30.11.11

Luoghi comuni

di Luigi Sturniolo - www.terrelibere.org

I dieci anni che abbiamo alle spalle hanno visto il territorio aggredito dalle politiche delle grandi opere, dei grandi eventi, delle emergenze. Ad esso ha fatto ricorso un sistema d’impresa in crisi che si è nutrito di risorse pubbliche. Questo sistema ha replicato, nei fatti, il meccanismo di dilapidazione di risorse pubbliche e di democrazia derivato dalle privatizzazioni e dalle varie forme di combinazione pubblico-privato.

Il luogo comune non è uno spazio vuoto, non è un`oasi, non è una riserva. Esso prende i connotati di chi lo vive, non conosce la separatezza del bene protetto. E` a disposizione. Il luogo comune non si costituisce a partire dalla negazione dell`attività umana. Al contrario, in esso si addensano esperienze umane che stabiliscono rapporti di convivenza con le altre espressioni del vivente. Ma, appunto, non vive per sottrazione, vive per accumulo. E` luogo di produzione, di attraversamento. Non si specchia in sé stesso e non ama il silenzio. Il luogo comune si dà in seguito a una conquista, è il frutto di una lotta. Viene dopo, non prima della disputa. In esso ha già avuto luogo una sperimentazione. Se è uno spazio sottratto alla mercificazione lo è non perché avrebbe potuto essere venduto in quanto tale, ma in quanto già usato come territorio della spoliazione e dell`appropriazione.

I dieci anni che abbiamo alle spalle hanno visto il territorio aggredito dalle politiche delle grandi opere, dei grandi eventi, delle emergenze. Ad esso ha fatto ricorso un sistema d`impresa in crisi che si è nutrito di risorse pubbliche. Perché questo potesse aver luogo è stato costruito un apparato normativo adeguato e organico centrato sulla verticalizzazione delle scelte e sulla cancellazione sistematica di ogni forma di partecipazione democratica, fosse anche quella, costituzionalmente garantita, degli organismi di rappresentanza. Questo sistema ha replicato, nei fatti, il meccanismo di dilapidazione di risorse pubbliche e di democrazia derivato dalle privatizzazioni e dalle varie forme di combinazione pubblico-privato.

Il territorio è diventato in questi dieci anni lo spazio delle lotte. Nel territorio si sono sviluppate le esperienze più significative e partecipate. Per quanto ancora strumento di grande importanza, lo sciopero ha perso parte della propria capacità d`incidere sulla realtà. Lo stesso legame d`interesse all`interno delle categorie e dei luoghi di lavoro si è rarefatto a causa della frantumazione delle categorie stesse. La moltiplicazione dei contratti ha reso sempre più difficile la costruzione di piattaforme comuni. Gli scioperi hanno visto una riduzione della partecipazione a causa del rapporto costi/benefici assolutamente deficitario e del significato più di posizionamento che davvero vertenziale di alcuni di questi. Così il territorio ha finito per diventare il campo di definizione di nuove alleanze. Soggetti anche molto diversi tra di loro sono riusciti a convivere e a condividere mobilitazioni ricompositive sui temi della difesa del territorio dalle devastazioni ambientali, sulla gestione delle risorse pubbliche, sulla nocività, sul reddito, sull`istruzione, sulla salute, sulla mobilità.

E` sul territorio che si sono date le prime sperimentazioni relative al comune. L`acqua bene comune, gli spazi occupati bene comune, l`istruzione bene comune, la salute bene comune sono battaglie che hanno valenza universale, ma che si sostanziano a partire dai comitati locali, dalle aggregazioni locali. E` sul terreno del locale che l`interesse comune viene percepito con maggiore facilità. Laddove il piano politico vive della perdita derivata dai tanti passaggi della mediazione, laddove il piano sindacale finisce per inseguire interessi particolari che, polverizzati, finiscono spesso per confliggere in una sorta di guerra di tutti contro tutti, lo spazio locale ha consentito l`incontro di molteplicità che hanno dato vita a lotte comuni. E sono i movimenti più avanzati sul piano del sindacale e della pratica dello sciopero che si costituiscono ormai su una dimensione territoriale. Le esperienze indignate, delle acampadas e dell`occupy in giro per il mondo sono esperienze territoriali. La manifestazione del 15 ottobre a Roma, che ha visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, è stata animata in misura prevalente da esperienze, comitati, aggregazioni, movimenti territoriali, piuttosto che mossa dalla capacità delle organizzazioni nazionali. Nelle assemblee che l`hanno preceduta il richiamo all`unità che si dispone all`azione sul piano locale è stato il grido d`auto-aiuto più sentito.

La crisi ecologica (della quale il dissesto idrogeologico è fenomeno particolarmente gravido di pericoli e rappresentativo della rottura di tutti gli equilibri legati all`insediamento umano), la crisi della rappresentanza politica (evidente ormai a tutti i livelli nei quali si forma la decisione politica), la crisi economica (con il portato di crisi dei riformismi) consegnano ai territori il compito e la possibilità di ricostruire dal basso forme sostenibili dell`abitare, del decidere e del produrre. Il carattere strutturale delle crisi rende impossibile rintracciare delle soluzioni senza una fuoruscita dai dispositivi che le hanno causate. Da questo punto di vista, evidentemente, un governo guidato da personale della finanza e fondato sull`intimazione di una banca non può che rappresentare il tentativo di disporre la società ai flussi della finanziarizzazione, piuttosto che una difesa dai disastri di cui essa è portatrice.

Le pratiche del comune, le forme politiche originali di esodo dal privato e dallo statale, non possono che darsi sul territorio, laddove i corpi s`incontrano. Le pratiche del comune dovranno inondare il pubblico, guerreggiare affinchè esso venga riempito di partecipazione, autogestione, autorganizzazione, ma è solo al livello territoriale che sarà possibile, ad esempio, ricostruire, ripartendo dai saperi e dalle competenze locali, una dimensione urbanistica che consenta di sottrarsi al riprodursi sempre più frequente di eventi calamitosi. E` solo a questo livello che sarà possibile costruire un welfare dal basso che consenta, attraverso forme di mutualismo e autogestione, di difendersi dalla penuria cui costringe la crisi economica. E` a questo livello che si possono sperimentare forme di produzione auto-centrate, sostenibili e libere dalle forme dello sfruttamento.

I luoghi comuni non sono perimetrati. Riconoscono e recuperano saperi e vocazioni locali, ma non sono identitari. Sperimentano forme di autogoverno e non competono tra di loro. Sono territori che, dolcemente, si compenetrano. Dandoci ancora una possibilità.

