28.7.10

Uccidere per il lavoro.

A Roma un uomo uccide il suo datore di lavoro da cui temeva di essere licenziato. A Lucca l´ex dipendente di un´azienda, che aveva perso il posto sei mesi fa, fa fuoco su due dirigenti, li ammazza e poi si suicida. Due tragedie in due giorni. Il lavoro come questione di vita o di morte, letteralmente: per il lavoro si uccide e ci si uccide.

La cronaca di questi mesi, non solo in Italia, ci ricorda che nei paesi sviluppati il lavoro - remunerato - non è solo il mezzo per ottenere il reddito necessario a soddisfare i propri bisogni, ma ciò che letteralmente legittima lo stare al mondo, proprio e altrui. Solo chi lavora in modo remunerato è un cittadino a pieno titolo, come ci ricordano innumerevoli documenti nazionali e internazionali. Il resto, incluso il lavoro non pagato, familiare o volontario, conta poco come fonte di riconoscimento sociale.
Non ci si può stupire allora se qualcuno, quando perde il lavoro, perde anche la testa e attenta alla propria o altrui vita. C´è chi uccide chi lo ha licenziato, ma c´è anche chi si uccide perché ha perso il lavoro e chi lo fa perché non è più in grado di garantirlo ai propri dipendenti. In tutti questi casi la perdita del lavoro, e della propria collocazione rispetto ad esso, sembra incrinare così fortemente le basi della identità individuale, della propria ragione d´essere e stare al mondo, che non vale più la pena di vivere. Altre dimensioni, altri rapporti - famigliari, di amicizia o altro - non sembrano riuscire a sostituire quel vuoto. Senza arrivare ad uccidersi c´è chi si isola, riduce i contatti sociali perché si vergogna o non si sente all´altezza, entra in depressione.
Sono fenomeni studiati già negli anni della grande depressione, negli anni trenta del Novecento. I sistemi di protezione sociale, in modo più o meno efficace e universale, hanno ridotto l´impatto negativo della perdita del lavoro sulle condizioni di vita quotidiana. Ma la centralità del lavoro nello strutturare l´identità soggettiva e sociale soprattutto dei maschi adulti è persino aumentata. Il lavoro è diventato insieme un dovere e un diritto. Allo stesso tempo, il soggetto da cui questo diritto si può esigere è sempre più de-personalizzato, de-localizzato, così come si sono de-localizzati i meccanismi e i luoghi dell´incontro tra la domanda e offerta di lavoro, come mostra da ultimo il caso Fiat.
Quando, invece, c´è vicinanza fisica, conoscenza personale, l´attribuzione delle responsabilità sembra più lineare, ma i cortocircuiti più facili. Il suicidio del piccolo imprenditore che non può più pagare gli stipendi e l´omicidio del proprio datore di lavoro da parte di chi è stato licenziato sono le due facce, opposte, dello stesso fenomeno: la personalizzazione estrema come reazione alla perdita del controllo. Il primo non regge il peso di una responsabilità che sente tutta sua, anche se è egli stesso vittima di meccanismi che non controlla del tutto. Il secondo concentra tutte le responsabilità del proprio fallimento sociale nella sola figura a lui nota nella catena delle circostanze che hanno portato al licenziamento.
Certo, sono casi estremi e non vanno generalizzati. E l´omicidio non ha giustificazioni. Ma varrebbe la pena di vederli come spie non solo del disagio oggettivo in cui si trova chi perde il lavoro oggi, senza realistiche speranze di trovarne un altro a breve, ma di una società fondata sul lavoro remunerato come fonte principe di identità personale e integrazione sociale. Una società che non è in grado né di garantire il lavoro né di offrire e sostenere altri modelli di identificazione possibile, meno totalizzanti nella loro unidimensionalità.

26.7.10

Fiat, lettera di un operaio: «Caro Sergio, saremo noi a perdere tutto».

Caro Sergio, Non posso nascondere l’emozione provata quando ho trovato la sua missiva, ho pensato fosse la comunicazione di un nuovo periodo di cassa integrazione e invece era la lettera del «padrone», anzi, chiedo scusa: la lettera di un collega. Ho scoperto che abbiamo anche una cosa in comune, siamo nati entrambi in Italia. Mi trova d’accordo quando dice che ci troviamo in una situazione molto delicata e che molte famiglie sentono di più il peso della crisi. Aggiungerei però che sono le famiglie degli operai, magari quelle monoreddito, a pagare lo scotto maggiore, non la sua famiglia. Io conosco la situazione più da vicino e, a differenza sua, ho molti amici che a causa dei licenziamenti, dei mancati rinnovi contrattuali o della cassa integrazione faticano ad arrivare a fine mese. Ma non sono certo che lei afferri realmente cosa voglia dire.

