29.3.12

Manifesto per un soggetto politico nuovo

Proponiamo di seguito un documento redatto da alcuni intellettuali italiani come contributo alla riflessione attorno al benecomune - benecomunismo come qualcuno l'ha felicemente chiamato.


Oggi in Italia meno del 4% degli elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto un buco nero, una sfera separata, abitata da professionisti in gran parte maschi, organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori e, in vastissima misura, impermeabile alla generalità del pubblico. È crescente l' impressione che i nostri rappresentanti rappresentino solo se stessi, i loro interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo tornati al Settecento inglese, quando il sistema politico si è guadagnato l'epiteto di "Old Corruption".


In reazione a tutto questo è maturata da tempo, anche troppo, la necessità di una politica radicalmente diversa. Bisogna riscrivere le regole della democrazia, aprirne le porte, abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti, cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due livelli - la democratizzazione della vita pubblica del paese e la fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano, dell'appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta l'Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste. Oggi la sfera separata della politica in Italia, "il palazzo" per intenderci, non rappresenta affatto parti intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e donne, che non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi educativi. 

Le operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno minacciati i loro diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi intrappolati nella catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico impiego, quelli della scuola, della sanità, dell'amministrazione pubblica, che in questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i giovani precari, spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità selvaggia neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che ha tolto loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione entrata in crisi con la recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella società per poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto distratto. È ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad appropriarsi, attraverso processi democratici diversi, del potere di contare e di decidere.


La «poesia pubblica», per utilizzare la frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini (donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne la loro bandiera.
Diffondere il potere, non concentrarlo
Oggi le decisioni sono sempre prese altrove - non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento romano ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla Bce ma dai mercati, strane creature che vivono solo di giorno ma che decidono tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte.

Il nostro compito è di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso l'alto, l'inspiegabile e l'astratto. Bisogna innescare un processo opposto che destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione territoriale locale (ma non localistica), espandendo tutti quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l'uno all'altro. Il comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più belle ed inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il comune come «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà». E aggiunse, con un pizzico di amarezza: «Pare che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi». Ridare spazio e poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe già in sé una cosa grande. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso verso l'alto, costituendo una sede congeniale per proposte da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del regolamento Ue n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una Carta Europea dei Beni Comuni, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell'Unione e fronteggiare la dimensione puramente mercantile (market oriented) del diritto comunitario. In questo modo il potere locale riesce ad aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare forza anche transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo politico espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.


Non basta. Il comune è un'istituzione costituzionale, non un'aggregazione di una certa tendenza politica. Un soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti terreni, sia dentro le istituzioni che fuori, cercando sempre di coniugare fra di loro livelli diversi della democrazia: quella rappresentativa, quella partecipativa e quella di prossimità. In prima istanza esso dovrebbe interagire con le forze e movimenti della società civile. Essi agiscono per una grande varietà di motivi - in nome dell'ambiente, in difesa dei diritti dei lavoratori, per la legalità e contro la criminalità organizzata, per la dignità e la parità delle donne - in un mondo (e un mondo di lavoro) ancora profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i generi l'eguaglianza non può limitarsi alle "pari opportunità", cioè ad accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma diviene un processo in grado di sovvertire l'esistente. Chi vive una situazione di ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a chi si ritiene superiore o più potente, al contrario aspira al superamento dei vecchi modelli.


Tutte queste istanze della società civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte insistono anche sull'informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una volta che ci si rende conto dell'inadeguatezza del sistema attuale della rappresentanza?

Il nuovo spazio pubblico della democrazia 
A metà dell'Ottocento John Stuart Mill era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a «tutte le voci» del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa esplicita: il sistema rappresentativo è l'unico che garantisce la partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare l'attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa. E il punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che l'attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica pubblica.


In altre parole, è emersa in questi ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né all'attività, sempre più degradata, dei partiti, né ai codici di per sé privatistici, del mercato. Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva: delle nuove forme di partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni comuni, della società civile che interagisce, in piena autonomia, con una sfera politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi come un riccio.


Processi di questo tipo cambierebbero in positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in vari modi: consumismo, chiusura nell'interesse personale, familismo, evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine, frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni '60 e '70: «Il personale è politico». Le persone, uomini e donne, devono riflettere sul loro privato - i loro valori, consumi, strategie individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio pubblico di più grande emergenza - l'ambiente. Una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati, così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l'insieme della collettività.


Troppe volte la partecipazione, come viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e la loro modernità, ha assunto il volto dello sfogatoio, con assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della Convenzione europea di Aarhus - legge dello Stato a partire dal 2001. La Convenzione, attraverso l'istituto della partecipazione, riduce la discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.


In questo senso il Laboratorio Napoli "Per una Costituente dei beni comuni" prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori. L'informazione deve costituire il presupposto per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la sua violazione può determinare l'annullamento degli atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione. 
Un altro esempio di partecipazione, disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi rapidissimi.
Un altro ancora viene chiamato Party (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). È un metodo ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology), che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali che nazionali. Un'assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un'altra per prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report un'opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla plenaria. L'interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo tipo di democrazia partecipativa.


Di tutte le forme di democrazia partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di continuità temporale durante l'anno, non limitata a una singola occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi democrazia - gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di trasparenza e responsabilità.


Forme e pratiche di una nuova aggregazione
La degenerazione degli attuali partiti politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La volontà di partecipazione, di far da sé, di riprendere in mano il bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un modello incentrato sulla stretta identificazione di sfera pubblica e di sfera politica con un tendenziale primato della seconda sulla prima, in quanto luogo di espressione della forma partito intesa come unico soggetto dotato di voce e legittimazione.


I nostri Costituenti, nello scrivere l'art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di mediazione, corpi intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi nei quali potesse formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio costituzionale che i partiti devono concorrere «con metodo democratico» alla vita politica nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in riferimento alle relazioni esterne dei partiti. In realtà s'immaginava che il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l'eguaglianza, la pari dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un sistema politico che si è progressivamente organizzato con strutture opache, piramidali, fortemente escludenti.


