 400 e gli 800 euro), spingendo tutti a farsi imprenditori della propria miseria.
Nel gennaio 2004, la legge Harzt III ristruttura le agenzie per l’impiego nazionali e federali, con l’obiettivo di intensificare il controllo dei comportamenti e della vita e l’accompagnamento individuale dei lavoratori poveri. Una volta pronti i dispositivi della “governance” dei lavoratori poveri, il governo rosso-verde approva una serie sbalorditiva di leggi per «produrli». La legge Hartz IV, entrata in vigore il primo gennaio 2005, prevede:
– Riduzione della durata delle indennità, da tre anni a un anno; irrigidimento delle condizioni di accesso e obbligo di accettare qualunque lavoro proposto. Per avere diritto al sussidio di disoccupazione occorre essere stati assunti per almeno dodici mesi nel corso dei due anni precedenti la perdita dell’impiego. Dopo un anno di sussidio, il disoccupato percepisce l’aiuto sociale (l’equivalente di un reddito di solidarietà) pari a un importo di 359 euro a persona, rivalutato a 374 euro. Una relazione dell’agenzia federale per l’impiego indica che un lavoratore su quattro che perde il proprio impiego riceve direttamente l’aiuto sociale (Arbeitslosengeld II: ALG II) e non l’indennità di disoccupazione (ALG I). La ragione sta nella tipologia di impiego che il lavoratore ha appena perso: precario o mal pagato.
– Riduzione delle indennità versate ai disoccupati di lunga durata che rifiutino di accettare lavori sotto-qualificati.
– I disoccupati devono accettare impieghi a un salario di 1 euro l’ora (addizionale al sussidio disoccupazione che percepiscono).
– Possibilità di ridurre gli indennizzi dei disoccupati che hanno dei risparmi e dunque possibilità di accesso ai conti bancari degli «assistiti». Possibilità di valutare lo standard dell’alloggio dell’«assistito» e di richiedere, se necessario, un trasferimento.
I beneficiari dell’aiuto sociale Hartz IV sono stimati in 6,6 milioni, di cui 1,7 milioni di bambini. I restanti 4,9 milioni di adulti sono in realtà dei working poors impiegati per meno di 15 ore settimanali. Nel maggio 2011, le statistiche ufficiali ormai dichiaravano cinque milioni di contratti mini-job, con un aumento del 47,7%, preceduti solo dal boom dell’interinale (+134%). Si tratta di forme di contratto molto diffuse anche tra i pensionati: 660.000 di loro cumulano le pensioni a un mini-job2. Una parte importante della popolazione, il 21,7%, nel 2010 è assunta part-time.
L’istituto di statistica tedesco ha misurato l’aumento della precarietà e delle forme che essa assume: tra il 1999 e il 2009, tutte le forme di lavoro atipico sono cresciute almeno del 20%3. Le più colpite sono le famiglie monoparentali (le donne) e gli anziani. Nella cornice del pieno impiego precario, il tasso di disoccupazione ufficiale esibito come un segno del «miracolo economico tedesco» non significa granché! L’esercito di working poors in continua espansione non è formato unicamente da precari, ma anche da lavoratori con un contratto a durata indeterminata. Nell’agosto 2010, una relazione dell’istituto del lavoro dell’università di Duisburg-Essen ha infatti stabilito che oltre 6,55 milioni di persone in Germania ricevono meno di 10 euro lordi all’ora, con un aumento di 2,26 milioni in dieci anni. Per la maggior parte sono vecchi disoccupati che il sistema Hartz è riuscito ad «attivare»: quelli con meno di 25 anni, gli stranieri e le donne (69% del totale). D’altra parte, due milioni di occupati guadagnano meno di 6 euro all’ora, mentre nell’ex Repubblica democratica tedesca sono in molti a tirare avanti con meno di quattro euro all’ora, cioè 720 euro al mese a tempo pieno. Risultato: i working poors rappresentano il 20% degli occupati tedeschi.4
Durante la crisi finanziaria, il governo è ricorso massicciamente alla disoccupazione parziale, che consente all’impresa di versare solo il 60% della normale retribuzione e di pagare solo la metà delle contribuzioni sociali. Altro risultato della svolta iniziata da Schröder: rispetto al Pil, dal 2002 la quota dei salari è scesa del 5% oltre-Reno. I cambiamenti voluti dai «rosso-verdi» sono significativi: dopo anni di proliferazione caotica e selvaggia della precarietà, di sotto-impieghi e sotto-salari, era venuto il momento di introdurre una regolazione e una razionalizzazione della povertà e della precarietà, costituendo un «vero» e «coerente» mercato del lavoro di «pezzenti», che spingerà alla flessibilità e all’adeguamento alla ragione economica anche i meglio occupati. È la popolazione nel suo complesso – precari, working poors, lavoratori qualificati – a diventare fluttuante, disponibile alla flessibilità permanente. Le diverse componenti della «forza lavoro» sociale sono ormai una semplice variabile di aggiustamento della congiuntura economica.
Il programma «rosso-verde» si è guadagnato il nome che porta: «Agenda 2010»5; perché dieci anni dopo la prima legge Hertz i risultati sono, fuor di metafora, micidiali. In Germania, l’aspettativa di vita dei più poveri – di coloro che arrivano solo al 75% del reddito medio – diminuisce. Per le persone a basso reddito, stando alle cifre ufficiali, è scesa da una media di 77,5 anni nel 2001 a 75,5 nel 2011. Nei Länder dell’Est del paese è ancora peggio: l’aspettativa media di vita è scesa da 77,9 a 74,1 anni.
La Germania è il primo paese europeo a seguire gli Stati Uniti sulla strada del progresso liberista. Ancora due decenni di sforzi per «salvare il sistema pensionistico» e la morte coinciderà con l’età della pensione. Anche la guerra interna ha i suoi «bombardamenti chirurgici» mirati. Se niente cambia, nell’ex Germania dell’Est l’aspettativa di vita scenderà a 66 anni, appena un anno prima del diritto alla pensione. Mors tua, vita mea! Ma poco importa: l’economia è sana, le «agenzie» danno giudizi positivi, i creditori si abbuffano e l’aspettativa di vita della parte più ricca della popolazione continuerà ad aumentare.