Quel che è certo è che lei ha centrato il nocciolo della questione: il momento è delicato. Quindi, che si fa? La sua risposta, mi spiace dirlo, non è quella che speravo. Lei sostiene che sia il caso di accettare «le regole del gioco» perché «non l’abbiamo scelte noi». Chissà come sarebbe il nostro mondo se anche Rosa Lee Parks, Martin Luther King, Dante Di Nanni, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Emergency, Medici senza Frontiere e tutti i guerrieri del nonostante che tutti i giorni combattono regole ingiuste e discriminanti, avessero semplicemente chinato la testa, teorizzando che il razzismo, le dittature, la mafia o le guerre fossero semplicemente inevitabili, e che anziché combatterle sarebbe stato meglio assecondarle, adattarsi. La regola che porta al profitto diminuendo i diritti dei lavoratori è una regola ingiusta e nel mio piccolo, io continuerò a crederlo e a oppormi.

Per quel che riguarda Pomigliano, le soluzioni che propone non mi convincono. Aumentare la competitività riducendo il benessere dei lavoratori è una soluzione in cui gli sforzi ricadono sugli operai. Lei saprà meglio di me come gestire un’azienda, però quando parla di «anomalie» a Pomigliano, non posso non pensare che io non conoscerò l'alta finanza, ma probabilmente lei non ha la minima idea di cosa sia realmente, mi passi l’espressione, «faticare».

Non so se lei ha mai avuto la fortuna di entrare in una fonderia. Beh, io ci lavoro da 13 anni e mentre il telegiornale ci raccomanda di non uscire nelle ore più calde, io sono a diretto contatto con l’alluminio fuso e sudo da stare male. Le posso garantire che è già tutto sufficientemente inumano. Costringere dei padri di famiglia ad accettare condizioni di lavoro ulteriormente degradanti, e quel che peggio svilenti della loro dignità di lavoratori, non è una strategia aziendale: è una scappatoia. Ma parliamo ora di cose belle. Mi sono nuovamente emozionato quando nella lettera ci ringrazia per quello che abbiamo fatto dal 2004 ad oggi, d’altronde come lei stesso dice «la forza di un’ organizzazione non arriva da nessuna altra parte se non dalle persone che ci lavorano». Spero di non sembrarle venale se le dico che a una virile stretta di mano avrei preferito il Premio di risultato in busta paga oppure migliori condizioni di lavoro. Oppure poteva concedere il rinnovo del contratto a tutti i ragazzi assunti per due giorni oppure una settimana solo per far fronte ai picchi di produzione, sfruttati con l’illusione di un rinnovo e poi rispediti a casa. Lei dice che ci siete riconoscenti. Ci sono molti modi di dimostrare riconoscenza. Perché se, come pubblicano i giornali, la Fiat ha avuto un utile di 113 milioni di euro, ci viene negato il Premio di produzione? Ma immagino che non sia il momento di chiedere. D’altronde dopo tanti anni ho imparato: quando l’azienda va male non è il momento di chiedere perché i conti vanno male e quando l’azienda guadagna non è il momento di fermarsi a chiedere, è il momento di stringere i denti per continuare a far si che le cose vadano bene.

Lei vuole insegnarci che questa «è una sfida che si vince tutti insieme o tutti insieme si perde». Immagino che comprenda le mie difficoltà a credere che lei, io, i colleghi di Pomigliano e i milioni di operai che dipendono dalle sue decisioni, rischiamo alla pari. Se si perderà noi perderemo, lei invece prenderà il suo panfilo e insieme alla sua liquidazione a svariati zeri veleggerà verso nuovi lidi. Noi tremeremo di paura pensando ai mutui e ai libri dei ragazzi, e accetteremo lavori con trattamenti ancora più più svilenti, perché quello che lei finge di non sapere, caro Sergio, è che quello che impone la Fiat, in Italia, viene poi adottato e imposto da ogni altro grande settore dell’industria.