I partiti politici attuali sono così diventati organizzazioni completamente anacronistiche rispetto ad un modello di democrazia che non può più esaurirsi nella rappresentanza e nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali libere associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile) risulta paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato, dall'altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a due teste che si appella al diritto di riservatezza, proprio dei soggetti privati, mentre vive di risorse pubbliche in una dimensione opaca, espressione di corruzione e perversa contaminazione di interessi pubblici-privati.
Noi vogliamo invece affermare l'interpretazione autentica dell'espressione «metodo democratico», vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l'altruismo.
In primo luogo il soggetto nuovo, nelle sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l'accento sull'inclusione. L'immagine dei partiti arroccati ai propri privilegi e separati dal resto della società, dediti all'hollowing out, allo svuotamento della democrazia - sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna, sempre meno iscritti (Peter Mair) - dovrebbe cedere il passo a un'altra, totalmente diversa, basata sull'allargamento dello spazio pubblico della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più separato dalle istanze della società, si muoverebbe una pluralità di attori politici nuovi. Si passa così dall'esclusione verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi leader) all'inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro nazionale fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia a quella dell'azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul "potere di" piuttosto che sul "potere su".


Il soggetto nuovo nascerà da un'istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore (modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli omogenei - coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità: culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato tende a convergere e intrecciarsi. L'organizzazione politica dovrebbe essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana "amico-nemico". Che sappia trovare la propria essenza non nell'esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e separate) ma nell'inclusione e nella contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.


Una serie di regole semplici e condivise che in questi anni sono diventate patrimonio comune determineranno il comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e fuori di esse. Adozione di un codice etico e dunque politico nella ricerca e accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati o assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di mandato, rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell'uso delle risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch'essa su alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in modo prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere al voto con il sistema "una testa un voto", unire il rispetto delle decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti delle minoranze, possibilità per tutti di votare in modo regolare e segreto. Nelle riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere devono assumere un posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i soliti maschi accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare ciascuno/a e fare in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle riunioni.


La chiave della vita interna dovrebbe essere la prevenzione insieme all'invenzione: prevenzione di tutte quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli democristiani), un'invenzione che si nutre di una partecipazione dal basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve camminare mano in mano con l'efficacia. Oltre al come si decide, diventa importante come si funziona. È del tutto inutile rimpiazzare la repubblica delle banane o quella dei "tecnici" con una delle chiacchiere.


Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.

Comportamenti e passioni
Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia intrisa della violenza e della competitività, una forma di neo-liberismo interiorizzato. Superare una cultura così longeva e insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti. 
Quando parliamo delle passioni e delle emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro governo. Tante volte consentiamo che siano le passioni negative - l'invidia, l'odio, l'orgoglio, l'ira - e i comportamenti sociali che ne derivano - la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri interessi in modo esclusivo - a guidare le nostre azioni. E spesso lo facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come "differenze oggettive", negando con veemenza le loro origini soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ego-mostri - politici moderni gonfiati dall'attenzione incessante dei media. Un primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo sarebbe un discorso centrato sul governo e sull'autogoverno delle passioni, l'invito forte all'autodisciplina, la produzione di un codice di comportamento.


Soprattutto dobbiamo negare spazio a una delle passioni più dannose - il narcisismo. Siamo stufi di leader narcisi e non vogliamo semplicemente affidarci a figure carismatiche, incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica. Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l'auto-compiacimento senza fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità di crescere e fiorire. 
Le passioni non esistono però solo per essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive. Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l'amore e la speranza, la generosità e il rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l'individuo si annulli a servizio della causa comune. Cerchiamo invece l'autorealizzazione individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all'insegna dell'eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento dell'empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell'altra/o, in termini non solo personali ma politici, praticando quella «salda comunanza» (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità.


Tutto questo può trovare una prima verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. È qui che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto dirigenti dei partiti venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i giornali finché non è il loro turno di parlare o quello di un altro dirigente (rivale). Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti maschili - non solo di uomini - per cui ci si preoccupa solo del proprio intervento, poi si riaccendono i cellulari e ci si mette a chiacchierare in fondo alla sala. Tutti arrivano in ritardo: più importante sei, più in ritardo arrivi. Tutto l'impasto di una riunione o di un'assemblea assume l'aspetto livido di una contusione, di una profonda e persistente ferita alla democrazia. Da quel terreno cosa può scaturire di nuovo o di buono?


A livello di micro-politica un soggetto nuovo metterebbe invece l'accento su un modo di comportarsi radicalmente diverso, all'insegna dell'eguaglianza e della cooperazione fra generi, della capacità di ascoltare, della puntualità, dell'incoraggiare alla partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe attenzione alla massima circolazione dell'informazione interna e cura che i nuovi partecipanti non si sentano ospiti, ma protagonisti alla pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, «è l'uomo (donna) di cui l'altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé». Alle sue qualità intrinseche ne viene aggiunta un'altra - quella della fermezza, la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia da quella classica del Novecento, basata com'era in grande parte sul machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e l'autoreferenzialità.

Quattro nodi radicali e di rottura 
1. Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici. .
2. Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell'eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata. 
3. Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
4. Si riconosce l'importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all'interesse personale. Al loro posto mettiamo l'inclusività, l'empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.


Una proposta
Il futuro di questo manifesto, del progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano attivamente. Si può iniziare dall'impegno a promuovere incontri, inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale. 
Inoltre si può pensare che sia positiva la presenza alle elezioni amministrative di liste di cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo progetto nazionale. Una rete orizzontale di rappresentanza che sia radicata nei territori e connotata dagli elementi di metodo prima indicati: democrazia, governo partecipato dei beni comuni, etica, nuova cultura delle relazioni. Non si tratta di aggiungere sigle contro tutto e tutti, né di sommare esperienze locali che restano locali, tanto meno di chiudersi nel recinto di una radicalità ideologica.
Vogliamo costruire un soggetto che determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e mediazioni ma con l'ambizione tutt'altro che minoritaria di mettere in campo un'altra Italia. Di lavorare per un'altra Europa.