Serve una breve digressione su Peter Hartz, promotore delle leggi sul regime di disoccupazione e della riforma degli aiuti sociali; perché la sua condanna a due anni di prigione con condizionale e al pagamento di una multa di 576.000 euro è un esempio della «corruzione» consustanziale al modello neoliberista. Peter Hartz, ex responsabile delle risorse umane di Volkswagen e grande moralizzatore degli Anspruchdenker, dei «profittatori del sistema», ha ammesso di aver versato a Klaus Volkert, sindacalista dell’IG Metall ed ex presidente del consiglio di fabbrica del costruttore di automobili tedesco, diverse mazzette, per pagare prostitute e viaggi esotici. Klaus Volkert, inevce, è stato portato in giudizio per incitamento all’abuso di fiducia, esattamente come l’ex direttore del personale, Klaus-Joachim Gebauer, accusato di complicità.
Fare della povertà e della precarizzazione una variabile strategica della flessibilità del mercato del lavoro è quanto, dietro il ricatto del debito, sta avvenendo in Italia, Portogallo, Grecia, Spagna, Inghilterra e Irlanda.6 La Francia si è impegnata su questo terreno con l’arrivo al potere di Sarkozy, anche se qui i risultati non sono così eclatanti come in Germania. Grazie ancora una volta a un uomo di centro-sinistra, Martin Hirsch, assunto dal presidente di destra in occasione della sua apertura a «sinistra», in Francia verrà sperimentata la trasformazione dell’aiuto sociale (Reddito minimo di inserimento – Rmi –, a 417 euro a persona) in arma di produzione di working poors (Reddito di solidarietà attiva – Rsa). È con le tecnologie di governo dei poveri che si testano dispositivi di potere e di controllo che in un secondo tempo verranno estesi all’insieme della società, cosa che non sembra interessare né la sinistra né i sindacati. Il Reddito di solidarietà attiva comporta il superamento dei dualismi fordisti (disoccupazione/impiego, salario/ reddito, diritto del lavoro/diritto dell’assistenza sociale, legge/contratto) e organizza la loro sovrapposizione e il loro concatenamento grazie alla figura del working poor. Fissa in maniera stabile lo statuto di un lavoratore/assistito che permette di accumulare salario di attività e reddito di «solidarietà». Questa confusione tra «salariato» e «assistito», tra lavoro, disoccupazione e assistenza sociale, tra diritto del lavoro e diritto del Welfare, è la condizione della costruzione di un grande segmento de mercato del lavoro, che ha per norma il sotto-impiego e un sotto-salario. Il Reddito di solidarietà attiva segna così l’ufficiale abbandono dell’obiettivo del pieno impiego e l’istituzione di politiche di «piena attività», intesa come un’attività per tutti, indipendentemente dalla durata e dalla qualità dell’impiego.7
Anche la riforma del mercato del lavoro che il «governo tecnico» italiano si sta apprestando ad approvare s’ispira direttamente al modello tedesco. Il ministro delle Politiche sociali Fornero, in una lettera alla «Stampa» del 4 marzo lo dice a chiare lettere. La traduzione della realtà tedesca nella Nuova Lingua con la quale si esprime la «governance», è un capolavoro di ipocrisia e di falsità:
“L’esempio più recente di una riforma complessiva del mercato del lavoro e degli strumenti di protezione sociale – prescindendo dal percorso recentemente avviato dalla Spagna – è offerto dagli interventi realizzati in Germania all’inizio del decennio scorso quando il Paese era ritenuto il «malato d’Europa», incapace di crescere e di superare l’urto della riunificazione. Le riforme tedesche hanno interessato tutti gli aspetti del mercato del lavoro e del Welfare: miglioramento degli strumenti di istruzione professionalizzanti e facilitazione del passaggio tra scuola e lavoro; sostegno alla partecipazione al mercato del lavoro e all’occupazione, anche parziale, delle fasce più svantaggiate; rafforzamento del legame tra il godimento di particolari trattamenti e l’effettiva azione di riqualificazione e di ricerca di lavoro; potenziamento dell’attività dei centri per l’impiego; introduzione di maggiore flessibilità, sia con nuove tipologie contrattuali sia negli spazi della contrattazione tra impresa e lavoratore”.
Dietro il ricatto del debito, lo Stato intende portare a termine quel passaggio, inaugurato negli anni Ottanta, dal Welfare (diritti e servizi sociali) al Workfare (subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario). La svolta autoritaria del neoliberismo sta per farla finita col «modello sociale europeo», perché, come afferma Mario Draghi, non possiamo più permetterci di «pagare la gente che non lavora».
A ogni cambiamento di fase economico-politica ritroviamo sempre lo Stato e la sua amministrazione al comando delle operazioni. Proprio come ha favorito e spinto le politiche neoliberiste del credito negli anni Ottanta e Novanta, è allo Stato che spetta l’organizzazione della loro continuità nelle nuove forme autoritarie e repressive del rimborso del debito e della figura dell’uomo indebitato. Cade così un’altra illusione della sinistra, quella che oppone alla logica della proprietà privata del mercato la logica di un «pubblico» statale. Non c’è né autonomia del politico, né neutralità dello Stato. Le sue amministrazioni agiscono in profondità sull’economia, la «società» e le soggettività, come la costruzione del mercato del lavoro dimostra in modo paradigmatico.