28.11.11

Perchè va rispettato il voto dei referendum - Stefano Rodotà

Il governo Monti non è atteso soltanto alla prova difficile dell´economia. Lo hanno sottolineato ieri a Roma i movimenti per l´acqua come bene comune che non si sono dissolti dopo il successo referendario.
Ma hanno voluto opportunamente ricordare che nessuna emergenza può giustificare l´allontanarsi dalla retta via costituzionale. Sappiamo che sono all´opera gruppi e interessi che spingono nella direzione opposta, invocando il mercato come unica regola, alla quale le istituzioni dovrebbero, una volta di più, piegarsi. Guai se queste suggestioni trovassero eco nel governo. La paventata sospensione della democrazia troverebbe un´inquietante conferma. La volontà espressa con il referendum, infatti, non è disponibile per nessun governo, politico o tecnico che sia, e per qualsivoglia maggioranza parlamentare, ristretta o allargata che sia.
Torniamo alle radiose giornate di giugno, quando 27 milioni di cittadini (ricordiamo sempre questa cifra) dissero no al nucleare, alla generalizzata privatizzazione di servizi pubblici, alle leggi ad personam. Proprio il risultato di quest´ultimo referendum dovrebbe esser preso terribilmente sul serio da un governo che non può affidare soltanto allo "stile" l´impresa ardua di ricostruire un tessuto civile profondamente lacerato. Con il loro voto i cittadini non hanno semplicemente abrogato una legge. Hanno voluto manifestare in modo netto la loro volontà di un ritorno pieno alla legalità, senza privilegi per i potenti: ieri Berlusconi e la sua cerchia, oggi gli interessati all´industria nucleare e alla lucrosa gestione privata dell´acqua.
Il rispetto assoluto della legalità non dovrebbe avere bisogno del severo e corale richiamo venuto dalla maggioranza degli italiani. Ma questo vi è stato.
Ve ne era bisogno, e oggi la legittimazione del governo passa anche attraverso questa ineludibile prova di "serietà" (altra parola inflazionata in questi giorni) che consiste in primo luogo nel rispetto delle istituzioni. Così come dev´essere rispettato il Parlamento, vi è un pari dovere di fedeltà verso l´istituto del referendum, con il quale si esercita direttamente la sovranità popolare.
Archiviamo pure come un incidente di percorso di un ministro frettoloso la dichiarazione secondo la quale potrebbe essere ripreso il tema dell´energia nucleare, che pure è servita a ridare fiato a chi non vuole prendere atto del risultato referendario. Ma è quanto continua ad avvenire, o a non avvenire, intorno alla questione dell´acqua ad inquietare seriamente. Soltanto occasionali e sporadiche sono state le iniziative volte a dare seguito alla chiarissima volontà popolare. Molteplici, invece, sono state quelle volte ad aggirare o vanificare le indicazioni dei referendum, la cui portata, peraltro, era stata ben chiarita dalla Corte costituzionale. E questo spirito non è scomparso, viste le proposte, talora sgangherate, con le quali si indica la via della privatizzazione dei servizi pubblici, delle dismissioni in blocco di beni pubblici.
Il governo, allora, dovrebbe rivolgere la sua attenzione all´articolo 4 della manovra economica che, come da più parti è stato messo in evidenza, non appare in linea con l´esito referendario; e, comunque, non dovrebbe secondare alcuna mossa che possa essere intesa come sostegno per chi, a livello locale, vuole cancellare o rinviare all´infinito gli effetti del referendum. Proprio qui, infatti, nei Comuni e nei cosiddetti Ato (Ambito territoriale ottimale), devono essere avviate le iniziative per la ripubblicizzazione dell´acqua secondo le indicazioni referendarie. Il punto di partenza può essere individuato nei Comuni dove già la gestione dell´acqua è affidata a società per azioni interamente in mano pubblica, che possono essere trasformate in aziende speciali: è già avvenuto a Napoli, e lo stesso può essere fatto a Torino, Milano, Venezia, Palermo.
Ma i movimenti riuniti ieri a Roma hanno indicato anche una strada che affida alla vitalità stessa delle iniziative dei cittadini l´attuazione di quanto è stato stabilito con il voto sul secondo quesito referendario che, per quanto riguarda la gestione del servizio idrico, ha abrogato la norma relativa alla remunerazione del capitale nella misura del 7 per cento. Di fronte all´inadempimento dell´obbligo referendario, sarà lanciata una campagna di "obbedienza civile" per il ricalcolo delle bollette, da pagare senza la remunerazione del capitale. E vi saranno specifiche iniziative giudiziarie.
Questo non è solo un segno della vitalità del movimento dell´acqua, che si conferma come soggetto politico capace di custodire e attuare la volontà dei cittadini. Rappresenta un momento importante della battaglia complessiva per il rispetto della legalità costituzionale.
Si delinea così con nettezza una strategia politica e istituzionale con la quale il governo deve fare i conti.
Può darsi che trovi sostegno debole nella propria maggioranza, dove sono molti quelli che anelano ad una rivincita sul risultato referendario. Ma, legalità costituzionale a parte, questo sarebbe da parte di tutti un segno di incomprensibile miopia politica, un´occasione ulteriore e grave di separazione tra ceto politico e opinione pubblica. Non si può costruire un continuum governoParlamento che contrapponga una propria maggioranza a quella referendaria. Se ci si vuole liberare dalle tossine e dai ricatti dell´antipolitica, bisogna guardare alla buona politica che in Italia si è manifestata con continuità fin dai primi mesi del 2010 e che ha prodotto la partecipazione attiva di 7 milioni di persone alle campagne per le elezioni amministrative e referendaria della passata primavera. Il governo non segua i cattivi consigli di chi incita a liberarsi dalla presa del "movimentismo".
Senza un confronto vitale con la società, il suo respiro sarebbe corto.
Il Parlamento, dal quale si levano voci da vergini violate da parte di chi ne ha segnato l´estrema mortificazione con il voto su Ruby come nipote di Mubarak, vuole ritrovare un suo ruolo? Ha davanti a sé una proposta d´iniziativa popolare per una nuova disciplina dell´acqua firmata da 400mila cittadini. Vi sono due disegni di legge per una nuova classificazione dei beni, con l´introduzione della categoria dei beni comuni, presentati dalla regione Piemonte e dai senatori del Pd. Metta questi testi all´ordine del giorno, ne discuta e il governo, per la parte che gli compete, secondi queste iniziative. E, comunque sia, misuri le sue decisioni con il metro di un´intelligenza politica lungimirante, che non guardi a beni e servizi come ad un´occasione disperata per fare cassa, ma ne consideri il nesso con i diritti fondamentali delle persone, il loro valore "comune" e così consenta pure una loro utilizzazione economica non prigioniera della logica distruttiva del brevissimo periodo.
Una volta di più, i cittadini stanno mostrando intelligenza politica, respiro culturale. Che le istituzioni siano alla loro altezza.

27.11.11

Tanti, colorati e determinati: "Rispettate il voto del referendum""

di Cinzia Gubbini, da "Il Manifesto" di oggi.

Palloncini che sono gocce di acqua, tantissimi striscioni, una scansione ordinata del corteo: prima di tutto i Comitati che si sono battuti per il refrendum del 12 e 13 giugno che ha visto stravincere i quesiti relativi allo stop dei privati nella gestione dell'acqua e al "profitto garantito" per i gestori, poi tutte le realtà che hanno sostenuto quella battaglia dalle associazioni come Arci, Legambiente, Wwf, i partiti da Rifondazione a Sel, i Cobas e a seguire quella che sarà la prossima emergenza, cioè i rifiuti. Il popolo dell'acqua è tornato a Roma per farsi vedere, di nuovo, in tutta la sua potenza. Una manifestazione che non ha avuto - come già accadde per i referendum - una grande eco mediatica. Ma che evidentemente non ne ha bisogno. 
Se all'inizio, a piazza della Repubblica, i numeri non sembravano entusiasmanti, via via la manifestazione ha preso corpo fino a far dire agli organizzatori "Siamo in 100 mila". Lo striscione di apertura dà tutto il senso politico della manifestazione: "Per il rispetto dell'esito referendario, per un'uscita alternativa dalla crisi". Questo movimento, che è riuscito a costruire consenso sfidando tutti i luoghi comuni che infarciscono anche il "problema" della crisi economica - ovvero privatizzazioni/liberalizzazioni come unica ricetta, messa all'angolo della gestione pubblica considerata sempre e comunque sbagliata - non si fa spaventare: "Sapevamo che la battaglia sarebbe stata lunga", dicono in molti. La questione è chiara: il referendum di giugno ha portato alle urne più del 50% dei votanti, una cosa che non si vedeva da anni in Italia. Il giorno dopo tutti sono saliti sul carro dei vincitori. Il giorno seguente la questione era archiviata, e il problema più urgente sembrava essere: come fare ad aggirare l'ostacolo? 
Così non solo, ad eccezione del Comune di Napoli, nessun altro ente locale ha colto nell'immediato l'occasione per ripubblicizzare l'acqua trasformando anche le Spa a maggioranza pubblica (certo, il referendum non lo impone, ma tutto sta nel coraggio di cogliere il segno politico di un'espressione popolare). Ma dell'obbligo, sancito dal voto, di abbattere quel 7% di "reddito garantito" (la famosa, criptica espressione, del "capitale remunerato") per i gestori, non se ne parla proprio. Come se non bastasse, sull'onda della crisi e col fiato sul collo della Bce (che nella sua lettera all'Italia mette al primo posto le liberalizzazioni dei servizi pubblici) il governo Berlusconi ha varato un pacchetto di privatizzazioni.
E il governo Monti? Dalle premesse, è evidente, non è amico dei referendari. Nei fatti ancora non si è espresso, e continua a non esprimersi. Silenzio eloquente. Il Comitato italiano per l'acqua pubblica, però, non arretra e ha chiesto un incontro con il neo premier. Per ora non accordato.
La risposta del movimento comunque è già pronta: "contro la crisi e la speculazione, autoriduzione, autoriduzione", uno degli slogan più gettonati della giornata. Partirà infatti nei prossimi giorni la campagna "Obbedienza civile". L'obiettivo è autorganizzare i territori per una riduzione della tariffa pari al 7%, tanto quanto il capitale garantito. Torino partirà a giorni.

L'appello della manifestazione "In piazza per l'acqua, i beni comuni e la democrazia":
 http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/11/in-piazza-per-lacqua-i-beni-comuni-e-la.html

25.11.11

Roma 25 novembre 2011 - L'AUSTERITY E' VIOLENZA SUL CORPO DELLE DONNE

Oggi, 25 novembre, è la Giornata contro la violenza sulle donne. Noi siamo con loro.
Tratto da globalproject.info

Oggi 50 donne, studentesse, migranti, precarie hanno attraversato le strade del centro, rispondendo all'appello di Wall Street, #occupypatriarchy ed esponendo uno striscione: l'austerity e' violenza sul corpo delle donne. 
Oggi 25 novembre e' giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Un occasione per dire che anche le politiche di austerity che ci vogliono imporre sono una forma di violenza sui nostri corpi. 
Abbiamo attraversato le strade del lusso, per ribadire che la possibilità di scelta e all'autodeterminazione, messo in crisi dalla proposta di legge Tarzia sui consultori e dall'attacco alla 194, non sono un lusso, ma un diritto. 
Qui di seguito il volantino dell' iniziativa:

Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nel nostro paese e in tutto il mondo la violenza contro le donne è all’ordine del giorno: stupri, violenze domestiche, assassinii. Questa condizione è acuita dentro il contesto di crisi. Abbiamo deciso di aderire all’appello Occupypatriarchy, una chiamata che nasce all’interno dello spazio pubblico aperto negli ultimi mesi dal movimento Occupy Wall Street. WE ARE THE 99%, slogan delle mobilitazioni statunitensi, non sta a indicare uno spazio liscio ed omogeneo, ma al contrario trae la sua forza dalle differenti striature di colore, genere e condizione che lo fanno vivere.
Le donne con il loro lavoro suppliscono alla crisi economica e a quella politica. Un recente rapporto Istat mostra come il “nuovo sistema di Welfare” abbia a che vedere direttamente con il lavoro femminile non retribuito: come siano, cioè, le nonne a sostituire gli asili nido, le figlie a sostenere il peso dei genitori anziani, le madri ad occuparsi dei figli, e come, in altre parole, il taglio ai fondi per i servizi sociali significhi il trasferimento di compiti e fatica sulle donne.
La violenza sulle donne è frutto di un sistema fondato sulla sopraffazione maschile. In tempi di austerity la parità tra i sessi sembra diventare un di “bene di lusso”. Quando i governi propongono politiche di conciliazione vita-lavoro legittimano, di fatto, il principio per cui una donna deve svolgere più lavori contemporaneamente: precari e senza garanzie nel mercato del lavoro “ufficiale”, senza retribuzione e diritti nella sfera privata. Questa è violenza travestita da austerity!
La crisi attacca ogni possibilità di autodeterminazione, mettendo in discussione la libertà di scelta. Ed è proprio su questa che è stato sferrato l’attacco: l’intento della Proposta di Legge Tarzia è quello di cancellare l’esperienza dei consultori, intesi come strutture sanitarie laiche, adibite alla tutela della salute della donna. Mettendo direttamente in discussione la legge 194 sull’aborto, i consultori vengono proposti come centri per la tutela del concepito e della famiglia, togliendo di fatto qualsiasi centralità all’autonomia delle donne e consentendo l’accesso a figure non qualificate del mondo cattolico.
Il “caso Lazio” è in questo senso emblematico e si configura come laboratorio per legittimare lo smantellamento del Welfare su scala complessiva. Quello dei consultori è, tra gli altri, un terreno di conflitto sul quale bisogna insistere, soprattutto con il governo Monti, in odor di sacrestia, per difendere il diritto alla salute e all’autodeterminazione della donna.
Occupyamo spazi per reinventare la democrazia!  I nostri corpi non sono titoli di Stato!
LA VITA SIAMO NOI!
#OccupyPatriarchy Roma

22.11.11

Note sul 15 ottobre - di Toni Negri

Convinti che il 15 ottobre sia stata una grande data di ricomposizione mondiale delle vittime del capitalismo e della crisi, riportiamo di seguito un intervento di Toni Negri in merito alla manifestazione degli indignati del 15 ottobre. Un ulteriore spunto, accanto a quelli già proposti.

18 ottobre 2011 - tratto da uninomade.org
Ero e sono fuori, in queste settimane, in Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e commenti.
1) La divisione tra gli “indignati” e gli altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria: il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare politica”.
2) Ma allora, si dirà, gli indignati “veri” sono i ragazzi che incendiano le macchine e fanno quel gran casino contro la polizia a San Giovanni? Certo che no. Qui nasce tuttavia il grande, se non l’unico problema. Chi possono essere gli unificatori del movimento? Chi costruisce oggi, in Italia, l’unità degli sfruttati, degli indebitati, dei non-rappresentati?
Le risposte a questi interrogativi sono molteplici. Tanti anni fa, Asor Rosa avrebbe detto: quei ragazzi pieni di rabbia appartengono alla “seconda società”, essa è inorganizzabile, essa è la non-politica. Oggi, alcuni rappresentanti del “movimento” diranno: sono estremisti, anarchici e insurrezionalisti, quindi pericolosi, quindi inorganizzabili. È forse vero. La conseguenza sarà allora la medesima che ne trasse Asor trent’anni fa: sono irrappresentabili? Anche qui: forse sì. Ma per questo li escludiamo per principio, prima ancora di aver capito perché erano tanti e di cosa erano l’espressione? Noi non crediamo che il ritornello di Asor Rosa possa valere come pregiudizio. A chi ce lo presentasse come tale, ci rivolgeremmo allora agli Indignados spagnoli ed universali per avere un’altra risposta. Gli Indignados sono un movimento dei poveri – sono anni che andiamo indagando e parlando di precarizzazione lavorativa e esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che queste lotte debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale.
Dobbiamo ricordarci che laddove, in altri paesi d’Europa che pur conoscono grandi tradizioni di lotta, si è data l’incapacità a mettere insieme tutte le facce della nuova povertà, la sconfitta è stata generale, anche quando i movimenti erano duraturi e forti. La Francia, per esempio, non produce più lotte vincenti da quando il movimento studentesco ha smesso di congiungersi con quello delle banlieues. In Germania, non c’è più lotta da quando i Grünen Realos-pragmatici hanno isolato e liquidato i Fundis – gli occupanti delle case, quelli che lottavano assieme ai migranti, e avevano assunto la dimensione dei quartieri per tentare la costruzione di istituzioni del comune. Dobbiamo tornare a costruire un fronte dei poveri – tutti i poveri, dalla classe media immiserita in giù.
C’è dunque una bella differenza fra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerarli intoccabili, lebbrosi. Loro – quelli che spaccano – hanno diritto a dirci di no, a rifiutarci, a preferire l’isolamento. Ma noi, non per questo li consideriamo estranei alla povertà. Il 14 dicembre, il 15 ottobre, e tante altre volte, li abbiamo visti in azione: alcune periferie della povertà sono scese in piazza. La polizia e i media le hanno immediatamente riconosciute: il potere è spesso bieco ma non è stupido. Perché i movimenti non potrebbero anche loro chiedersi chi sono, e provare a capire prima di giudicare? Forse perché dietro alla puzza al naso degli organizzatori, senti un rigetto di pelle?
3) Il colmo della cecità e della provocazione dei media (e, subito dopo, del Ministero degli Interni) è stato toccato quando hanno scelto di attaccare i movimenti NoTAV e San Precario – vale a dire le due realtà di movimento attualmente più forti. Forse le uniche che non abbiano aperture politiciste e che non siano interessate alla rappresentanza parlamentare, ma che piuttosto sono democraticamente piantate nel reale, nella società civile, e che producono effetti concreti immediati.
Dobbiamo stringerci attorno ai compagni che subiscono queste provocazioni – cosi come attorno agli incarcerati, di cui chiediamo la liberazione senza se e senza ma. Cos’altro fanno gli Indignados di Barcellona per gli arrestati dopo la tentata occupazione della Camera regionale catalana? Hanno riconosciuto che si trattava di un errore politico evidente, ma li difendono comunque in nome dell’unità del movimento. Vogliamo continuare a caricaturare i comportamenti pacifici degli Indignados spagnoli alla maniera di pecore gentili?
4) Oggi solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. Non un “programma minimo” – un programma che non dia obbiettivi concreti ma solo linee di alleanza sindacale e parlamentare. Perché stupirsi che molti sentano questo programma minimo come un “opportunismo massimo”?
Centrale è invece oggi un progetto costituente che unifichi politicamente, e quindi sappia anche reagire alle eventuali componenti distruttive del movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato.
Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile -, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno.
Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. I ragazzi – quelli che hanno fatto casino – esprimono, con la loro rabbia, non la capacità ma l’incapacità di rispingere la paura del potere. Si può tuttavia probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri – a condizione che si abbia un programma positivo, maggioritario, materialmente definito. Oggi quel programma del comune si è già ampiamente manifestato nei referendum e nelle elezioni municipali, contro le macchine partitiche. Si tratta di procedere su questo terreno.
Svolgere il tema del comune costituente nella lotta rappresenta dunque oggi forza maggioritaria. A Reggio Emilia nel 1960, e a Genova nel 2001, dei compagni sono stati uccisi – ma il movimento non aveva paura, era unito, vinse perché non escludeva nessuno a priori, mise polizia e governi davanti all’evidenza di un irresistibile ostacolo. Oggi, volendo presentarsi con un programma minimo, cercando alleanze in una parte del ceto politico screditata e corrotta quanto lo è il ceto politico di destra, si è finito per rafforzare Berlusconi. Tutti dunque sembrano consapevoli che siamo giunti ad una impasse. Un’impasse di programma prima che di metodo. Ma come metterlo nella testa di coloro che vedono un insorto in ogni povero che non ha più paura?
5) Siamo infine anche di fronte ad un’impasse di metodo. Non erano stati dati obbiettivi al corteo di Roma. Di contro, a Madrid, sono stati i palazzi del potere e le banche ad essere assediate da mezzo milione di Indignados. Gli stessi che, immediatamente dopo, hanno ripreso le loro attività di quartiere, uniti da un’unica organizzazione orizzontale, usando reti, socialnetworks e twitts in modo astuto, chiamando tutti dove c’era bisogno, su uno sfratto come nelle scuole occupate, o negli ospedali autoamministrati.
A Barcellona, duecentomila persone si sono ritrovate: poi si sono formati tre cortei, l’uno ha occupato un ospedale, l’altro l’università ed un terzo un enorme magazzino per farne un centro sociale. A Piazza San Giovanni bisognava invece arrivare per ascoltare i politici di prima, seconda e terza generazione? Vi stupisce che nasca il bordello che c’è stato? Qual è stato il metodo, qual è stata la gestione politica del comune in quel caso?
Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione – la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. Si tratta di lasciargli spazio e voce.
 “Lasciateci fare politica”, dicono alcuni. Certo. Intanto, noi proviamo a costruire il movimento degli Indignados.

Barbara di Tommaso, Io, in movimento fuori dai recinti. E dagli scontri
Loris Campetti, La posta in gioco è una sola:
Immagini:
Riflessioni di un poliziotto:
Francesco Interlenghi, Uno sguardo sul 15 ottobre:

"Se l'Europa fosse un contropotere" di Etienne Balibar

Si riporta di seguito l'articolo di Benedetto Vecchi, tratto da Il Manifesto del 19 novembre, con il quale si riprende l'intervento di Etienne Balibar tenuto all'Università di Bologna "Cittadinanza europea: non finire così" (http://incidenze.blogspot.com/2011/11/etienne-balibar-cittadinanza-europea.html). Testo interessante e utile per mettere in circolazione alcuni concetti utili per leggere l'attuale situazione politica, economica e sociale: stato d'eccezione, dittatura commissaria, tecnostruttura, accumulazione, costituzione europea.