Per adesioni, contributi scritti, informazioni: www.soggettopoliticonuovo.it

Primi firmatari: 
Andrea Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli (redattori del testo), Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D'Angelo, Giuseppe De Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia, Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo Palmisano, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna Picciolini, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi, Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo, Guido Viale

26.3.12

Così non si combatte la piaga del precariato

di Luciano Gallino - Repubblica -25.03.12

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le "Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali" o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro. 

Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata - in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre - perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato "assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce."
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere. 
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno. A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo. Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere. Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

25.3.12

Harvey Milk, uno studente militante, che non rimane a guardare!

RIPORTIAMO DI SEGUITO LA LETTERA CHE UN COLLETTIVO DI STUDENTI DEL LICEO SCIENTIFICO E LINGUISTICO G.LEOPARDI DI RECANATI HA SCRITTO PER PORTARE ALLA LUCE LA GRAVITA' DI FATTI SUCCESSI NELLA LORO SCUOLA: MINACCE, VIOLENZA VERBALE, NON RISPETTO DEL DIRITTO DI AUTORGANIZZAZIONE E AUTOGESTIONE DEGLI STUDENTI, NON GARANZIA DELLA LIBERTA' DI ESPRESSIONE.
SOSTENENDO LA CAUSA DI QUEGLI STUDENTI, CONVINTI CHE POSSA APRIRSI IN QUELLA SCUOLA UNA MOBILITAZIONE CHE RESTITUISCA AI LEGITTIMI PROPRIETARI I DIRITTI VIOLATI, INVITIAMO A PUBBLICARE, CONDIVIDERE SUI NETWORKS, SOTTOSCRIVERE QUESTA LETTERA CHE PRENDE LA FORMA DI APPELLO.
POTETE FARLO INVIANDO UNA MAIL ANCHE A NOI: lgsmacerata@gmail.com. RIPORTEREMO LE FIRME DI TUTT@ COLORO CHE SONO PRONTI A METTERCI LA FACCIA PER UNA CAUSA GIUSTA. PER GLI STUDENTI DI QUEL LICEO COME PER TUTT@: DEMOCRAZIA E DIRITTI!!!

"Le assemblee studentesche nella scuola secondaria superiore costituiscono occasione di partecipazione democratica per l'approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti."(Decreto legislativo 297/94)Partecipazione democratica? Formazione? Parole troppe volte sentite ma mai messe in atto, nel liceo Giacomo Leopardi di Recanati.Sono uno studente indignato che, per paura di eventuali ritorsioni, si firmerà con lo pseudonimo di Harvey Milk. Mi chiedo come possano parole come democrazia e diritto d'assemblea sparire dal vocabolario della nostra scuola, il Luogo dove, l'amore per la civiltà e la cultura dovrebbe essere d'obbligo.Sono indignato perchè, nel mio liceo, non possiamo trattare liberamente argomenti a noi affini che ci coinvolgano e che ci permettano di crescere e maturare una nostra cultura critica.

Poco più di un mese fa, riunendo i rappresentanti di classe e quelli d'istituto (ovvero il comitato studentesco), abbiamo decretato, nell'autonomia che dovrebbe esserci permessa attraverso il comitato, che la prossima assemblea d'istituto avrebbe trattato il tema dell'omofobia, e avremmo visto il film "Milk" (la storia di un militante omosessuale statunitense, ucciso nel 1978; ecco perchè ho scelto questo pseudonimo). Ma,la nostra scelta democratica è stata soverchiata da una presa di posizione "nonnista" che ha calpestato completamente, o quasi, i nostri diritti di studenti: la professoressa incaricata di mediare i rapporti tra gli studenti e la preside ( è, questa, una carica legittima che preserva la nostra libertà di assemblea, o la soffoca semplicemente?), hanno deciso che quest'assemblea non si poteva fare. I motivi? Per la preside questa tematica risulterebbe troppo pesante agli studenti più piccoli, potrebbero rimanere scioccati da un film del genere; saremmo caduti nel banale, per loro; avremmo ridicolizzato un argomento tanto forte, per loro; ma noi abbiamo il diritto di scegliere democraticamente e autonomamente, per legge.

Ora, vorrei chiedere alla Signora Preside: siamo davvero sicuri che i motivi siano questi? Perchè, Signora Preside, non si può parlare di omofobia? Meglio censurare che informare, forse, per la nostra dirigente?Crede davvero che parlare di omofobia, ai giorni d'oggi, sia un argomento troppo forte per gli studenti più giovani di questa scuola? Io penso che questa risposta sia vaga, insoddisfacente e irrispettosa nei confronti della nostra intelligenza.

Nei giorni seguenti passa per le classi una circolare relativa all’assemblea: il tema e i giorni, imposti dalla dirigente, non rispecchiano il volere dei rappresentanti. Il comitato, nuovamente, si riunisce decidendo di contestare apertamente e pubblicamente, durante la sudetta assemblea, la decisione presa "dall'alto".Anche il nostro spirito di iniziativa volto ad opporci legittimamente a questa decisione inammissibile, è stato represso dai "piani alti" che, venuti a conoscenza delle nostre idee a riguardo, bloccando sul nascere qualsivoglia protesta,minacciano di prendere fantomatici provvedimenti disciplinari mirati.L'assemblea viene, di fatto, organizzata e gestita dal dirigente, nei giorni fissati, o, per meglio dire, imposti, in un clima di timore a paura che impedisce agli studenti la contestazione. Mi sorge un'altra domanda: chi rappresenta noi studenti? La Signora Preside, o i Rappresentanti d'istituto che abbiamo votato a inizio anno?