Crisi della finanza o crisi del capitalismo?
Non si tratta tanto di dimostrare l’onnipotenza del capitalismo quanto di rilevarne la debolezza, a medio e lungo termine. Se le controriforme strutturali andranno drammaticamente a colpire una gran parte della popolazione, non tracciano per questo alcuna strada di uscita dalla crisi. Gli esperti, i mercati, le agenzie di rating e gli uomini politici, non sapendo né dove andare né come, dietro il ricatto dei deficit di bilancio, perseguono le politiche neoliberiste di produzione e di intensificazione delle differenze di classe che sono la vera origine della crisi.
La macchina capitalistica si è ingrippata non perché non fosse ben regolata, non perché vi fossero degli eccessi o perché i finanzieri fossero avidi (un’altra illusione della «sinistra» regolatrice!). Tutto questo è vero ma non coglie la natura della crisi attuale, che non è cominciata con il disastro finanziario. Quest’ultima è piuttosto il risultato del fallimento del programma neoliberista (fare dell’impresa il modello di qualunque relazione sociale) e della resistenza che la figura soggettiva da questi promossa (il capitale umano e l’imprenditore di se stessi) ha incontrato. È questa resistenza, anche se passiva, che ostacolando la realizzazione del programma neoliberista ha trasformato il credito in debito. Se il credito e il denaro esprimono la loro comune natura di «debito», è perché l’accumulazione è bloccata, è incapace di garantire nuovi profitti e di produrre nuove forme di assoggettamento, non il contrario.
Tra il 2001 e il 2004, negli Stati Uniti, la crescita del 10% del Pil è stata possibile unicamente perché misure di rilancio dell’attività hanno iniettato nell’economia 15,5 punti di Pil: riduzione dell’imposizione di 2,5 punti del Pil, credito immobiliare passato da 450 a 960 miliardi (1300 prima della crisi del 2007), aumento delle spese pubbliche di 500 miliardi.
A cavallo del secolo, la Germania era nella stessa situazione. La crescita del Pil tedesco tra il 2000 e il 2006 è stata di 354 miliardi di euro. Ma se paragonata ai numeri del debito nello stesso periodo (342 miliardi), non è difficile constatare che il risultato reale è una «crescita zero».
È stato il Giappone a entrare per primo – dopo l’esplosione della bolla immobiliare negli anni Novanta (e la successiva esplosione del debito per rimettere in sesto il sistema bancario) – in una «crescita zero» che volge ormai alla recessione. Meglio di altri paesi, il Giappone rivela la natura della crisi contemporanea. Le ragioni dell’impasse del modello neoliberista non vanno cercate unicamente nelle contraddizioni economiche, seppure molto reali, ma anche e soprattutto in ciò che Guattari chiama «crisi della produttività di soggettività».
Il miracolo giapponese, che è stato capace di forgiare una forza lavoro collettiva e una forza sociale «molto integrata al macchinismo» (Guattari), sembra girare a vuoto, preso anch’esso, come tutti i paesi sviluppati, nelle maglie del debito e dei suoi modi di soggettivazione. Il modello soggettivo «fordista» (impiego a vita, un tempo unicamente dedicato al lavoro, il ruolo della famiglia e la sua divisione patriarcale dei ruoli ecc.) è esaurito, e non si sa con cosa sostituirlo. La crisi del debito non è una follia della speculazione, ma il tentativo di mantenere in vita un capitalismo già malato. Il «miracolo economico» tedesco è una risposta regressiva e autoritaria alle impasse che si erano già manifestate prima del 2007. È per questa ragione che la Germania e l’Europa sono così feroci e inflessibili con la Grecia. Non solo in nome del «I want my money back» (quello dei creditori), ma anche e soprattutto perché la crisi finanziaria apre una nuova fase politica, nella quale il capitale non può più contare sulla promessa di una futura ricchezza per tutti come negli anni Ottanta. Non può più disporre degli specchietti per le allodole della «libertà» e dell’«indipendenza» del capitale umano, né di quelli della società dell’informazione o del capitalismo cognitivo. Per dirla come Marx, può solo contare sull’estensione e l’approfondimento del «plusvalore assoluto», ovvero un allungamento del tempo di lavoro, un incremento del lavoro non retribuito e dei bassi salari, dei tagli ai servizi, della precarizzazione delle condizioni di vita e di impiego, sulla diminuzione della speranza di vita. L’austerità, i sacrifici, la produzione della figura soggettiva del debitore non rappresentano un brutto momento da superare in vista di una «nuova crescita», ma tecnologie di potere, di cui solo l’autoritarismo, che non ha più niente di «liberale», può garantirne la riproduzione. Il governo del pieno impiego precario e la tagliola del saldo del debito richiedono l’integrazione nel sistema politico democratico – che dagli anni Ottanta funziona su altro che la rappresentanza – di interi blocchi del programma delle estreme destre. La resistenza passiva che non ha aderito al programma neoliberista rappresenta la sola speranza di fuggire alle «tecnologie di governo» dei «governi tecnici» del debito. Di fronte alla fiera degli orrori dei piani di austerità imposti alla Grecia, c’è chi dovrebbe dirsi, in un modo o nell’altro, de te fabula narratur!
È di te che si parla.
Berlino, 5 marzo 2012