Spero che queste righe scritte con il cuore non siano il sigillo della mia lettera di licenziamento. Solo negli ultimi tempi ho visto licenziare cinque miei colleghi perché non condividevano l’idea «dell’entità astratta, azienda». Ora chiudo, anche se scriverle è stato bello. Spererei davvero che quando mi chiede se per i miei figli e i miei nipoti vorrei un futuro migliore di questo, guardassimo tutti e due verso lo stesso futuro. Temo invece che il futuro prospettato ai nostri figli sia un futuro fatto di iniquità, di ingiustizia e connotato da una profonda mancanza di umanità. (...) Un futuro in cui si devono accettare le regole, anche se ingiuste, perché non le abbiamo scelte noi. Sappia che non è così, lei può scegliere. Insieme, lei e noi possiamo cambiarle quelle regole, cambiarle davvero, anche se temo che non sia questo il suo obbiettivo (...). A lei le cose vanno già molto bene così. Sappia che non ha il mio appoggio e che continuerò ad impegnarmi perché un altro mondo sia possibile. Buon lavoro anche a lei.

Massimiliano Cassaro

24.7.10

Immigrati, la Toscana batte il governo. "Sanità gratis anche ai clandestini"

La Consulta boccia il ricorso. La legge regionale consente agli immigrati il trattamento sanitario gratuito. Rossi: fatta giustizia. La Lega: vergogna. Il governatore rilancia: ora al lavoro per i diritti di cittadinanza e quelli politici.



FIRENZE - Berlusconi lo annunciò in tv da Vespa: il Governo farà ricorso contro la legge toscana sull'immigrazione. Era il 3 giugno e il testo che prevede uguali diritti per immigrati regolari e cittadini italiani oltre all'assistenza sociale e sanitaria urgente e indifferibile per i clandestini stava per essere approvato dal consiglio regionale. Poco più di un anno dopo la Corte Costituzionale boccia su tutta la linea la presa di posizione dell'esecutivo, dichiarando inammissibile e non fondato il ricorso. "La nostra è una legge all'avanguardia - esulta il presidente toscano Enrico Rossi - La sentenza è una vittoria della ragione e della civiltà, giustizia è fatta".

Attorno al testo, fortemente voluto dall'allora governatore Claudio Martini, si sono consumati violenti scontri tra centrodestra e centrosinistra in Toscana e non solo, con prese di posizione a tutti i livelli politici e istituzionali. La parte più criticata è quella che assicura trattamento sanitario e in certi casi sociale dei clandestini. "Cureremo e soccorreremo tutti gli stranieri - spiegano dalla Regione - anche se privi del permesso di soggiorno". Per gli irregolari sono previsti anche, in caso di estrema gravità e di emergenza, l'accesso a dormitori e mense in via temporanea: "Non garantiamo diritti aggiuntivi, ma quelli previsti, e troppo spesso disattesi, dalle Convenzioni e dai principi del diritto internazionale e dalla nostra Costituzione". Il tutto, viene assicurato, senza maggior costi per i cittadini. Nella legge si parla molto di immigrati regolari, dei loro diritti in fatto di accesso ai servizi come asili nido e alloggi di edilizia pubblica. Si vogliono promuovere tra l'altro lo sviluppo di associazioni di stranieri, l'avvio di attività di formazione professionale degli immigrati e la creazione di una rete regionale di sportelli informativi.
Mentre un pezzo del Pdl toscano minaccia una legge di iniziativa popolare per contrastare il testo su cui si è espressa la Consulta, la Lega attacca: "Non sarà certo la sentenza della Corte Costituzionale a legittimare una norma ingiusta e razzista verso i cittadini toscani. Questa legge è vergognosa".

Incassata la vittoria, il governatore Rossi rilancia, vuole il voto per gli immigrati regolari. "Il Governo farebbe bene, anziché ricorrere su una legge così saldamente ancorata ai diritti costituzionali, ad operarsi per garantire i diritti di cittadinanza e i diritti politici degli immigrati. Non è possibile che chi nasce nel nostro paese debba aspettare 18 anni prima di iniziare la procedura per diventare italiano, non è possibile che all'immigrato residente da tanti anni qui, che lavora regolarmente, non sia garantito anche l'esercizio del diritto politico di voto, in particolare a quello amministrativo. Sul primo punto ci auguriamo che il Parlamento approvi quanto prima un disegno di legge perché i figli di immigrati nati da noi, un quinto di tutti i nostri bambini, possano sentirsi presto fratelli d'Italia, cittadini a pieno titolo del nostro paese. Sul secondo punto promuoveremo un disegno di legge regionale che consenta intanto la partecipazione al voto amministrativo a chi è regolare".
Fonte.