La tensione è tanta nella scuola, e, il giorno dopo, i muri sono tappezzati di volantini contro l'omofobia, espressione di un comune pensiero di protesta contro questa dirigenza scolastica che rasenta il totalitarismo più goffo e becero.Non ci spieghiamo cosa ci sia di sbagliato nel sensibilizzare ragazzi, giovani e giovanissimi, su una problematica così vicina a noi.Ma forse la questione prima è un' altra: possiamo, davvero, continuare a sopportare questo clima di intimidazione e repressione senza fiatare? Non dovrebbe il rapporto studenti- insegnanti essere di collaborazione e crescita? Dunque, perchè ci viene negato il diritto più elementare, quello di riunirci e parlare di ciò che a noi è caro, senza dover dover subire intimidazioni, per una semplice e sana contestazione? E' questa la Democrazia, la Libertà? 

Io pretendo di poter discutere, insieme ai miei compagni, di ciò che meglio ritengo opportuno, senza intermediazioni, senza filtri e senza censure, perchè tutto questo è un nostro diritto. Scegliere in autonomia i nostri rappresentanti e scegliere cosa siano e di cosa parlano le nostre assemblee è una questione che semplicemente non dovrebbe riguardare gli organi di dirigenza scolastica.Pretendo una scuola pubblica, dove poter esprimere le mie idee, sentirmi rappresentato da miei coetanei, e trovare spazi per l'autogestione e la crescita. Perchè la Scuola (quella con la s maiuscola) non è fatta solo di banchi e cattedre. Fare opposizione e intervenire come è stato fatto è oltre che una grave mancanza di rispetto e fiducia nei nostri confronti,è anche un negare tutto quello che i libri di storia ci hanno insegnato sul concetto di democrazia.

Vorrei che il lettore, soprattutto se studente, si soffermi sulla riflessione che propongo e denunci episodi analoghi, ove abbiano avuto luogo, perchè solo attraverso la denuncia potremo dar fine a questo scempio.Invito tutti a indignarsi insieme a me, perchè questo fatto non passi inosservato, come tanti altri.

Harvey Milk, uno studente militante, che non rimane a guardare

24.3.12

Punto di svolta

di Guigo Viale - il Manifesto 23.03.12

L'azzeramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. Certamente nei prossimi mesi e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio, quattro a quattro ogni quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti individuali per "motivi economici". Sappiamo già chi verrà colpito, perché da qualche mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all'intensificazione del lavoro, annunciando loro che, «appena passa l'abolizione dell'art. 18, sei fuori!». Così, se alla manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila partecipanti, almeno 40 mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom, possiamo essere sicuri, con uno scarso margine di errore, che, al ritmo di 12 all'anno per azienda, quei lavoratori verranno espulsi dal loro posto di lavoro ottenendo con il tempo quello che Marchionne ha realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo stabilimento di Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom. E lo stesso avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella maggior parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e La Morte, i tre operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per rappresaglia contro uno sciopero, ci hanno messo più di un anno per dimostrare le loro ragioni di fronte ai giudici e, nonostante l'ordine di reintegro, non viene loro concesso di rientrare in fabbrica, possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di migliaia di lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente "per motivi economici".  I quali, per dimostrare di essere stati oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza "economica", dovranno andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno disposto a testimoniare in loro favore, sotto la minaccia di entrare così anche lui, nel giro dei successivi quattro mesi, nella lista degli esuberi per motivi "economici".
Così diverse decine di migliaia di lavoratori andranno ad aggiungersi, grazie all'azzeramento dell'articolo 18, all'esercito dei disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali stanno moltiplicando nel nostro paese. Con in più il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane trovare oggi un posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa età sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un licenziamento individuale - cioè con le stimmate di una espulsione discriminatoria - il licenziamento equivarrà all'iscrizione in una lista di proscrizione. È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando alla Fiat, prima dell'autunno caldo di quarant'anni fa, imperversava il regime imposto da Vittorio Valletta. Siamo ritornati là; anzi peggio, perché allora l'economia tirava mentre adesso non c'è alcuna speranza di tornare in tempi accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della crescita. E soprattutto dell'occupazione. Ma l'uscita dalle aziende di alcune decine di lavoratori con posto fisso non apre certo le porte a nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi persona che non sia in malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai lavoratori licenziati le porte di un altro impiego. Perché la domanda di lavoro non c'è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce a crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro). Ma quei lavoratori licenziati non avranno più né cassa integrazione (né ordinaria, né straordinaria, né in deroga), né mobilità, né "scivolo" verso il prepensionamento; solo una modesta somma di denaro e un anno di disoccupazione. Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un nuovo lavoro: nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non andranno certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà pieno di giovani più adatti a lavori del genere. Così, nel giro di qualche anno, assisteremo a questo rovesciamento dei rapporti intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.Ma se questo è il panorama che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende, quello che si prospetta al loro interno è anche peggio. Perché là si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale "per motivi economici"; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta - non più di dodici all'anno per azienda - funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l'imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull'intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un'occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l'abrogazione dell'art. 18. Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale - a patto di saperlo e volerlo valorizzare - che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall'ingaggio del lavoro precario e malpagato. L'azzeramento dell'articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all'esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro - in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l'ampliamento dell' "esercito industriale di riserva" - ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma. La posta in gioco e troppo alta e anche coloro che in azienda non ci sono ancora, non ci sono più, o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di conseguenza. Quale che ne sia l'esito, questa mossa di Monti e Fornero deve diventare per tutti il simbolo dell'ipocrisia, della malafede e della pochezza di questa campagna di governo.