Note
1. Le statistiche dicono un aumento della povertà dal 12,2% della popolazione nel 2005 al 15,6% nel 2010. Dati comunque notevoli e notevole soprattutto la progressione. È risaputo che i numeri della povertà non diminuiscono con la «crescita», anzi. Cosa che la dice lunga sulla natura di quest’ultima.
2. Se rispetto al totale rappresentano solo il 3%, in termini di flusso sono in costante aumento. Nel 2000 erano solo 416.000. Ma in dieci anni il loro numero è aumentato del 58%. Nel 2007, il governo tedesco ha portato l’età pensionabile da 65 a 67 anni, quando l’età reale di pensionamento è di 62,1 anni per gli uomini e di 61 anni per le donne, cosa che comporta una precarizzazione e un abbassamento travestito del livello delle prestazioni.
3. L’11 gennaio 2012, Destatis pubblica il rapporto «Ombre e luci sul mercato del lavoro», nel quale si legge: «Il numero di impieghi cosiddetti atipici – part-time a meno di venti ore settimanali, incluse le attività marginali, gli impieghi temporanei e l’interinale – tra il 1991 e il 2010 è aumentato di 3,5 milioni, mentre il numero di attivi che dispongono di un impiego regolare è precipitato di circa 3,8 milioni».
4. Le ultime statistiche parlano di 4,1 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 7 euro, 2, 5 milioni meno di 6 e 1,4 milioni meno di 5 euro lordi all’ora. La maggior parte di questi lavoratori sono donne, giovani, persone senza formazione e immigrati.
http://www.focus.de/finanzen/news/23-prozent-billig-arbeitskraefte-jeder-vierte-deutsche-schafft-fuer-niedriglohn-_aid_723968.html
5. La socialdemocrazia, dopo essersi convertita all’economia sociale di mercato (ordoliberalismo) nel Dopoguerra, il primo giugno 2003 si è convertita al neoliberismo, approvando l’Agenda 2010 con una maggioranza dei delegati dell’80%. Il 15 giugno 2003 il congresso dei Verdi ha adottato con una maggioranza pari al 90% lo stesso programma, che prevede anche un sistema pensionistico a capitalizzazione, la privatizzazione dei servizi pubblici ecc.
6. L’Europa procede a marcia forzata verso il modello americano del libero licenziamento. Il governo spagnolo ha approvato, il 10 febbraio 2012, leggi che perseguono la stessa logica: facilitazione dei licenziamenti, riduzione delle indennità di disoccupazione e taglio dei salari. Le indennità di disoccupazione passano da un massimo di 42 a 24 mensilità. I licenziamenti per ragioni finanziarie, con una cassa integrazione limitata a 12 mensilità, vengono facilitati. Per licenziare con ragioni finanziarie, è sufficiente che l’azienda abbia tre semestri consecutivi di ribasso di vendite, anche se continua a fare profitti. Dopo tre trimestri di ribasso di vendite, le imprese possono imporre ribassi di salario unilaterali. Il rifiuto comporta il licenziamento.
7. Con il Reddito di solidarietà attiva si passa da una logica statutaria e istituzionale (uguali diritti per tutti!) a una logica contrattuale e discrezionale (per accedere ai diritti il beneficiario deve firmare un contratto preventivo) che, avendo di mira situazioni specifiche, approfondisce il solco di ogni politica sociale: l’individualizzazione. Il contratto di inserimento è un ibrido tra «legge» e «contratto» che, secondo Alain Supiot, non esprime l’uguaglianza e l’autonomia dei contraenti ma l’affermazione di un’asimmetria di potere: «Il loro oggetto [dei contratti di inserimento] non è scambiare beni determinati, né stringere un’alleanza tra uguali, ma legittimare l’esercizio del potere», visto che il contraente, per poter ottenere il sussidio, è costretto a firmare. Si passa da una logica del diritto dell’«avente diritto» a una logica che subordina il sussidio a un investimento soggettivo, la cui prima prova è rappresentata da un «lavoro su di sé», volto a dimostrare di «essere disponibili al sotto-impiego e a un sotto-salario». Il Reddito di solidarietà attiva effettua un rovesciamento della logica dell’aiuto sociale, cioè un rovesciamento del «debito». Chiude una volta per tutte la breccia aperta dal Reddito minimo di inserimento dentro il diritto all’assistenza sociale: un sussidio non vincolato al «lavoro» e privo di «contropartita» diretta. Il Reddito minimo di inserimento affermava, anche se in modo ambiguo, un debito della «nazione» nei confronti dei «cittadini più svantaggiati». Il Reddito di solidarietà attiva, al contrario, ha come obiettivo quello di indicizzare il sussidio a un sotto-impiego, alla disponibilità all’occupabilità e a un contratto di inserimento. Oltre a istituire un working poor, ne forma il senso di colpa, poiché il lavoratore viene implicitamente ritenuto responsabile della propria condizione e dunque in debito con la società e con lo Stato.
* La versione francese sul sito: http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=6023