La risposta alla crisi da parte delle élite europee e dei mercati è l'instaurazione di uno stato d'eccezione incentrato su una «dittatura commissaria». Un incontro con il filosofo francese I movimenti sociali possono costituire l'antidoto alla politiche di austerità imposte da Bruxelles. Mentre i governi tecnici vanno interpretati come un laboratorio per il futuro assetto politico del vecchio continente.

La provocazione arriva a metà del seminario tenuto all'Università di Bologna. «Quello che sta accadendo in Europa può essere considerato la messa in forma di un nuovo modello di governo politico. Stiamo cioè assistendo al rilancio del processo di unificazione politica dopo la battuta d'arresto successiva ai referendum francese, olandese e irlandese, che misero in evidenza il diffuso dissenso al processo avviato dai tecnocrati di Bruxelles. Il rilancio dell'unificazione politica avviene però all'insegna di un neoliberalismo che, nonostante la sua crisi, è ancora capace di esercitare un'egemonia nel vecchio continente». Etienne Balibar è un europeista convinto; e tuttavia non ha mai smesso di criticare l'Unione europea rispetto a quanto faceva nella definizione della sua costituzione. Un'attitudine critica che non viene meno neppure in questi giorni, con la formazione dei governi tecnici in Grecia e in Italia. «Non credo perciò che l'Europa sarà la vittima sacrificale necessaria per uscire dalla crisi del capitalismo. Più realisticamente, invece, stiamo appunto vedendo la formazione di un modello di governo europeo che ha tutte le carte in regola per affermarsi dentro e oltre la crisi». 
In Italia per una serie di seminari e per ricevere, a Genova, il premio «Mondi migranti», il filosofo francese invita a guardare con attenzione le mutazioni in atto dei sistemi politici nazionali e, soprattutto, sovrannazionali. «In Francia, ma anche in Italia, Germania, Inghilterra, c'è una forte componente politica e intellettuale che vuol chiudere il discorso europeo per tornare a una sovranità nazionale, ritenuta la trincea indispensabile per fronteggiare il potere della finanza. Una posizione che non coglie un dato per me fondamentale: l'interdipendenza tra gli stati e la formazione di un mercato mondiale che non tollera confini. E soprattutto un cambiamento nella costituzione materiale delle società».
Il dominio della tecnostruttura
La lettura di Balibar non pecca certo di ingenuità. Ha sempre guardato con favore alla formazione del nuovo soggetto politico sovranazionale chiamato Europa. Una posizione in controtendenza con quanto sosteneva la «sinistra-sinistra» francese, e non solo. Un impegno europeista che non ha però mai omesso il fatto che ciò che stava consumandosi era un processo di costituzionalizzazione che non aveva nessuna legittimazione popolare. Ed è su questo aspetto che l'analisi di Balibar attinge alla cronaca di queste settimane, cioè da quando la crisi del cosiddetto debito sovrano ha messo in forte difficoltà l'Unione europea, nonché ha quasi decretato il fallimento della Grecia e spinto l'Italia sulla stessa strada intrapresa dal governo di Atene. Il filosofo francese circoscrive la sua analisi alla dimensione del Politico, ma sa che l'ospite che potrebbe presentarsi ai tavoli istituzionali è la costituzione materiale terremotata dalla crisi economica. La formula che usa - quella che sta imponendo Bruxelles è una dittatura della tecnostruttura comunitaria - deve essere quindi articolata in relazione al regime di accumulazione capitalistico. L'unico accenno che fa su questo tema è un rinvio alle tesi del geografo marxista David Harvey, quando afferma che la finanza è il mezzo che regola e garantisce l'accumulazione di capitale attraverso espropriazione della ricchezza sociale. 
«Recentemente, su "Le Figaro", giornale della borghesia francese, è stato pubblicato un interessante commento che fotografa con precisione ciò che sta accadendo in Europa. La decisione di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel di imporre alla Grecia e all'Italia politiche di austerità ha favorito l'emergere della soluzione del governo tecnico. Ad Atene e a Roma si sono così insediate due figure di economisti come Mario Monti e Lucas Demetrios Papademos, uomini da sempre inseriti nella rete di potere che ha come nodo Goldman Sachs. Da questo punto di vista, la situazione che si è venuta a creare è stata una vera e propria rivoluzione dall'alto. È, questa, un'espressione che ha un'antica storia. Per anni ho creduto che il primo ad usarla sia stato Friedrich Engels nella prefazione all'edizione del 1895 alla lotte di classe in Francia di Marx. Veniva usata per indicare processi di trasformazione sociale e politica imposti dalle élite. Poi ho scoperto Engels l'aveva «copiata» da Bismark. Tutto questo per dire che le rivoluzioni dall'alto ci sono sempre state e che sono servite per dare forma a modelli e dispositivi di governo che la consuetudine non prevedeva. Bismark aveva perseguitato le organizzazioni socialiste, ma aveva altresì imposto anche un prototipo del futuro stato sociale. In altri termini, e qui veniamo di nuovo all'Europa novecentesca, la rivoluzione dall'alto instaura sempre uno stato d'eccezione, necessario appunto a dare forma a un nuovo modello di governo dei rapporti sociali. Quello che sta accadendo in Europa, con la retorica dei governi tecnici, è proprio questo: una sospensione delle regole del gioco vigenti per imporre soluzioni alla crisi. Carl Schmitt ha parlato, in tempi passati, di dittatura commissaria, che non è però di stampo totalitario, semmai ricorda le forme di dominio esistenti nell'antica Roma. I governi tecnici sono la forma contemporanea di una dittatura commissaria necessaria per imporre una risposta neoliberale alla crisi del capitalismo».
La «rivoluzione dall'alto» è quindi associata all'instaurazione di stati d'eccezione a livello nazionale è una descrizione che coglie forti tendenze che hanno caratterizzato la crisi del neoliberalismo e del suo fratello gemello, il populismo cosiddetto postmoderno. In molti, tuttavia, hanno spesso indicato nella tecnostruttura uno dei poteri forti che agisce in Europa già da molti anni. Una tecnostruttura che fa parte, tuttavia, di una rete più ampia, dove agiscono imprese finanziarie, imprese transnazionali. Insomma è una forma di governance che gestisce il contemporaneo regime di accumulazione capitalista. Da questo punto di vista, la tecnostruttura garantisce, in Europa, sia il funzionamento politico che la ripresa del controllo su un ciclo economico «impazzito». In altri termini, il neoliberalismo impone lo stato d'eccezione per dare slancio al suo progetto politico continentale. Con alcune contraddizioni, ovviamente, come ad esempio la legittimazione dei governi tecnici da parte dei parlamenti eletti dal popolo. 
La catastrofe annunciata
L'Europa riesce sì a proporre una forma di governo del continente, ma corre il rischio di creare le condizioni del nuovo divorzio tra democrazia e capitalismo. Etienne Balibar indica il rischio, anche avverte che ogni stato d'eccezione ha sempre esiti incerti. «È un processo conflittuale quello in atto. Non è detto che la dittatura commissaria riesca a funzionare in questa situazione. I tecnocrati, le élite hanno un forte potere persuasivo dalla loro parte, perché partono da un ricatto: o si fa così o sarà il caos. La paura di una catastrofe riesce così a vincere resistenze e dubbi. Eppure da un po' di mesi a questa parte sui giornali della borghesia, ma anche di quelli progressisti, sono in molti a chiedere che la sovranità popolare si esprima proprio attorno alle forme politiche e ad una eventuale costituzione europea. Jürgen Habermas scrive da molto tempo sulla necessità di una legittimazione popolare su quanto sta accadendo in Europa. Il suo obiettivo è di democratizzare le istituzioni europee, chiudendo così la fase che ha visto i mercati esautorare di fatto il suffragio universale. Sono ovviamente d'accordo con Habermas, ma penso tuttavia che vadano creati dei veri e propri contropoteri insurrezionali che contrastino questa forma di governo che si sta affermando a livello europeo. Non penso a all'insurrezione popolare, ma alle creazioni di istituzioni da parte dei movimenti sociali per contrastare la tecnostruttura».
Per il momento, tuttavia, i movimenti sociali agiscono spesso in una prospettiva nazionale. Gli unici che si sono posti il problema di costituire uno spazio pubblico europeo di azione politica sono stati gli indignados spagnoli, che chiedono sia di porre fine alla «dittatura dei mercati» che una necessaria democratizzazione della vita pubblica. Per il resto, la scelta nazionale sembra più un ripiegamento, un segno di debolezza che non un punto di forza. «Mi sembra utile usare la distinzione fatta dal filosofo statunitense Richard Rortry tra campaign e mouvement. Gli indignados spagnoli sono certo un movimento sociale. Si sono radicati nel territorio, hanno sviluppato proprie istituzioni, hanno definito regole per prendere le decisioni, hanno infine posto con forza il nodo de i rapporti sociali di produzione. Possono averlo fatto con linguaggi che un marxista può trovare strani, ma il loro punto di forza è la critica al regime di accumulazione incentrato sulla espropriazione. Occupy Wall Street ha invece tutte le caratteristiche di una campagna di sensibilizzazione attorno ad alcuni temi - la povertà, la polarità tra il 99 per cento della popolazione e l'1 per cento dei ricchi - ma finora non hanno fatto il grande salto nell'azione politica. Quando penso ai contropoteri insurrezionali penso quindi ai movimenti sociali e alla loro capacità di sviluppare proprie istituzioni. Solo in presenza di questi contropoteri possiamo condizionare e mettere in crisi la dittatura commissaria, che è fragile visto che la crisi economica ha impoverito le società. La partita è quindi aperta. E il risultato finale non è stato ancora scritto».