23.3.12

Un doveroso minuto di silenzio …

di Valentina Valeri 

In questi giorni sdegno e sgomento per la strage di Tolosa, indubbiamente un atto deplorevole che lascia il turbamento ovvio per la morte di innocenti … 
Si susseguono immagini della cattura, supposizioni sui moventi e liste di obiettivi e possibili seguaci e come da copione sale l’ansia per il riaccendersi di posizioni erroneamente definite antisemite . Sono certamente episodi da condannare e senza dubbio vanno indagate tutte le cause che possono alimentare comportamenti e atteggiamenti volti a discriminare un uomo in ragione della sua appartenenza etnica, così come in ragione delle sue preferenze sessuali, delle sue convinzioni religiose e politiche. 
Tante sono le reazioni della gente di fronte a questa notizia, ma mi chiedo se e quanto episodi come questo siano tanto eclatanti perché efferati e incomprensibili o perché appunto vanno a colpire, vigliaccamente certo, il popolo di Israele; è evidente che le vicende che toccano persone di religione ebraica siano sensibili alla nostra coscienza di europei reduci dalle colpe della storia.
Il minuto di silenzio osservato in qualche scuola della nostra provincia in memoria delle vittime è un atteggiamento nobile e soggettivamente comprensibile, ma qualcosa rende questa vicenda diversa dalle altre, seppure simili per la tragicità di eventi. E’ incredibile come le vicende di appartenenti alla religione ebraica in europa, scalfiscano il nostro essere più di altre. Forse è il senso di colpa, forse la disinformazione che parte sin dalla terminologia (antisemita), forse l’impronta storico-sociale che ci ha abituato ad essere sensibili a questi avvenimenti. Difficile valutarlo, ma è certo che niente ci turba come la minaccia al popolo di Israele e ci riesce facile prendere una posizione.
Qualcuno ha parlato dei 5 militari di colore probabilmente uccisi qualche tempo prima dallo stesso soggetto reo della strage alla Sinagoga? No. Questo prima della sparatoria alla Sinagoga non ha destato clamore, almeno non fuori dai confini francesi. 
Qualche giorno fa un militare americano, aggettivato come impazzito, incomprensibile, esasperato, ha sparato su una folla di persone in Afghanistan uccidendo 9 bambini, ma qualcuno ha osservato un minuto di silenzio nella scuole? Ci si è affrettati invece a dare una lettura della situazione e del militare, mai chiamandolo assassino ovviamente, cosa che invece è stata doverosamente dichiarata dell’uccisore di Tolosa. 
Che cosa rende le due vicende tanto differenti da sentire l’esigenza di osservare il silenzio per una e non per l’altra? Di spiegare ai bambini e ai ragazzi l’accaduto e di rendere sensibili le loro coscienze affinché si rendano conto che uccidere in nome di una religione, di una convinzione politica, di una idea razzista è sbagliato SEMPRE. 
Nel mondo muore un bambino ogni 3 secondi per fame, malattie e stenti; provate a contare in silenzio 1….2….3…e 1….2…..3….e 1….2…..3…. è angosciante. Ma quanti minuti di silenzio abbiamo osservato nelle nostre scuole? Dovremmo smettere di parlare e stare zitti tutti i giorni. Ma non sentiamo la colpa di questo, perché? Perché non riusciamo a percepire con la stessa sensibilità e lo stesso senso di colpa queste tragiche vicende?
Che cosa ci frena dal condannarle? L’area geografica in cui avvengono? Le circostanze? La lontananza? Tutte possono essere valide e forse dovremmo rifletterci perché non possono e non devono esserci vite che valgono meno di altre perché stroncate in circostanze di guerra, in paesi a noi estranei, da insospettabili in divisa.
Che cosa rende diversi i bambini palestinesi che ogni giorno muoiono a Gaza, stretti dentro le mura di confini imposti dalla prepotenza umana e dalla convinzioni politiche? Che cosa rende diversi quei bambini che vivono con la costante minaccia di raid aerei israeliani, che uccidono senza possibilità di scampo una città murata viva, dove la gente vive come topi in gabbia? A Gaza, in questo sperduto posto in Palestina, paese che nessuna cartina riporta, ma che ha una bandiera, un popolo, una storia e un territorio flagellato, estinto, martoriato, sono morti migliaia di bambini, quelli che la politica di Israele chiama gli effetti collaterali. Ma gli effetti collaterali hanno un nome proprio come i piccoli ebrei uccisi in Francia; per loro nessun minuto di silenzio che non sia additato come irrispettoso nei confronti di Israele. 
E così meglio continuare a perpetrare l’errore linguistico che utilizza il termine antisemitismo per parlare di razzismo contro gli ebrei, dimenticando o ignorando che semiti etimologicamente sono tutti i popoli che parlano, o hanno parlato, lingue collegate al ceppo linguistico semitico (tra questi Arabi, Ebrei, Cananeo-Fenici, Cartaginesi, Maltesi); palestinesi ed ebrei hanno una comune origine culturale, che forse loro stessi a volte ignorano. Eppure non ci riferiamo alle stragi che si perpetuano da anni nel conflitto israelo-palestinese e che vedono inenarrabili morti palestinesi con lo stesso termine. Sono semiti anche i palestinesi e anche loro vengono uccisi nelle loro città, nelle loro moschee, a loro vengono vietati i diritti fondamentali, tutti, in nome della loro appartenenza etnica, senza lo sdegno della comunità internazionale. E sono migliaia di persone che per l’europa NON ESISTONO. Non un  minuto di silenzio per loro. 
Dobbiamo farcene una ragione, stiamo usando ed abusando della strage degli ebrei nella seconda guerra mondiale per omettere i fatti che accadono oggi e per quietare il nostro senso di colpa e allontanare dalla mente le certezza che l’orrore della Shoah si ripete ogni giorno in forme diverse e che a volte le vittime possono diventare i carnefici.
Sgomento e tristezza per tutte le morti vittime del razzismo e della negazione dei diritti umani, condanna unanime per chi rende l’altro non persona tanto da annientarla, da invadere il su territorio per tornaconti economico-politici, tanto da fare delle sue origini motivo di negazione totale, che sia esso ebreo, rom, africano, afghano, palestinese. Per tutti loro un doveroso minuto di silenzio e l’impegno a pretendere giustizia, anche scomoda che sia, anche difficile da gridare perché volta ad intaccare equilibri economici, politici, storici. Ma che giustizia sarebbe se fosse condizionata da interessi altri, se ne fossero taciute le ragioni, le verità, discapito dei diritti umani?