8.4.12

Benecomunisti, che passione

Proponiamo di seguito un articolo scritto da Rossana Rossanda per il Manifesto il 5 aprile, in risposta all'appello "Per un soggetto politico nuovo" (che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi http://lgsmacerata.blogspot.it/2012/03/manifesto-per-un-soggetto-politico.html). Riteniamo infatti fondamentale tenere aperta una discussione sulle forme dell'agire politico, che riteniamo incentrato sui beni comuni così come sulla centralità di classe. 



Ecco il primo soggetto politico che toglie senz'altro di mezzo il conflitto sociale: è quello proposto dal documento di Firenze e Napoli, pubblicato sul manifesto del 29 marzo e argomentato il giorno dopo da Marco Revelli. Come Revelli, altri amici e compagni vi hanno rapidamente aderito.
È un "soggetto senza progetto". La sua idea di società, alquanto mal ridotta dai traffici di Berlusconi e dalla contabilità di Monti, non va oltre la vasta quanto vaga esigenza di far esprimere in forme dirette la società civile, la quale è fatta di tutto fuorché dallo stato, dalle istituzioni e dagli attori della politica. Da tutti e da ciascuno di noi - padroni e dipendenti, banche e depositari e speculatori, uomini e donne, ricchi e poveri, nord e sud - in quanto messi in grado di esprimersi con la scheda sui loro bisogni e le soluzioni per risolverli. Quindi una democrazia più diffusa, una rete di relazioni svincolata dal ceto politico, non più solo "rappresentativa" di qualcuno ma "partecipata" da cittadini che non rilasciano deleghe.
Questo modello non è quello della Costituzione del 1948, che punta sui partiti come corpi intermedi, mediatori fra cittadini e stato, luoghi di elaborazione degli interessi diversi di una società complessa. I partiti - è la premessa del documento - non godono più di alcuna fiducia degli italiani, chiusi come sono in se stessi e nelle loro diatribe, mancando di ogni trasparenza anche quando, raramente, non sono sospettabili di frodi. Essi costituiscono l'impermeabile e impenetrabile "Palazzo" di pasoliniana memoria, e l'ombra o penombra che vi domina sono il miglior brodo di coltura per germi di ogni tipo. Metterli sotto pressione e controllo dal basso è l'operazione di igiene che si impone, nonché cortocircuitarli quando si può chiamare a un referendum.
Per il "nuovo soggetto" questo - trasparenza e apertura ai cittadini - è il vero problema del paese. Occorre sfondare le mura di quelli che non sono più corpi "intermedi" ma corpi "separati", e come tali non sono in grado né di capire né di comunicare con l'Italia, per cui si prevede un massiccio voltare loro le spalle con l'astensione. Il nuovo soggetto promette di essere l'opposto, tutto un'iniziativa di apertura delle barriere e di messa a confronto degli uni con gli altri, insomma un partito - non partito ma sostitutivo dei partiti.
Per fare che cosa, oltre che questa operazione di schiarimento delle acque? Non è detto. Certo ci sono in Italia gigantesche inuguaglianze di condizioni materiali, di cultura e di status ma l'esprimersi di tutti sui "beni comuni", le abolirà o ridurrà attraverso la presa di parola dei più deboli. Non scomodiamo dunque Marx, né il movimento operaio, né il vecchio concetto di lotta di classe, e tanto meno l'utopia pericolosa che ha portato ai defunti "socialismi reali". Non che il capitalismo sia morto, anzi non ha mai così totalmente dominato il pianeta, ma si tratta - se ho ben capito - di proteggere la gente dalle sue crisi stabilendo un vasto terreno di beni fuori mercato. Agganciandosi ai Comuni in quanto - lo dice la parola stessa - essi sono l'istanza elettiva più vicina al territorio e quindi in grado di controllarlo ed esserne controllata.
Il "nuovo soggetto politico" non si perde sull'analisi dello stato e dei poteri forti, politici ed economici. Né nelle teorie sociali del movimento operaio o, all'opposto, del liberismo: le prime neppure le nomina, al secondo i beni comuni, terreno di convinzione generale, tagliano le unghie. In questo senso il documento di Firenze presenta una tranquilla riedizione della spontaneità, l'universalmente umano bastante a se stesso, che il '68 aveva portato avanti polemicamente ma adesso, rifiutando assalti al cielo troppo pericolosi, sarebbe in condizione di attuarsi attraverso una saggia rete di relazioni e consultazione popolare permanente.
Di avversari il "nuovo soggetto" non ha che la privatizzazione di beni comuni, contro la quale si batte ma non meno che contro la statalizzazione o il loro "restar pubblico" nelle forme attuali, di "merce non ancora messa in vendita". Che sia intrinseco al capitale il trasformare tutto in merce, umani compresi, non interessa il "nuovo soggetto"; esso sospetta anzi che questa tesi sia un residuo delle culture politiche del Novecento, inchiodate sul conflitto capitale-proletariato. Così come non scava troppo in quello fra uomini e donne, concedendo la parità di valore tra la razionalità che sarebbe maschile, e l'emozione o la passione che sarebbero femminili. Alle passioni ed emozioni finora si affidava soltanto il populismo, ora entrerebbero fra i parametri del politico moderno. Anche l'ecologia troverebbe vantaggio in questa filosofia: chi può negare che il pianeta sul quale siamo appollaiati sia un bene comune?
E i beni comuni possono essere molti. Non è più forse il caso dei pascoli, ma non è bene comune che l'Italia produca automobili, meglio se elettriche? Basta persuaderne Marchionne e Landini. Che il voto dell'uno conti da solo nelle relazioni industriali quanto il voto di tutti i seguaci dell'altro (anzi in ogni caso di più, perché sua è la proprietà) è un dato di sistema sul quale non vale la pena di soffermarsi. Così come su alcuni diritti - al posto di lavoro o alla casa, e alla scuola, alla sanità, alla cultura, rimasti ottativi anche nella Carta del 1948. Chi non li desidera? Ma non evochiamo le idee fisse novecentesche. È vero che le vicende e le trasformazioni della proprietà, per non parlare del mercato, avvengono così lontano dal nostro sguardo da parere; al documento di Firenze, testualmente, «astratti».
È evidente che alle spalle del "nuovo soggetto" sta l'esito delle ultime elezioni parziali, e del referendum sull'acqua, avvenuti perlopiù fuori dal circuito dei partiti e considerati quindi come uno schiaffo loro assestato da parte della società civile. Che essi non abbiano scalfito il muro dei poteri forti, al nuovo soggetto politico non importa: non era nel suo obiettivo. Né che a Berlusconi sia seguita non già una spinta di sinistra, ma il liberismo oltranzista del governo Monti. Colpa della politica - si dice -, come se non fosse l'opinione pubblica ad avere votato ben tre volte il primo, senza protestare per l'indecente legge che ne canalizzava e blindava a suo favore il voto anche se non era di maggioranza. E quindi incapace di liberarsene.
Giusto, ma chi si vorrebbe liberare di Monti? La Fiom, le sinistre radicali già messe fuori dalle Camere, i nostalgici del marxismo o almeno di una forte regolazione del capitale, come la sottoscritta. Monti, un po' feroce ma onestissimo, ci fa fare, con Merkel e Sarkozy, buona figura all'estero. Che vogliamo di più?

Recensione di "La lotta di classe dopo la lotta di classe" di Luciano Gallino

di Stefano Casulli, tratto da Via Libera Mc:
http://www.vialiberamc.it/2012/04/07/recensione-del-libro-la-lotta-di-classe-dopo-la-lotta-di-classe-di-luciano-gallino/