19.7.10

C'era una volta il movimento.

Di nuovo insieme a discutere, ballare, parlare di politica. Nove anni sono tanti ma alcuni tra i protagonisti di Genova 2001 si aggirano tra i tanti "operai di Nichi" qui a Bari. Ci sono Nicola Fratojanni - neoassessore pugliese - e Gennaro Migliore di SeL, ma tra spiagge ed eucalipti si incontrano anche altri "osservatori" un po' speciali, che invece con SeL, e prima ancora con Rifondazione, non avevano avuto, dopo Genova e la "svolta nonviolenta" di Bertinotti, rapporti idilliaci. Sotto un albero in un clima africano improvvisiamo un forum con Luca Casarini (ex disobbediente del Nord Est), Andrea "Tarzan" Alzetta di Action (unico consigliere comunale di sinistra eletto a Roma) e Francesco Raparelli del collettivo Esc.

Perché siete qui?
Casarini: Chiariamo subito. Siamo qua ma rappresentiamo solo noi o le nostre soggettività organizzate. Non è che qui ci sono i "movimenti". Non siamo qua né per entrare nelle fabbriche, né per fare manovre politiche con Vendola, né per iscriverci a Sel. Siamo qua perché la crisi della rappresentanza è tale che ormai è chiaro che i partiti sono parte del problema e non della soluzione. Per questo dobbiamo tutti metterci in cammino per costruire spazi pubblici "ibridi", tra diversi che trovano modi e ragioni per parlarsi e mettersi in relazione. Perché dobbiamo tutti capire come aggredire lo stato delle cose e cambiarlo. La Puglia è un'esperienza molto interessante, e i laboratori politici che hanno lavorato per l'elezione di Vendola sono disponibili. Per questo la settimana scorsa sono venuti a Sherwood Nichi Vendola, Gianfranco Bettin e Sandro Medici, che sono tre anomalie istituzionali, e noi oggi abbiamo risposto all'invito. Siamo in un momento drammatico in cui tutti dovremmo girare di più, parlarci di più e non dare più per scontate relazioni, o rotture, vecchie o consolidate.
Alzetta: Stiamo qua anche perché Vendola ha vinto e ogni tanto vincere alla sinistra fa bene... per noi è la sola proposta politica in campo. Uno dei motivi di crisi della sinistra è che si contrappone e basta, senza proporre in positivo. Ma resistere e basta è tragico.
Raparelli: Siamo qui anche perché è innegabile che ci sono tanti giovani che hanno interrogativi comuni. E' una generazione priva di welfare e di futuro, segnata dal precariato e dall'eccedenza di saperi. Messa al bando nel sistema quasi feudale che ci circonda. Qui si insiste sulla novità, sullo spazio pubblico e comune oltre i partiti, si lavora sulla connessione tra piazza e Web, sui social network e forme di comunicazione orizzontali, trasparenti, che insistono sulla singolarità e la spontaneità dei soggetti. Su cose simili si interrogano anche il grillismo o il dipietrismo, certo. E' tutto da vedere però se e come queste fabbriche riescono a interagire con dinamiche di conflitto e di radicalità.
Appunto, come coniugare il "civismo" delle fabbriche con il conflitto?
Casarini: La ripresa del conflitto sociale è necessaria. Non si può fare politica senza un'idea del conflitto e dello scontro col vecchio che apra al nuovo. Ci hanno detto che eravamo fissati con le "zone rosse" ma come dimostra la vicenda dei terremotati dell'Aquila c'è sempre una zona rossa da attraversare per costruire una democrazia sociale vera. La cooperazione di cui qui si parla è un pensiero debole o è già in potenza una società diversa? Se mi dicono che ti lasciano cambiare le cose non ci credo. E non basta un grande narratore.
Alzetta: Non ci giriamo tanto intorno: che ruolo avranno le fabbriche nelle scelte future? Il loro potere deliberativo è tutto da verificare. Chi è che decide chi sfida Bersani alle primarie? Lo deciderà Sel o le fabbriche? L'ingenuità è bella perché tutela la spontaneità ma c'è il rischio che calino soluzioni dall'alto. Nichi ha vinto ma non delegherei tutto a lui. Senza illuderci che muoiano, è bene che con i partiti si venga a patti. Vorrei farlo anche a Roma, ma voglio capire bene come le fabbriche si intrecciano con i livelli istituzionali. Abbiamo già visto che i partiti prima del voto magari scelgono un paio di nomi dai "movimenti" per poi metterli a tacere subito dopo.
Casarini: La società è piena di conflitti sociali. Ma sono rivolte senza rivoluzione. Noi vogliamo la rivoluzione mentre Wall Street viene salvata dai comunisti cinesi. E poi mi interessa ancora il tema della disobbedienza. Questa generazione qui magari non l'ha vissuta ma è ancora attuale. Alle leggi senza istituzioni si risponde con pratiche comuni che liberano spazi. Se il massimo della democrazia italiana è Gianfranco Fini, quello che a Genova dirigeva le cariche dei carabinieri, c'è qualcosa che non va.