12.3.12

No Tav e grandi opere: iniziativa a Grottammare.

Ci troviamo in una fase di estrema difficoltà nell'iniziativa politica, perché alle tante vertenze e buone pratiche che mettiamo in campo (nelle scuole, all'Università, a sostegno del Manifesto, nella collaborazione con le vive realtà del territorio) si contrappone una difficoltà enorme nell'articolare un discorso fortemente alternativo ad un Governo, come quello di Monti, assolutamente illegittimo, non democratico, rappresentativo dei poteri economici e finanziari che hanno determinato la crisi che ognuno di noi vive sulla propria pelle.
L'iniziativa qui proposta rappresenta un momento di nuova composizione (come le sigle che la promuovono dimostra) delle vertenze e soggettività critiche: il risalto dato alla mobilitazione NO Tav in queste settimane può essere individuato come elemento generalizzato di critica ad un sistema economico e politico che si fonda sull'ingiustizia sociale, lo stato d'eccezione permanente, la sospensione delle regole democratiche e informative?
Ringraziando Democrazia Km 0 (Olimpia e Mary su tutt@) per il coinvolgimento, invitiamo coloro che ci seguono ed hanno incrociato il nostro percorso negli ultimi mesi a partecipare all'incontro di Grottammare, una tappa fondamentale nella tessitura di quella rete dei beni comuni che magmaticamente viene a produrre (simmetricamente a quanto detto prima) una società equa, democratica, propriamente fondata sul comune.


No Tav e grandi Opere

SABATO 17 MARZO

ore 17:30 presso la Sala Kursaal, Grottammare (AP), 

DemocraziaKmZero,  Luoghi Comuni, Forum AcquaBeneComune, 
Beni Comuni Monteprandone, LGS Macerata

 organizzano un incontro con

Ivan Cicconi (ingegnere esperto di infrastrutture ed appalti pubblici)
Claudio Giorno (valsusino aderente al movimento No Tav)
Sandra Amurri (giornalista de Il Fatto Quotidiano)

per discutere di grandi opere, democrazia ed informazione alla luce di quanto sta avvenenendo in Val di Susa.

2.3.12

IN VAL SUSA UN DIALOGO È POSSIBILE E NECESSARIO

appello per la Val di Susa.
IN VAL SUSA UN DIALOGO È POSSIBILE E NECESSARIO

Dopo mesi in cui la politica ha omesso il confronto e il dialogo necessari con la popolazione della valle, la situazione di tensione in Val Susa ha raggiunto il livello di guardia, con una contrapposizione che sta provocando danni incalcolabili nel fisico delle persone, nella coesione sociale, nella fiducia verso le istituzioni, nella vita e nella economia dell’intera valle. Ad esserne coinvolti sono, in diversa misura, tutti coloro che stanno sul territorio: manifestanti e attivisti, forze dell’ordine, popolazione.

I problemi posti dal progetto di costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione non si risolvono con lanci di pietre e con comportamenti violenti. Da queste forme di violenza occorre prendere le distanze senza ambiguità. Ma non ci si può fermare qui. Non basta deprecare la violenza se non si fa nulla per evitarla o, addirittura, si eccitano gli animi con comportamenti irresponsabili (come gli insulti rivolti a chi compie gesti dimostrativi non violenti) o riducendo la protesta della valle – di tante donne e tanti uomini, giovani e vecchi del tutto estranei ad ogni forma di violenza – a questione di ordine pubblico da delegare alle forze dell’ordine.

La contrapposizione e il conflitto possono essere superati solo da una politica intelligente, lungimirante e coraggiosa. La costruzione della linea ferroviaria (e delle opere ad essa funzionali) è una questione non solo locale e riguarda il nostro modello di sviluppo e la partecipazione democratica ai processi decisionali. Per questo è necessario riaprire quel dialogo che gli amministratori locali continuano vanamente a chiedere. Oggi è ancora possibile. Domani forse no.

Per questo rivolgiamo un invito pressante alla politica e alle autorità di governo ad avere responsabilità e coraggio. Si cominci col ricevere gli amministratori locali e con l’ascoltare le loro ragioni senza riserve mentali. Il dialogo non può essere semplice apparenza e non può trincerarsi dietro decisioni indiscutibili ché, altrimenti, non è dialogo. La decisione di costruire la linea ad alta capacità è stata presa oltre vent’anni fa. In questo periodo tutto è cambiato: sul piano delle conoscenze dei danni ambientali, nella situazione economica, nelle politche dei trasporti, nelle prospettive dello sviluppo. I lavori per il tunnel preparatorio non sono ancora iniziati, come dice la stessa società costruttrice. E non è vero che a livello sovranazionale è già tutto deciso e che l’opera è ormai inevitabile. L’Unione europea ha riaperto la questione dei fondi, dei progetti e delle priorità rispetto alle Reti transeuropee ed è impegnata in un processo legislativo che finirà solo fra un anno e mezzo. Lo stesso Accordo intergovernativo fra la Francia e l’Italia sarà ratificato solo quando sarà conosciuto l’intervento finanziario della Ue, quindi fra parecchi mesi. E anche i lavori sulla tratta francese non sono iniziati né prossimi.

Dunque aprire un tavolo di confronto reale su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternative non provocherebbe alcun ritardo né alcuna marcia indietro pregiudiziale. Sarebbe, al contrario, un atto di responsabilità e di intelligenza politica. Un tavolo pubblico, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, da convocare nello spazio di un mese, è nell’interesse di tutti. Perché tutti abbiamo bisogno di capire per decidere di conseguenza, confermando o modificando la scelta effettuata in condizioni del tutto diverse da quelle attuali..

Un governo di “tecnici” non può avere paura dello studio, dell’approfondimento, della scienza. Numerose scelte precedenti sono state accantonate (da quelle relative al ponte sullo Stretto a quelle concernenti la candidatura per le Olimpiadi). Noi oggi chiediamo molto meno. Chiediamo di approfondire i problemi ascoltando i molti “tecnici” che da tempo stanno studiando il problema,, di non deludere tanta parte del paese, di dimostrare con i fatti che l’interesse pubblico viene prima di quello dei poteri forti. Lo chiediamo con forza e con urgenza, prima che la situazione precipiti ulteriormente.