Sovente ci troviamo a recensire o semplicemente commentare saggi e romanzi di indubbio valore, in grado di effettivamente di rappresentare uno spaccato di umanità, di società, di personalità, se non addirittura di sogno.
Tuttavia solo di rado alla profondità di un testo si accompagna la capacità di essere immediatamente politico, restituendo una complessiva veduta sulle cose e riattivando i principi del cambiamento, della rivendicazione, dell’indignazione: è questo il caso del testo di Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista di Paola Borgna edita da Laterza.
Il testo, uscito nelle librerie alla fine del mese di febbraio, si situa all’interno della crisi italiana e mondiale, un contesto che Gallino tenta di ricostruire riannodando i fili dei “fatti sociali”, la sola ortodossia cui il sociologo piemontese si richiama anche nell’ultima intervista uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 aprile.
Dentro questa crisi il testo si pone, fin dall’Introduzione, il duplice obiettivo di restituire la verità dei fatti sociali nella loro complessità, decostruendo e smascherando il carattere ideologico degli assunti del nostro tempo:
Caso la lettrice o il lettore non lo sapessero, il maggior problem dell’Unione Europea è il debito pubblico. Abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato. Agevolare i licenziamenti crea occupazione. La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi. I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva. Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore: acqua, trasporti, scuola, previdenza, sanità. È la globalizzazione che impone la moderazione salariale. Infine le classi sociali non esistono più.
Un elenco che, alla prova dei fatti, si rivela “privo di qualsiasi ragionevole solidità”.
L’intervista prende come punto di partenza l’ultimo assunto (la non esistenza delle classi sociali) per contestarlo dati alla mano, rivelando invece la natura profondamente classista dell’ideologia totalitaria che le vuole scomparse.
È un’analisi puntuale ed allo stesso tempo esigente, che pretende da qualunque lettore fermezza e coerenza nella diagnosi del nostro tempo; in controluce si evince la profonda critica alla duplice grande trasformazione degli ultimi 30 anni:
1) le politiche economiche liberiste, fondate sulla deregolamentazione, privatizzazione e liberalizzazione assoluta;
2) la matrice neoliberale della nuova forma dello Stato, sempre più intrecciato con il mercato, di esso promotore, articolatore ed allo stesso tempo salvatore qualora ve ne fosse il bisogno;
Questa duplice trasformazione rientra dentro la complessiva controrivoluzione portata avanti dalla “classe capitalistica transnazionale, ora mondializzata”, e che viene richiamata nel titolo:
la lotta di classe condotta dal basso per migliorare il proprio destino [dal dopoguerra agli anni '70] ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. […] E’ ciò che intendo per lotta di classe dopo la lotta di classe.
Abbiamo accennato al potenziale mobilitante di questo testo. Alla dovizia di dati e statistiche, che più avanti riprenderemo, si aggiunge la chiarezza nell’individuazione della classe sociale dominante, che oggi attraverso i governi, gli istituti di credito internazionali (BCE, FMI, Banca Mondiale) e le pressioni delle grandi corporations ridefinisce attraverso riforme fiscali, prestiti e speculazioni la distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo e nei singoli Paesi.
Rientrano in essa [unica classe dominante globale] i proprietari di grandi patrimoni, i top manager, gli alti dirigenti d’industria e del sistema finanziario, i politici di primo piano che spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, i grandi proprietari terrieri nei Paesi emergenti. […] Quanto all’Italia, non esistono più i latifondi, ma la proprietà immobiliare è una componente di peso della classe dominante.
 Inutile dire che, tanto nazionalmente quanto localmente, ognuno di noi può dare un volto a questa classe dominante globale, che si sta arricchendo in questi mesi utilizzando la retorica della crisi e dell’austerità.
Ragionamenti e politiche comuni ai vari Paesi del mondo richiamano appunto un’unica progettualità di classe. Elencando:
-la globalizzazione come progetto politico-economico non neutrale volto alla costituzione di una competizione generalizzata tra lavoratori, al fine di incrementarei profitti; si pensi che l’85% circa della produzione tessile, e quasi l’interezza di quella dei microprocessori, giocattoli e componenti di portatili e tablets (si pensi al caso Apple di pochi giorni fa) è stata esportata dall’Europa e gli Usa in Cina, India, Vietnam o Thailandia.
-competitività come nuova forma della lotta contro i lavoratori, ma anche come fattore che alimenta conflitti interni tra classi; Gallino cita per esempio il caso Fiat-Chrisler, dove i lavoratori neoassunti dopo il salvataggio dell’azienda vengono pagati la metà di quelli assunti in precedenza (14 dollari l’ora, contro 28);
-redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto: si prenda la tassazione dei capitali finanziari (12-20%) e la si paragoni all’aliquota minima, imponibile su chi guadagna meno di 15.000 euro (23%).
-flessibilizzazione del lavoro; l’Italia, contrariamente a quanto si dice, ha visto crollare il proprio indice della rigidezza della protezione dell’occupazione, che rende i lavoratori molto meno tutelati di quelli di Germania, Francia o Spagna.
Chiaramente, prima misura della potenza del conflitto tra classi è data dallo strutturale aumento delle diseguaglianze economiche su scala globale:
Facendo riferimento ai dati della Banca Mondiale per l’anno 2002, in attesa dei dati degli anni successivi, il decimo o decile più povero della popolazione mondiale – si trattava all’epoca di circa 620 milioni di individui – percepiva lo 0,61% del reddito globale, mentre il decimo più ricco percepiva il 57,5% del reddito globale. […] si può aggiungere che i 5 decimi più poveri della popolazione mondiale, ossia la metà di essa, non arrivano a percepire nemmeno il 7% del reddito globale. Inoltre, se prendiamo i 3 decimi che stanno in mezzo come rappresentanti delle classi medie – parliamo di quasi 2 miliardi di persone -, se ne ricava che il terzo centrale della popolazione mondiale percepisce in totale un reddito che si aggira su un sesto del reddito globale (il 16%).
Si può inoltre far notare come all’interno dei Paesi Occidentali la forbice si allarghi ulteriormente: negli USA, per esempio, il 10% più ricco della popolazione (che negli anni ’80 aveva il 30% della ricchezza) oggi ne possiede il 50%. Addirittura, l’1% più ricco della popolazione percepiva, da solo, nel 2008, il 23% del reddito nazionale. Da qui capiamo il famoso “siamo il 99%” di cui parlano gli indignati di Occupy WallStreet. In Italia, come confermato dall’Istat pochi giorni fa, le cose non sono diverse:
In Italia, i 5 decimi della parte inferiore della scala, cioè la metà della popolazione, posseggono in tutto soltanto il 10% della ricchezza, mentre il decimo più ricco detiene, da solo, circa il 50% di essa. Il nostro Paese si distingue inoltre per numero insolitamente elevato dei milionari in dollari, quelli al vertice della piramide. Essi rappresentano ben il 6% del totale mondo […]. Tale quota corrisponde a 1,5 milioni di individui. Il che induce qualche rozzo calcolo. Se il patrimonio di questi individui “ad alto valore netto”, di cui 1 milione di dollari è il limite inferiore ma l’entità media è considerevolmente più alta, fosse stato assoggettato a una risibile patrimoniale permanente di 3000 euro in media, si sarebbero raccolti 4,5 miliardi l’anno. Una cifra grossomodo equivalente ai tagli della pensione dei lavoratori dipendenti decisi dal neogoverno Monti nel dicembre 2011.
 La lotta di classe dopo la lotta di classe è un libro da tenere ‘dans la poche’, in tasca: uno strumento di lotta e di verità, che restituisce centralità alle dinamiche oggettive che ci investono oggi più che mai, in una stagione di generalizzata precarietà e di rapina istituzionalizzata nelle forme dell’espropriazione del lavoro, della democrazia, dei diritti.
Penso che solo da voci profondamente dissonanti con il monopensiero come quella di Gallino possa riaprirsi la strada del cambiamento di modello, in grado di contaminare tutte le forme (politiche, sociali, economiche, culturali) che oggi ci vedono ridotti ad una nuova forma di schiavismo di classe.