15.11.11

12 risposte sul debito e come uscirne con equità

(a cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo)


1. Cos'è il debito pubblico?
2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
4. Chi detiene il debito pubblico italiano?
5. Che cos'è la speculazione sul debito pubblico e perché ci danneggia?
6. Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?
7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito pubblico?
8. Cosa significa “congelamento del debito?
9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del debito?
10. E' vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non avranno più indietro i loro depositi?
11. E' possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che hanno investito in Buoni del Tesoro?
12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico senza danno sociale?

1. Cos'è il debito pubblico?
R. Il debito pubblico si forma quando le strutture dello stato (governo, regioni, province, comuni)  pendono più di quanto incassano attraverso imposte, tributi, tariffe, oneri sociali. Lo scarto che si  area nel corso di un anno si definisce deficit. La somma di tutti i deficit accumulati ad una certa data forma il debito. In altre parole il deficit esprime la sfasatura relativa ai singoli anni; il debito la situazione debitoria complessiva accumulata negli anni.
Uno stato con potere di battere moneta, può finanziare il proprio debito con l'emissione di nuova moneta. Il che corrisponde ad una tassazione generalizzata di tutti i cittadini, perché l'emissione di nuova moneta, a parità di produzione, provoca inflazione, ossia aumento generale dei prezzi che decurta il potere d'acquisto di tutti. L'Italia ha  utilizzato questa via prevalentemente negli anni settanta, facendovi ricorso più limitato negli anni successivi. Ma da quando è entrata nell'euro, nel 2001, questa possibilità le è preclusa del tutto perché il potere di emissione è assegnato alla Banca Centrale Europea, espressione delle banche centrali della zona euro, a loro volta espressione delle banche private dei singoli stati.
La Banca Centrale Europea non ha fra i propri compiti quello di soccorrere i paesi debitori e gli unici modi che questi hanno per fare fronte alle proprie difficoltà finanziarie sono il dilazionamento mdei pagamenti nei confronti dei propri fornitori e l'accensione di prestiti presso banche e qualsiasi altro soggetto (assicurazioni, fondi, famiglie) disposto a fornire denaro in cambio di un tasso di interesse. Generalmente il prestito è ufficializzato da un certificato emesso dal Ministero del Tesoro, che certifica l'ammontare ricevuto, la data di restituzione e il tasso di interesse riconosciuto. Tali certificati sono genericamente definiti titoli di stato o titoli di debito pubblico, ulteriormente suddivisi in Bot (Buoni ordinari del tesoro), Cct (Certificati di credito del tesoro), o altro, in base alle condizioni specifiche del prestito.

2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
R. In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni preoccupanti negli anni settanta, allorché iniziò a formarsi un divario consistente fra entrate e spese pubbliche. Mentre in alcuni periodi le uscite crescevano più ampiamente delle entrate, in altri succedeva che le prime salivano mentre le seconde scendevano. Ad esempio, nel periodo 1971-1974 le entrate, in rapporto al prodotto interno lordo (Pil), si ridussero dello 0,5%  (dal 29 al 28,5%), mentre le uscite  crebberodal 36,9 al 43,4%.
Fra le ragioni per cui nel corso degli anni si sono avute entrate inferiori a quelle che il sistema avrebbe potuto garantire, va citata  la riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, la bassa tassazione dei redditi da capitale, la riduzione se non l'eliminazione delle imposte patrimoniali, l'elevato tasso di evasione fiscale, l'espandersi dell'economia in nero. Fra le ragioni per cui si è avuta un'accelerazione delle uscite, vanno citate le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento precoce nel settore pubblico, l'abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al tempo stesso clientelari ed elettorali, l'esplosione dei privilegi dalla politica, le ruberie a vantaggio di imprese appaltate dallo stato per spartire il bottino con i partiti al governo, la corruzione valutata 60 miliardi di euro l'anno.
Ma non va dimenticato il ruolo degli interessi che specie negli anni ottanta sono stati elevatissimi.
Nel 2010 la spesa per interessi è stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all'8,8% dell'intera spesa pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (Imposte dirette e indirette esclusi oneri sociali). In effetti gli interessi, oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza di tutti.
Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.

3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
R. Secondo i dati della Banca d'Italia, al giugno 2011  il debito pubblico totale ammontava a 1901 miliardi di euro pari al 122% del Pil realizzato nel 2010. Ma economisti come Loretta Napoleoni, affermano che è impossibile avere il dato preciso perché in ogni ambito delle amministrazioni pubbliche, dal Ministero del Tesoro, fino all'ultimo comune d'Italia, possono essere stati accesi prestiti presso banche private compiacenti che in cambio di laute commissioni hanno escogitato degli stratagemmi per farli passare come anticipi su operazioni future. Ma il problema è che si tratta di operazioni assimilabili a scommesse che possono  o non possono dar luogo ad incassi. In conclusione si fanno comparire fra le entrate somme che negli anni successivi possono trasformarsi in debiti, gravati di interessi,  perché l'evento auspicato non si è realizzato.
Benché si tratti di operazioni configurabili come veri e propri falsi in bilancio, purtroppo sono utilizzate anche dai governi. Il  caso più eclatante è stato scoperto a carico della Grecia che aveva agito con la complicità della banca d'affari Goldman Sachs. Per essere ammessa nell'euro, nell'anno 2001 e seguenti, la Grecia aveva bisogno di dimostrare che il suo deficit annuale era inferiore a quello reale e non potendo agire sul piano delle uscite, aveva deciso di falsificare i dati sul piano delle entrate. In altre parole si era fatto anticipare da Goldman Sachs dei soldi su polizze assicurative relative ad eventi finanziari futuri (l'innalzamento dei tassi di interesse piuttosto che la privalutazione di certe valute) di cui nessuno poteva prevedere l'andamento.  Ma ciò non interessava a nessuno: il problema era ingannare, poi si sarebbe visto. E infatti nel 2010 il bubbone è scoppiato perché non poteva essere più tenuto nascosto. Ed oggi la Grecia non sa di che morte morirà.
Gustavo Piga, professore dell'università di Tor Vergata, ha spiegato che tutti i grandi paesi industrializzati del mondo, Italia compresa, ricorrono all'uso di queste polizze assicurative, meglio conosciute come derivati, che però sono costosissime e tal volta articolate in una maniera tale che se l'evento assicurato non si realizza, può essere il cliente a dover pagare l'assicuratore. Ne sanno qualcosa i 519 comuni d'Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche del calibro di Deutschebank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi un miliardo di euro. Così l'utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta, sono le banche e le assicurazioni.
Fonti: Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Gustavo Piga, Derivativea and
public debt management, Isma 2001; Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli 2011.

4. Chi detiene il debito pubblico italiano?
R. Una prima classificazione può essere fatta in base alla nazionalità dei detentori. Da questo punto di vista, al giugno 2011, il debito pubblico era detenuto per il 56,4% da soggetti italiani e il 43,4% da soggetti stranieri.Una seconda classificazione può essere fatta in base alla tipologia giuridica dei detentori. Da questo punto di vista, la quota detenuta dalle famiglie, al giugno 2011, corrispondeva al 12,7%. Tutto il resto era detenuto da investitori istituzionali: banche, assicurazioni e fondi. Più precisamente: 3,6% Banca d'Italia; 26,2%  banche commerciali italiane, 13,8% assicurazioni e fondi italiani, 10,6% banche estere, 32,8% fondi esteri.
In conclusione, limitatamente alla parte di debito  detenuto dagli investitori istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è rispettivamente del  46,8 e 53,2%.
Fonti:Elaborazione dati Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Morgan Stanley,
Who owns Italy's government debt?, luglio 2011.