2 marzo 2012

primi firmatari:
1) don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)
2) Livio Pepino (giurista, già componente Consiglio superiore magistratura)
3) Michele Curto (capogruppo Sinistra, ecologia e libertà, Comune Torino)
4) Ugo Mattei (professore diritto civile, Università Torino)
5) Marco Revelli (professore Scienza Amministrazione, Università del Piemonte orientale)
6) Giorgio Airaudo (responsabile nazionale auto Fiom)
7) Niki Vendola (presidente Regione Puglia)
8)  Monica Frassoni (presidente Verdi europei)
9) Michele Emiliano (sindaco di Bari)
10) Luigi De Magistris (sindaco di Napoli)
11) Tommaso Sodano (vicesindaco di Napoli)
12) Paolo Beni (presidente nazionale Arci)
13) Vittorio Cogliati Dezza (presidente nazionale di Legambiente)
14) Filippo Miraglia (Arci)
15) Gabriella Stramaccioni (direttrice di Libera)
16) don Armando Zappolin (presidente nazionale Cnca)
17) don Tonio dell’Olio (Libera international)
18) Giovanni Palombarini (giurista, già Procuratore aggiunto della Cassazione)
19) don Marcello Cozzi (Libera)
20) Sandro Mezzadra (professore Storia dell dottrine politiche, Università Bologna)

Appello: ripensare il TAV

Appello per un ripensamento del progetto di nuova linea ferroviaria Torino–Lione 
al Presidente del Consiglio Mario Monti 
Gennaio 2012

   
Al Presidente del Consiglio dei Ministri 
On. Prof. Mario Monti
Palazzo Chigi
ROMA

gennaio 2012
Oggetto: Appello per un ripensamento del progetto di nuova linea ferroviaria Torino – Lione, Progetto Prioritario TEN-T N° 6, sulla base di evidenze economiche, ambientali e sociali.


Onorevole Presidente,
ci rivolgiamo a Lei e al Governo da Lei presieduto, nella convinzione di trovare un ascolto attento e privo di pregiudizi a quanto intendiamo esporLe sulla base della nostra esperienza e competenza professionale ed accademica. Il problema della nuova linea ferroviaria ad alta velocità/alta capacità Torino-Lione rappresenta per noi, ricercatori, docenti e professionisti, una questione di metodo e di merito sulla quale non è più possibile soprassedere, nell’interesse del Paese. Ciò è tanto più vero nella presente difficile congiuntura economica che il suo Governo è chiamato ad affrontare.

Sentiamo come nostro dovere riaffermare - e nel seguito di questa lettera, argomentare - che il progetto1 della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, inspiegabilmente definito “strategico”, non si giustifica dal punto di vista della domanda di trasporto merci e passeggeri, non presenta prospettive di convenienza economica né per il territorio attraversato né per i territori limitrofi né per il Paese, non garantisce in alcun modo il ritorno alle casse pubbliche degli ingenti capitali investiti (anche per la mancanza di un qualsivoglia piano finanziario), è passibile di generare ingenti danni ambientali diretti e indiretti, e infine è tale da generare un notevole impatto sociale sulle aree attraversate, sia per la prevista durata dei lavori, sia per il pesante stravolgimento della vita delle comunità locali e dei territori coinvolti.

Diminuita domanda di trasporto merci e passeggeri
Nel decennio tra il 2000 e il 2009, prima della crisi, il traffico complessivo di merci dei tunnel autostradali del Fréjus e del Monte Bianco è crollato del 31%. Nel 2009 ha raggiunto il valore di 18 milioni di tonnellate di merci trasportate, come 22 anni prima. Nello stesso periodo si è dimezzato anche il traffico merci sulla ferrovia del Fréjus, anziché raddoppiare come ipotizzato nel 2000 nella Dichiarazione di Modane sottoscritta dai Governi italiano e francese. La nuova linea ferroviaria Torino-Lione, tra l’altro, non sarebbe nemmeno ad Alta Velocità per passeggeri perché, essendo quasi interamente in galleria, la velocità massima di esercizio sarà di 220 km/h, con tratti a 160 e 120 km/h, come risulta dalla VIA presentata dalle Ferrovie Italiane. Per effetto del transito di treni passeggeri e merci, l’effettiva capacità della nuova linea ferroviaria Torino-Lione sarebbe praticamente identica a quella della linea storica, attualmente sottoutilizzata nonostante il suo ammodernamento terminato un anno fa e per il quale sono stati investiti da Italia e Francia circa 400 milioni di euro.

Assenza di vantaggi economici per il Paese
Per quanto attiene gli aspetti finanziari, ci sembra particolarmente importante sottolineare l’assenza di un effettivo ritorno del capitale investito. In particolare:

1. Non sono noti piani finanziari di sorta
Sono emerse recentemente ipotesi di una realizzazione del progetto per fasi, che richiedono nuove analisi tecniche, economiche e progettuali. Inoltre l’assenza di un piano finanziario dell’opera, in un periodo di estrema scarsità di risorse pubbliche, rende ancora più incerto il quadro decisionale in cui si colloca, con gravi rischi di “stop and go”.

2. Il ritorno finanziario appare trascurabile, anche con scenari molto ottimistici.
Le analisi finanziarie preliminari sembrano coerenti con gli elevati costi e il modesto traffico, cioè il grado di copertura delle spese in conto capitale è probabilmente vicino a zero. Il risultato dell’analisi costi-benefici effettuata dai promotori, e molto contestata, colloca comunque l’opera tra i progetti marginali.

3. Ci sono opere con ritorni certamente più elevati: occorre valutare le priorità
Risolvere i fenomeni di congestione estrema del traffico nelle aree metropolitane così come riabilitare e conservare il sistema ferroviario "storico" sono alternative da affrontare con urgenza, ricche di potenzialità innovativa, economicamente, ambientalmente e socialmente redditizie.