Avete evocato Genova 2001. Siamo a un semplice "dopo Genova" oppure, anche per motivi generazionali, "oltre Genova"? Ieri sentivo un ragazzo che diceva: a Genova lottavamo per un altro mondo possibile, oggi lottiamo per noi stessi. Cosa è cambiato?
Casarini: Proprio il 20 luglio a me e ad altri dodici ci aspetta a Catanzaro la sentenza di appello per cospirazione contro lo stato. Mi hanno assolto in primo grado a Cosenza ma la procura ha chiesto di nuovo 6 anni di carcere più tre di libertà vigilata. Nel frattempo ho un'altra condanna definitiva e quindi rischio di andare in galera. Lo dico perché dieci anni dopo Genova tanti di noi hanno sulle spalle un cumulo di condanne penali per una semplice attività politica. Genova è stata una carcerazione liquida di tutti quelli che hanno osato ribellarsi. Siamo oltre Genova ma sogno un'altra Genova per la potenza che allora era in campo.
Raparelli: Siamo dopo Genova perché dopo Genova c'è stato l'11 settembre e la globalizzazione ha completamente cambiato volto con le guerre e il "bushismo". Siamo dopo Genova anche perché i movimenti si sono ormai dislocati su vertenze specifiche: beni comuni, movimenti studenteschi, conflitti sull'immigrazione. E' indubbiamente necessaria una nuova Genova ma va immaginata a partire dalla ridefinizione di nuova cittadinanza, di forme di reddito post-lavoro. I temi di Genova si sono sedimentati capillarmente nel territorio, e intanto il cedimento strutturale del capitalismo - vedi la macchia nera - impone nuove forme di conflitto. Siamo dopo Genova anche perché questa generazione non l'ha vissuta. Qui mi pare ci siano poche esperienze politiche strutturate. E' tutto un po' in chiaroscuro, una sfida aperta.

Voi venite da Roma e dal Veneto. Due laboratori politici fondamentali per la destra: Alemanno e la Lega. Come pensate di affrontarli?
Casarini: Il problema è l'egemonia culturale di una destra meticcia, che unisce Ku Klux Klan, affaristi e poteri criminali. In Veneto la Lega vince sull'immigrazione. Il federalismo non c'è e la secessione non la fanno perché ormai lo stato centrale sono loro. Quindi è l'immigrazione che gli porta l'80% dei voti. E non sono fascisti: è la nostra gente, operai, precari, chi vive nelle case popolari. Il problema non è la Lega, sono milioni di persone che pensano così. Con umiltà, determinazione e curiosità questa narrazione si può invertire. Non possiamo più stare a guardare.
Alzetta: Per fortuna a Roma la Lega non ce l'abbiamo...
Casarini: Per fortuna avete Totti...
Alzetta: Certo. Esiste un razzismo di massa. La destra ha scelto a chi rivolgersi e chi aggredire con meccanismi semplici: bianchi contro neri, giovani contro vecchi. An riusciva a mantenere un rapporto spregiudicato con l'estrema destra sul ribellismo o la rivoluzione sociale. Ora quel modello è andato in crisi. Vogliamo costruire una felicità collettiva contro quel grigiore poliziesco fatto di ordinanze, sgomberi e divieti. Ma una birretta in piazza un romano se la potrà bere, o no?

14.7.10

Carta di intenti

Il Laboratorio è un luogo di sperimentazione politica giovanile che opera nella realtà maceratese.