5.Che cos'è la speculazione sul debito pubblico e perché ci danneggia?
La speculazione  è una strategia attuata da parte di fondi, assicurazioni e banche per guadagnare sul debito a più riprese.
Le tecniche finanziarie sono molte, ma una delle più ricorrenti è la speculazione al ribasso che consiste nel vendere, al prezzo di oggi, titoli che saranno consegnati fra una settimana o fra un mese. Il tempo è un elemento determinante, ma non è la semplice separazione fra data di vendita e data di consegna che consente agli speculatori di guadagnare. Il vero segreto è che non possiedono i titoli che offrono, in fondo il trucco sta tutto qui. La loro speranza è che nel frattempo il prezzo scenda e quando arriverà il tempo di consegnare i titoli, li compreranno sul momento a prezzi ribassati. Nella differenza fra l'alto prezzo di vendita di oggi e il basso prezzo di acquisto di domani, sta il loro guadagno. Sempre che tutto vada bene. Ma banche e fondi non si affidano al caso. Quando prendono una decisione sanno come fare per creare le condizioni favorevoli al loro obiettivo perché hanno abbastanza denaro per indirizzare la storia. Se puntano su un'operazione al ribasso, in un primo momento si muovono con circospezione, cercano di piazzare le loro vendite senza dare nell'occhio. Poi quando stabiliscono che il prezzo deve crollare danno un'accelerazione all'offerta e il gioco è fatto. La massa di offerta insospettisce chi frequenta le borse: se tutti vendono una certa roba vuol dire che non vale niente, meglio starne alla larga. Ma proprio perché nessuno compra, il prezzo scende davvero e il timore si trasforma in realtà esattamente come volevano i burattinai.
Ovviamente questa è solo una semplificazione delle mille diavolerie che la finanza moderna si è inventata per guadagnare sulla dabbenaggine della moltitudine di piccoli risparmiatori che si aggirano per le piazze finanziarie. Ma quasi sempre la loro strategia si basa sulla psicologia di massa. Ottimismo e pessimismo, fiducia e paura sono i grandi alleati dei burattinai della finanza e quando stabiliscono che a loro serve un sentimento o l'altro si attivano con i loro potenti mezzi per provocarlo. La speculazione al ribasso si nutre della paura, e immediatamente l'intero sistema informativo cerca di amplificarla con titoli tipo: “I mercati non credono nel sistema Italia, prezzi in picchiata”.
Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c'è una massa manovrata e una minoranza che manovra e né l'una  né l'altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa niente di cosa succederà alla Grecia o all'Italia. Non si preoccupano neanche di cosa succederà all'economia mondo di cui fanno parte anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è affarloro.
Va comunque sottolineato che nella prima fase, il guadagno degli speculatori non si realizza alle spalle dello stato, ma degli altri soggetti privati che svendono i loro titoli per effetto della paura. Il danno per lo stato arriva in un secondo momento, allorché si ripresenta sul mercato finanziario per ottenere nuovi prestiti. A questo punto scatta la seconda strategia di arricchimento degli speculatori, che invocano la sfiducia nei confronti dello stato per pretendere interessi più alti sui nuovi prestiti richiesti. Considerato che per l'Italia ogni punto di aumento percentuale degli interessi corrisponde ad un maggiore esborso di 35 miliardi di euro, si capisce la preoccupazione per gli attacchi speculativi.
Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il potere finanziario che però i politici non hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico. Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e amministratore delegato del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL, presidente del Consiglio e principale azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell'intero arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè, disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi ai creditori.
La disponibilità dei nostri politici a calare le braghe è senza limiti e non protestano neanche quando gli interessi si fanno così esosi da correre il  rischio che lo stato soccomba. Del resto alle banche questa prospettiva non sembra interessare, anzi forse è proprio ciò che vogliono, come è nella politica di molti strozzini a cui non interessa tanto cosa possono guadagnare dagli interessi, ma cosa possono ricavare dalle spoglie del debitore. Questa è la terza strategia di arricchimento degli speculatori.
In molti paesi del Sud del mondo è abituale che gli strozzini cedano prestiti ai piccoli contadini ad interessi  da capogiro in modo da dissanguarli e fare scattare la trappola alla prima rata non pagata.
A quel punto inviano avvocati, notai e sicari, ciascuno con la propria arma di ricatto, per costringere i contadini a chiudere la partita cedendo  i propri averi. E se il debitore  non ha niente da dare possono prendersi lui stesso in ostaggio riducendolo in schiavitù. Nei confronti degli stati indebitati si assiste alla stessa scena. Nelle loro capitali arrivano emissari di ogni genere, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, delle società di rating, tutti con la stessa missiva: “pagate ciò che il mercato vi impone e se non potete pagare, svendete”.
Soprattutto “svendete” perché il vero disegno di mercanti, banche, assicurazioni,  imprese di servizi, tutti intrecciati fra loro come serpenti in amore, è di mettere le mani sulle proprietà degli stati. Vedere tanta ricchezza e non poterla toccare, alla stregua di un frutto proibito, è una sofferenza indicibile, da sempre si scervellano per impossessarsene. Così si scopre che si scrive debito, ma si pronuncia privatizzazione, il sogno eterno dei mercanti di accaparrare palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche acqua, scuola, sanità, elettricità, gas, strade e tutto il resto che gli stati possiedono e gestiscono. Beni comuni che la struttura pubblica mette gratuitamente a disposizione di tutti per il bene di tutti, ma che i mercanti vogliono per sé per ricavarci profitto.

6. Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?
R. Dobbiamo prendere coscienza che il debito pubblico è un nodo che rischia di compromettere lo stato sociale dei prossimi trecento anni. E sicuramente lo è se la parola d'ordine di destra e sinistra continua ad essere “restituire il debito senza colpire i ricchi”. Tant'è si perseguono due sole strade, entrambe esplosive: la riduzione delle spese sociali e la svendita del patrimonio pubblico.Si giustifica il taglio alle spese sociali con l'argomentazione che il primo obiettivo di risanamento della finanza è evitare di accumulare altro debito. Il che si ottiene col pareggio di bilancio, ossia con una riduzione delle spese sufficiente ad avere di che pagare gli interessi. Se fossimo governati da partiti che hanno a cuore l'equità e il benessere dei cittadini, le manovre correttive sarebbero realizzate  aumentando le tasse sui ricchi e tagliando le spese inutili e dannose come quelle militari e i privilegi della politica. Ma oggi né destra, né sinistra hanno a cuore il bene comune e sia l'una che l'altra cercano di raddrizzare i conti pubblici accanendosi verso i redditi medio-bassi  e tagliando le spese  per  il personale, per l'istruzione, per l'assistenza, per i comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale. Ed ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio 2009-2011; di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15 miliardi di euro a regioni e comuni nello stesso periodo. Ma la preda che governo, confindustria e Unione Europea sono assolutamente intenzionati a spolpare è la previdenza sociale. Eppure tutti sanno che il nostro sistema previdenziale è fondamentalmente in equilibrio. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2009, dimostrano che il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è in attivo per 27,6 miliardi di euro, pari all'1,8% del Pil. Solo un artificio contabile consente alla Corte dei Conti di affermare che il sistema previdenziale è in deficit, addirittura di 77 miliardi nel 2010. Ma ciò dipende dal fatto che il fondo previdenziale è usato anche per il pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In realtà l'accanimento verso il sistema previdenziale non è dovuto alla sua debolezza, ma alla sua solidità. Nel 2010 i versamenti per contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi di euro, quasi un terzo delle entrate totali dello stato. Se solo una parte potesse essere sottratta al pagamento delle pensioni, si potrebbero risolvere molti problemi senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi.
In ogni caso va tenuto presente che il pareggio di  bilancio è solo uno degli obiettivi. L'altro è l'abbattimento del debito accumulato, la famosa restituzione del capitale in nome della quale si impongono ulteriori sacrifici. Ma tutto ha un limite e anche i politici sanno di non poter restituire 1900 miliardi di euro solo con i tagli alle spese,  perciò ricorrono alla vendita del patrimonio pubblico esattamente come si fa in famiglia che dopo aver tagliato sul riscaldamento, sul cinema, sul telefono, si vendono le proprietà di famiglia. Tant'è la parola d'ordine è privatizzare e solo per miracolo, grazie al referendum di maggio, abbiamo salvato l'acqua. Ma il decreto di agosto 2011 prevede misure per la privatizzazione di tutte le municipalizzate, mentre il  provvedimento per l'introduzione del federalismo, varato nel 2010, trasferisce i beni demaniali ai comuni con licenza di venderli per il risanamento delle casse locali. Di questo passo ci troveremo una comunità nazionale senza più un edificio, un parco, una strada, un'azienda pubblica che garantisca qualsivoglia servizio gratuito a favore di tutti. Così stiamo recitando il requiem dell'economia del bene comune, ricordandoci che una volta dilapidata ci vorranno secoli per ricostruirla.
Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto
Pizzuti, Pensioni, perchè è giusto indignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul
coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.