4. Il ruolo anticiclico di questo tipo di progetti sembra trascurabile.
Le grandi opere civili presentano un’elevatissima intensità di capitale, e tempi di realizzazione molto lunghi. Altre forme di spesa pubblica presenterebbero moltiplicatori molto più significativi.

5. Ci sono legittimi dubbi funzionali, e quindi economici, sul concetto di corridoio.
I corridoi europei sono tracciati semi-rettilinei, con forti significati simbolici, ma privi di supporti funzionali. Lungo tali corridoi vi possono essere tratte congestionate alternate a tratte con modesti traffici. Prevedere una continuità di investimenti per ragioni geometriche può dar luogo ad un uso molto inefficiente di risorse pubbliche, oggi drammaticamente scarse.

Bilancio energetico-ambientale nettamente negativo.

Esiste una vasta letteratura scientifica nazionale e internazionale, da cui si desume chiaramente che i costi energetici e il relativo contributo all’effetto serra da parte dell’alta velocità sono enormemente acuiti dal consumo per la costruzione e l’operatività delle infrastrutture (binari, viadotti, gallerie) nonché dai più elevati consumi elettrici per l’operatività dei treni, non adeguatamente compensati da flussi di traffico sottratti ad altre modalità. Non è pertanto in alcun modo ipotizzabile un minor contributo all’effetto serra, neanche rispetto al traffico autostradale di merci e passeggeri. Le affermazioni in tal senso sono basate sui soli consumi operativi (trascurando le infrastrutture) e su assunzioni di traffico crescente (prive di fondamento, a parte alcune tratte e orari di particolare importanza).



Risorse sottratte al benessere del Paese

Molto spesso in passato è stato sostenuto che alcuni grandi progetti tecnologici erano altamente remunerativi e assolutamente sicuri; la realtà ha purtroppo dimostrato il contrario. Gli investimenti per grandi opere non giustificate da una effettiva domanda, lungi dal creare occupazione e crescita, sottraggono capitali e risorse all’innovazione tecnologica, alla competitività delle piccole e medie imprese che sostengono il tessuto economico nazionale, alla creazione di nuove opportunità lavorative e alla diminuzione del carico fiscale. La nuova linea ferroviaria Torino-Lione, con un costo totale del tunnel transfrontaliero di base e tratte nazionali, previsto intorno ai 20 miliardi di euro (e una prevedibile lievitazione fino a 30 miliardi e forse anche di più, per l’inevitabile adeguamento dei prezzi già avvenuto negli altri tratti di Alta Velocità realizzati), penalizzerebbe l’economia italiana con un contributo al debito pubblico dello stesso ordine all’entità della stessa manovra economica che il Suo Governo ha messo in atto per fronteggiare la grave crisi economica e finanziaria che il Paese attraversa. è legittimo domandarsi come e a quali condizioni potranno essere reperite le ingenti risorse necessarie a questa faraonica opera, e quale sarà il ruolo del capitale pubblico. Alcune stime fanno pensare che grandi opere come TAV e ponte sullo stretto di Messina in realtà nascondano ingenti rischi per il rapporto debito/PIL del nostro Paese, costituendo sacche di debito nascosto, la cui copertura viene attribuita a capitale privato, di fatto garantito dall’intervento pubblico.


Sostenibilità e democrazia

La sostenibilità dell’economia e della vita sociale non si limita unicamente al patrimonio naturale che diamo in eredità alle generazioni future, ma coinvolge anche le conquiste economiche e le istituzioni sociali, l’espressione democratica della volontà dei cittadini e la risoluzione pacifica dei conflitti. In questo senso, l’applicazione di misure di sorveglianza di tipo militare dei cantieri della nuova linea ferroviaria Torino-Lione ci sembra un’anomalia che Le chiediamo vivamente di rimuovere al più presto, anche per dimostrare all’Unione Europea la capacità dell’Italia di instaurare un vero dialogo con i cittadini, basato su valutazioni trasparenti e documentabili, così come previsto dalla Convenzione di Århus2.

Per queste ragioni, Le chiediamo rispettosamente di rimettere in discussione in modo trasparente ed oggettivo le necessità dell’opera.
Non ci sembra privo di fondamento affermare che l’attuale congiuntura economica e finanziaria giustifichi ampiamente un eventuale ripensamento e consentirebbe al Paese di uscire con dignità da un progetto inutile, costoso e non privo di importanti conseguenze ambientali, anche per evitare di iniziare a realizzare un’opera che potrebbe essere completata solo assorbendo ingenti risorse da altri settori prioritari per la vita del Paese.

Con viva cordialità e rispettosa attesa,

Sergio Ulgiati, Università Parthenope, Napoli
Ivan Cicconi, Esperto di infrastrutture e appalti pubblici
Luca Mercalli, Società Meteorologica Italiana
Marco Ponti, Politecnico di Milano

Riferimenti bibliografici: cfr. http://www.lalica.net/Appello_a_Monti

1 L'accordo del 2001 tra Italia e Francia, ratificato con Legge 27 settembre 2002, n. 228, prevede all'art. 1 che "I Governi italiano e francese si impegnano (…) a costruire (…) le opere (…) necessarie alla realizzazione di un nuovo collegamento ferroviario merci-viaggiatori tra Torino e Lione la cui entrata in servizio dovrebbe avere luogo alla data di saturazione delle opere esistenti." Non ostante la prudenza contenuta in questo articolo, i Governi italiani succedutisi hanno fatto a gara per dimostrare che la data di saturazione della linea storica era dietro l'angolo. I fatti hanno dimostrato il contrario, ma – inspiegabilmente - non vi sono segnali di ripensamento da parte dei decisori politici.

2 http://www.unece.org/fileadmin/DAM/env/pp/documents/cep43ital.pdf


PER SOTTOSCRIVERE L'APPELLO: 
http://www.notav.eu/modules.php?name=ePetitions&op=more_info&ePetitionId=3