Principi.
Si rivolge alla generazione cresciuta nell'era della precarietà, della società dello spettacolo, dell'individualismo e della competitività fine a se stessa.
Opera per recuperare e dar spazio ad aspetti ritenuti fondanti la vita sociale, messi a rischio dalle politiche dell’ultimo ventennio, al fine di ricostruire una coscienza alternativa e condivisa che parta da un orizzonte comune:
  • la radicale messa in discussione del modello economico - sociale occidentale, incentrato sullo sfruttamento dell'Uomo e della Natura, l'appropriazione indebita dei saperi e delle conoscenze, la messa a regime di mercato di ogni aspetto dell'esistenza;
  • la laicità, il pluralismo e l'informazione libera come cardini della vita comunitaria, nel rispetto delle diversità nei costumi e nelle idee;
  • il lavoro, visto non come merce di scambio, bensì come momento di realizzazione delle proprie capacità personali: libertà;
  • la centralità dei principi costituzionali di eguaglianza, giustizia sociale, antifascismo, antirazzismo e pacifismo;
  • la difesa e valorizzazione dei beni comuni: l'aria, l'acqua, il territorio, ma anche i saperi, i centri di aggregazione, gli spazi pubblici e la creatività come risorsa comune e mezzo di espressione dell'individuo;
  • la necessità di creare un rapporto proficuo tra politica e territorio, stimolando il lavoro in rete con le altre associazioni cittadine;
  • la presa di coscienza dei propri diritti di persona (umani, sociali e di cittadinanza);
  • l'incentivazione di processi che mirino all’uscita dall’isolamento sociale, allo stesso tempo causa e conseguenza della frammentazione, che non favorisce processi aggregativi e di iniziativa diffusi;
  • la ripoliticizzazione della vita, attraverso la conciliazione di analisi teoriche e micro - pratiche capaci di recuperare e valorizzare spazi "politici" per i giovani in città.



Pratiche e mezzi.
  • Lgs si propone come modalità operativa, di non agire "sul" territorio, ma si caratterizza per un lavoro diretto "per" e "con" il territorio stesso, incentivando pratiche di partecipazione diretta. Il confronto e il dialogo sono alla base. Sarà pratica attiva e costante, aprire spazi di confronto all'interno delle assemblee, sia sulle questioni locali che nazionali e internazionali.
  • Il Laboratorio tenta di rilanciare pratiche di recupero della partecipazione attiva, che vedano la persona protagonista. Opera per essere una piattaforma politica che, tesa a diminuire il divario politica-cittadinanza attiva, supporta e favorisce tutte le iniziative di altri singoli o gruppi chi si rifanno ai principi e i valori contenuti nella presente carta di intenti.
  • Il Laboratorio non aderisce in quanto tale a partiti politici organizzati, e si configura come una realtà trasversale alle forze politiche esistenti. Tuttavia, non pone vincoli d'appartenenza partitica ai propri membri.
  • Lgs ripensa le pratiche democratiche alla luce di un nuovo nesso decisione - partecipazione - responsabilità. Le decisioni devono essere condivise e partecipate in assemblea, ma non esisterà diritto di veto né impedimento alcuno nel fare iniziative, purché coerenti coi principi della Carta d'Intenti. Qualora emergessero incompatibilità gravi nelle modalità o nei contenuti delle proposte di singoli o gruppi, si procederà con la discussione e la valutazione delle stesse, fino alla votazione in assemblea.
  • È centrale l'impegno personale del promotore nel portare avanti le iniziative proposte, favorendo così anche una gerarchia delle responsabilità, mai dei meriti, facilitando la distribuzione dei compiti, secondo le competenze e le possibilità di ciascuno. Ad ogni modo tutti i membri si impegnano a supportare e collaborare attivamente al fine della riuscita dell'attività proposta.
  • Il Laboratorio si impegna ad esaltare la forma assembleare. Ad ogni modo, al fine di rendere agevoli e snelli gli aspetti formali e burocratici, esso si dota di un coordinamento deciso in assemblea ogni sei mesi, con l’obiettivo di coinvolgere ciclicamente tutti i membri del laboratorio. Tale modalità vuole favorire non solo la partecipazione di tutti a più livelli di azione, ma rendere consapevoli gli stessi degli aspetti formali, favorendo trasparenza e chiarezza delle pratiche e incentivando la responsabilità diffusa. Il coordinamento ha il compito di: convocare le assemblee, fare l'ordine del giorno ed il riassunto delle assemblee, gestire la mailing list e la casella di posta elettronica, fungere da punto di raccordo per la varie attività, favorendo la comunicazione e l’organizzazione intergruppo, redigere comunicati stampa, vari ed eventuali.