Gallino non è nuovo a scrivere testi di questo spessore, ed anzi il suddetto libro si inserisce in continuità con i principali lavori degli ultimi 10 anni dell’autore.

Per approfondire, sullo stesso tema si consigliano:
L. Gallino, Globalizzazione e diseguaglianze, 2003
L. Gallino, Il lavoro non è una merce: contro la flessibilità, 2007
L Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, 2010
L. Gallino, Finanzcapitalismo, 2011

1.4.12

Omofobia, vecchia storia che si ripete!

Di seguito riproponiamo interamente il contributo di una ragazza che ci ha scritto in seguito alla denuncia di quanto avvenuto nel Liceo di Recanati (che trovate qui http://lgsmacerata.blogspot.it/2012/03/harvey-milk-uno-studente-militante-che.html) e che ringraziamo vivamente, nella convinzione che solo una mobilitazione diffusa può accelerare il riconoscimento dei diritti e delle identità...

Anni fa studiavo al Liceo Classico di Macerata, e insieme ad una mia amica organizzavamo durante la settimana culturale il gruppo "dibattiti". Un anno abbiamo voluto dedicare gli incontri alle realtà "controverse", al diverso. Per questo abbiamo invitato tra gli altri anche due rappresentanti dell'Arcigay, per parlare liberamente di omofobia e omosessualità e permettere agli studenti di avere un confronto di qualità. 
L'allora preside ci impose di accostare ai suddetti rappresentanti una controparte, e già questo mi fece rabbrividire. In più la controparte doveva essere un medico, come se l'omosessualità fosse una malattia o un disagio psicologico. Ovviamente il fatto fu grave e andò anche a finire sui giornali. 
Questo per dirvi che sono con voi in questa occasione, purtroppo le Marche sono ancora un feudo benpensante dello Stato Vaticano sotto molti punti di vista. Vi consiglio di protestare e di cercare il supporto dell'opinione pubblica come già state facendo. Non è possibile che l'omosessualità sia ancora considerata argomento off-limits, e il richiamo al turbamento degli studenti più giovani è evidentemente una scusa becera considerando che a 14/15 anni siamo tutti ben più che bambini piccoli. Il turbamento è esclusivamente di quegli adulti e di quegli insegnanti evidentemente omofobi che in cuor loro si dicono "meglio fascista che frocio!". Buona fortuna e continuate così,
Federica Nardi