7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito pubblico?
R. Il debito è come una tavola  a cui si presentano degli ospiti inattesi. Si può decidere di respingerli e il problema è risolto, ma se si accolgono ci sono due soli modi per servire anche loro: ridurre le razioni di tutti o aumentare le portate. Ed ecco la crescita come soluzione del debito in alternativa ai tagli e agli aumenti di tasse. L'argomentazione è che se aumenta la ricchezza prodotta, automaticamente dovrebbe aumentare anche il gettito fiscale e quindi le risorse per il pagamento di interessi e capitale. Ma la crescita pone tre ordini di problemi: una questione di soldi, una questione di diritti, una questione di compatibilità ambientale.
La questione dei soldi si pone perché per investire le imprese hanno bisogno di stimoli. Se si tratta di imprese orientate al mercato interno, come quelle delle costruzioni e delle infrastrutture, richiedono ordini. Si aspettano che lo stato le ingaggi per la costruzione di strade, ponti, ferrovie, acquedotti. Se si tratta di imprese orientate al mercato globale richiedono sovvenzioni. Si aspettano che lo stato le aiuti con finanziamenti alla ricerca, con facilitazioni fiscali e riduzione degli oneri sociali, in modo da avere meno costi e quindi essere più competitive. Ma dove trovare i soldi se il fondo del barile è già stato raschiato? L'indicazione delle imprese è tagliare ulteriormente le spese correnti per recuperare risorse per loro. Così la crescita si trasforma in antagonista delle spese sociali.
Sapendo di non avere soldi da spendere, il governo Berlusconi ha cercato disperatamente delle scorciatoie per favorire le imprese a costo zero. Ma l'unica via che ha trovato è la riduzione del costo del lavoro tramite la riduzione delle garanzie contrattuali: preminenza dei contratti aziendali sui quelli nazionali, maggiore libertà di licenziamento, minori tutele nelle assunzioni. Così  la crescita si trasforma in antagonista dei diritti dei lavoratori. Ma il problema principale è che oggi non ci sono più margini per la crescita. E non tanto per ragioni economiche, quanto ambientali. Le nostre economie sono già cresciute fin troppo, se tutti i paesi del mondo pretendessero di raggiungere i nostri livelli di ricchezza, il pianeta collasserebbe. L'assottigliarsi delle risorse e la necessità di ridurre l'inquinamento ci impongono sobrietà nei consumi e prudenza nella produzione. La nostra sfida non è accrescere la produzione, ma ristrutturarla in modo da garantire a tutti di vivere bene nel rispetto dei limiti del pianeta. Per riuscirci dobbiamo aver chiaro che il benessere non si misura con la quantità di lattine di coca-cola che buttiamo nel carrello della spesa o col numero di apparecchi televisivi che abbiamo per casa.
Prima che dalle cianfrusaglie di mercato, la dignità personale dipende dalla qualità dell'abitare, dalla possibilità di curarsi e vivere in buona salute, dalla capacità di esercitare pienamente le funzioni di cittadino sovrano, dalla possibilità di fare comunità, dalla possibilità di potersi nutrire, vestire, muoversi, scaldare a buon mercato. Per questo il vero sviluppo, quello umano e sociale, non dipende dalla crescita del prodotto interno lordo, ma dal grado di equità, di inclusione lavorativa, di solidarietà collettiva che siamo capaci di mettere in atto. Dipende dal livello di diritti che sappiamo garantire, dalla quantità e qualità dei servizi collettivi che sappiamo fornire, dal tipo di città che sappiamo strutturare, dalle forme e dai tempi di lavoro che sappiamo organizzare, dalle forme di partecipazione che sappiamo promuovere.
Non di più, ma meglio e diverso devono essere le nuove parole d'ordine. Non si tratta di creare nuove fabbriche, ma di trasformare quelle esistenti per renderle più eco-compatibili e metterle in condizione di produrre ciò che serve secondo nuovi  schemi di consumo orientati ai bisogni fondamentali per tutti. Trasformarle non solo da un punto di vista tecnico, energetico e produttivo, ma anche dell'assetto proprietario, delle forme di  assunzione, dei tempi di lavoro, dei  livelli salariali, dei diritti sindacali, tenendo a mente che il lavoro non è un costo da comprimere, ma una ricchezza da valorizzare. Una funzione che tutti abbiamo il diritto-dovere di svolgere  in forma dignitosa e sicura per poter prendere parte alla ricchezza prodotta. E non solo in ambito  mercantile, ma sempre di più in ambito collettivo perché quando le risorse si fanno scarse non è espandendo il mercato, ma l'economia della solidarietà collettiva, che si può permettere a tutti di vivere con dignità. Dunque non è alla crescita che dobbiamo puntare, ma a un altro modello organizzativo che  pur mantenendo consumi e produzione al minimo, consente a tutti la piena inclusione lavorativa, il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la piena realizzazione umana, sociale e politica. Ma per riuscirci è quanto mai necessario trovare un via di uscita dal debito alternativa a quella presente, per non trovarci del tutto spogliati.

8. Cosa significa “congelamento del debito?”
R. Congelare il debito non significa dichiarare fallimento, o default, come dicono gli inglesi. Il fallimento è una dichiarazione di resa assunta per impotenza economica. Il congelamento è unadichiarazione di volontà assunta per decisione politica. E' il sussulto di un popolo che si riappropria della propria sovranità.
Congelare il debito significa sospendere il pagamento di capitale e interessi, a banche, fondi e assicurazioni, per un periodo di tempo di uno o due anni, in modo da recuperare quella libertà e quella cognizione di causa necessarie a poter definire, in piena autonomia, criteri e tempi di uscita dal debito. Il primo obiettivo del congelamento è mettere fuori gioco la speculazione in modo da non avere più la pistola dei mercati puntata alla tempia. Se gli speculatori sapessero che non si può ottenere più niente, perché i rubinetti dello stato sono chiusi, la smetterebbero con i loro giochetti per fare aumentare i tassi di interesse.
Portarsi fuori ricatto è già un passo importante per recuperare libertà decisionale, ma nel contempo bisogna fare luce sui fatti perché indagando possono emergere elementi che ribaltano la situazione.  Oggi che conta solo l'interesse dei creditori, ci si focalizza solo sui numeri che misurano la capacità di pagamento dello stato. Ma se cambiamo prospettiva e mettiamo al centro della nostra attenzione la tutela della collettività, capiamo che prima di tutto dobbiamo studiare la formazione del debito per stabilire se persiste o meno l'obbligo del pagamento. Quando i popoli del Sud del mondo hanno analizzato come si era formato il debito dei loro paesi, hanno scoperto che gran parte era stato accumulato per arricchire indebitamente politici e centri di potere economico. Pertanto lo hanno ripudiato perché non si può chiedere ai popoli di impiccarsi per ripagare le malefatte dei governanti con la complicità delle banche.Dunque il secondo obiettivo del congelamento del debito è prendersi il tempo per condurre una seria indagine sulla formazione del debito in modo da definire quale parte è doveroso pagare perché utilizzato per il bene comune e quale parte, invece, è legittimo ripudiare perché dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.
Un'indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini la lista dei creditori per capire se ce ne sono che da decenni si arricchiscono alle spalle del debito pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto di quanto hanno incassato per stabilire se non sia arrivato il momento di dire basta. A meno che non si voglia affermare che la rendita è un diritto perpetuo, bisognerà pur stabilire quando cessa il diritto del creditore a pretendere un compenso dal debitore. Ad esempio, quando l'esborso per interessi è pari al doppio del capitale non potrebbe aver senso annullare ogni rapporto di dare e di avere?
E ancora non basta. Una seria indagine deve occuparsi anche delle entrate perché se è vero che il deficit è una sfasatura fra entrate e uscite non è detto che la responsabilità sia solo dell'eccesso di spesa. Può essere dovuto anche a una carenza di entrate. In Italia, ad esempio, abbiamo un tasso di evasione altissimo e sappiamo che dal 1982 ad oggi si sono abbassate le aliquote oltre i 75000 euro dal 72 al 45%. Per lo stato ha significato senz'altro un mancato incasso che gli ha procurato un doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio guadagno: mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la beffa è che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma sotto forma di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo depredato dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?

9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del debito?
R. Ogni volta che uno stato osa sfidare le regole imposte dai creditori, si paventano scenari tenebrosi per il loro futuro. In realtà i paesi che in passato hanno avuto il coraggio di dichiarare una moratoria sul pagamento del debito, non sono naufragati, ma sono rinati. Lo mostra l'esperienza della Russia nel 1998, dell'Argentina nel 2001, dell'Ecuador nel 2007. L'Ecuador, tra l'altro, è un esempio concreto di inchiesta sul debito. Sette mesi dopo la propria elezione, il neo presidente Rafael Correa ha istituito una commissione d'inchiesta formata da 18 esperti che hanno cominciato a lavorare nel luglio 2007. Dopo 14 mesi di lavoro hanno consegnato un rapporto che mostrava chiaramente l'esistenza di numerosi prestiti accesi in violazione delle piùelementari norme di legalità. Sulla base di tali risultanze, nel novembre 2008 il governo ha dichiarato la sospensione del pagamento di titoli in scadenza nel 2012  e nel 2030. Finalmente il governo di questo piccolo paese è uscito vittorioso da una prova di forza con le banche nordamericane e per 900 milioni di dollari  ha ricomprato titoli del valore nominale complessivo di oltre 3 miliardi. Se si considerano anche gli interessi annullati, il risparmio totale per l'Ecuador è stato di 7 miliardi di dollari che il governo può spendere per spese sociali, sanità, istruzione, trasporti. Certo si dirà che la posizione dell'Italia non è quella dell'Ecuador, e uno sgarbo ai creditori potrebbe costarle la fuga massiccia di capitali,  l'espulsione dall'euro, una catastrofe economica a causa del fallimento delle banche. Tutte ipotesi che andrebbero verificate non solo per capire quante probabilità hanno di avverarsi, ma anche per stabilire se siano realmente minacce o se invece non potrebbero rivelarsi delle opportunità.
Premesso che nessuna forza economica, sia essa bancaria, finanziaria, o commerciale, ha interesse a mandare a fondo un paese come l'Italia, perché loro sarebbero i primi a rimetterci, va precisato che se anche perdessimo capitali forse non sarebbe un gran danno dal momento che non sono impiegati per attività produttive, ma per iniziative speculative. Quanto alla nostra presenza nell'euro, si impone una valutazione fra costi e benefici. Sicuramente ci hanno guadagnato le imprese fortemente inserite nel mercato europeo, ma ci hanno perso, fino a morire, molte piccole a vocazione locale, che sono state sgominate dalle potenti imprese tedesche o francesi. Da più parti si richiede, se non di uscire dall'euro, di consentire la contemporanea circolazione di monete regionali, per favorire le imprese locali. E se proprio dovessimo tornare alla lira, forse non sarebbe del tutto negativo. Quanto meno restituiremmo al nostro stato il potere di controllo sulla moneta, sui tassi di interesse e sui tassi di cambio, tutti strumenti di governo dell'economia oggi perduti a favore di Bruxelles  che li gestisce unicamente nell'interesse delle banche e dei grandi gruppi speculativi.
Infine l'ultima minaccia: il fallimento delle banche.  A questo mondo tutto è possibile, ma stando ai fatti, i titoli pubblici che le banche detengono solo raramente e in piccola parte si trasformano in denaro sonante. Solitamente se ne stanno chiusi nelle casseforti e quando arrivano a scadenza non provocano un incasso di denaro, ma una partita di giro perché la somma disponibile è subito riutilizzata per l'acquisto di titoli di nuova emissione. Tutto questo per dire che stiamo parlando di ricchezza virtuale scritta nei libri contabili, che i detentori  usano più come strumento giuridico per avere diritto a una rendita, che come ricchezza da spendere. Se i titoli pubblici si deprezzassero o venissero cancellati, la banca risentirebbe un danno più  per i mancati interessi che  per la perdita patrimoniale. Perciò un danno contenuto che certo può ripercuotersi negativamente sugli azionisti  e sui dipendenti, ma che difficilmente porta al fallimento bancario. Evento che può comunque essere prevenuto con opportuni interventi legislativi. Fonte: Eric Toussaint, La dette ou la vie, CADTM 2011.

10. E' vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non avranno più indietro i
loro depositi?
R. Da un punto di vista strettamente finanziario la risposta è no. Ma la capacità delle banche di rifondere i propri clienti è fortemente influenzata dalla fiducia di cui godono. In condizioni di normalità le banche soddisfano tranquillamente le richieste di rimborso, non perché abbiano in cassa l'equivalente di tutti i depositi, ma perché i clienti che chiedono di avere indietro i loro soldi sono relativamente pochi.
Detta molto schematicamente, il mestiere delle banche è guadagnare sull'impiego di soldi ottenuti da terzi, creando una differenza fra i tassi di interessi pagati e quelli incassati. Pertanto hanno la convenienza a impiegare tutto ciò raccolgono, lasciando nel cassetto il meno possibile. In condizioni normali questa situazione non preoccupa perché è dimostrato che il numero di persone che si presentano per ritirare i propri risparmi sono pochi e in ogni caso lo fanno solo per ragioni economiche. Tutti gli altri, che non si trovano in stato di bisogno, dormono sonni tranquilli perché sentono i propri soldi al sicuro. Ma questo equilibrio può rompersi se per una ragione qualsiasi la gente perde fiducia sull'affidabilità delle banche. In quel caso tutti si precipitano a ritirare i propri depositi ed è la volta buona che non li ottengono perché di soldi in cassa non ce ne sono.
In caso di congelamento del debito, può scatenarsi una sfiducia collettiva che spinge a dare l'assalto alle banche, ma molto dipende da come lo stato gestisce la situazione.
Va comunque tenuto presente che il rischio fallimento delle banche è reale e non tanto per le quote di debito pubblico che detengono, ma per il rischio di perdere somme colossali che hanno investito in spregiudicate operazioni di speculazione finanziaria.  Non a caso i governi occidentali hanno già sborsato 13000 miliardi di dollari per salvare le banche e altri ne stanno cercando. Tutto questo per dire che oggi non c'è più nessuna certezza e che i primi ad avere l'interesse a rimettere le cose a pulito sono proprio i piccoli risparmiatori. Una proposta in tal senso è quella di nazionalizzare le banche per la parte che coinvolge i risparmiatori e le imprese, lasciando che tutto il resto sia abbandonato al proprio destino, esattamente come hanno fatto in Islanda.

11.E' possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che hanno investito in
Buoni del Tesoro?
R. Poichè i Buoni del Tesoro sono nominativi, il congelamento del debito può essere gestito in maniera altamente selettiva, in base ai detentori e all'ammontare posseduto. Quindi può essere stabilito che vengano esclusi dal congelamento i titoli intestati a persone fisiche al di sotto di un certo valore per non compromettere la loro sicurezza di vita.

12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico senza danno sociale?
R. Prima di tutto bisogna abbatterne la dimensione, individuando, tramite apposita Commissione d'inchiesta, la parte da ripudiare perché illegale, illegittima e odiosa. Ma se l'ammontare da ripagare persiste eccessivo, si impone la necessità di ristrutturarlo tramite un ridimensionamento d'imperio o negoziazioni con i creditori in modo da ridurre il peso degli interessi e del capitale da restituire.  In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca tempi e modalità di finanziamento. Il che significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite. Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura che l'eccesso di  disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito: Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha calcolato che un'imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare il debito pubblico.
Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l'evasione fiscale e l'economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120 miliardi di euro l'anno. Nel contempo si dovrebbe  lavorare anche sul piano delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d'arma a scopo offensivo. Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, la riconversione della produzione in un'ottica di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.

Un grazie al compagno Antonio Moscato per il materiale, http://antoniomoscato.altervista.org/

12.11.11

Rubata una fabbrica, di notte. I padroni se la portano via

Riportiamo di seguito l'articolo pubblicato sul Manifesto da Sergio Sinigaglia sulla situazione della Best di Montefano, azienda svuotata e trasferita nella notte all'insaputa dei lavoratori. Siamo con i lavoratori e le lavoratrici della Best.

di Sergio Sinigaglia    
“il Manifesto”, 08.11.2011

La multinazionale Usa Nortek fa svuotare l'azienda di Macerata dagli operai polacchi. 126 dipendenti licenziati, i macchinari trasferiti in Polonia dopo il furto. Ora i lavoratori presidiano l'edificio vuoto

Prendi la fabbrica e scappa. Non è il titolo di un film, ma l'incredibile vicenda che si è consumata nella notte di Halloween nelle Marche. Una storia emblematica dei tempi in cui viviamo, dove elite finanziarie e multinazionali decidono le sorti delle persone con scelte spietate. Agiscono di notte come i ladri e si portano via i macchinari.
Siamo a Montefano, piccolo comune del Maceratese. 3600 abitanti, poche piccole imprese artigiane e un unico insediamento industriale, la Best che occupa 126 persone. L'azienda fa parte del gruppo omonimo che, dal 1995, a sua volta è proprietà della Nortek, una multinazionale americana di Providence. È leader nel nord del paese nel settore dei sistemi di ventilazione domestica e industriale. In Europa ha tre stabilimenti di produzione delle cappe, due in Italia, nelle Marche. Il primo è a Montefano, l'altro a Cerreto d'Esi e occupa 230 addetti. Il terzo è stato aperto qualche anno fa in Polonia a Zabrze e vi lavorano 250 operai. Lo stabilimento di Montefano produce motorini e convogliatori, a Cerreto si fanno solo cappe, in Polonia il ciclo produttivo è completo, con una flessibilità selvaggia, tanto che gli occupati variano secondo il periodo e il numero di 250 è assai elastico.
L'impianto di Montefano come ci racconta Rossella Marinucci della Fiom di Macerata, recentemente ha visto cambiare per ben tre volte il gruppo dirigente. L'ultimo si è insediato nel 2010. «Il gruppo - racconta Rossella - negli ultimi tempi ha iniziato ad avere un calo di fatturato, ma qui a Montefano si è sempre continuato a lavorare in equilibrio economico, con un bilancio in attivo, seppur di poco, anche nei periodi peggiori. Anche la produttività, al 92%, è stata buona con un'alta professionalità dei lavoratori». I quali sono in prevalenza donne, molto giovani e spesso componenti di uno stesso nucleo famigliare. «Abbiamo avuto periodi - prosegue la Marinucci - in cui abbiamo utilizzato gli ammortizzatori sociali. A Montefano per un paio di anni il contratto di solidarietà, a Cerreto la cassa integrazione straordinaria, però tutto si manteneva all'interno del contesto generale di crisi». Ma con l'arrivo dell'ultimo management le cose sono cambiate. «Sin dall'inizio abbiamo avuto l'impressione che volessero ridimensionare. Prima di questa estate hanno manifestato la preoccupazione che gli americani non volessero pareggiare i conti in rosso. Ad agosto ci è stato detto che avrebbero presentato un piano industriale per riorganizzare il gruppo». Il campanello d'allarme arriva quando il cliente principale fa improvvisamente un ordinativo assurdo, praticamente quello che normalmente chiedeva in un anno. Dunque un ordine di scorta. Ma la proprietà, dall'America, continua ad assicurare sulle sue buone intenzioni. Fino al truffaldino epilogo.
L'ultimo incontro con i sindacati si svolge il 19 ottobre. Viene aggiornato al 31 con l'intenzione, finalmente, di entrare in merito al piano industriale. Ma lunedì la direzione comunica che in settimana, visto il ponte del primo novembre e il «possibile calo di produzione», lo stabilimento di Montefano rimarrà chiuso. Sconcerto tra gli operai che non avendo ammortizzatori sociali attivi devono prendere le ferie. Nessuno può prevedere quello che accade nella notte delle streghe e quella successiva. Una squadra di operai fatta venire apposta dalla Polonia smantella completamente tutte le linee produttive e svuota la fabbrica. Una cosa che crediamo non abbia precedenti in Italia. «Ce ne siamo accorti perché il responsabile della produzione ha telefonato mercoledì mattina informandoci che il gruppo ha deciso di chiudere lo stabilimento di Montefano. Nel giro di quindici minuti ha poi telefonato ai fornitori per avvisarli che lì non ci sarà più alcuna produzione e tutto verrà trasferito in Polonia. Ripensandoci, venerdì 28, all'ultimo turno, degli incaricati della proprietà si sono messi a cambiare le serrature con la scusa che c'erano stati dei furti. Ma chi si poteva immaginare una cosa del genere?». Da ieri i lavoratori sono tutti in presidio permanente fuori dai cancelli della fabbrica. Completamente vuota.