Convinti che il 15 ottobre sia stata una grande data di ricomposizione mondiale delle vittime del capitalismo e della crisi, riportiamo di seguito un intervento di Toni Negri in merito alla manifestazione degli indignati del 15 ottobre. Un ulteriore spunto, accanto a quelli già proposti.
18 ottobre 2011 - tratto da uninomade.org
Ero e sono fuori, in queste settimane, in Spagna ed in Portogallo. Non ho seguito direttamente quello che è avvenuto a Roma. Ma sono stato sorpreso, direi sbalordito, nel leggerne cronache e commenti.
1) La divisione tra gli “indignati” e gli altri, i “cattivi”, è stata fatta prima di tutto da La Repubblica, l’organo di quel partito dell’ordine e dell’armonia che ben conosciamo (per non dire degli altri media). Non sembra che il comitato organizzatore della manifestazione si sia indignato molto per ciò. C’era forse un peccato originale alla base di questo oltraggio: chi aveva organizzato la “manifestazione degli indignati” non aveva molto a che fare con le pratiche teoriche e politiche che dalla Spagna si sono estese globalmente, talora in maniera massiccia, altre volte minoritaria: il rifiuto della rappresentanza politica e sindacale, il rigetto delle costituzioni liberali e socialdemocratiche, l’appello al potere costituente. In Italia, invece, un gruppo politico al limite della rappresentanza parlamentare si è appropriato il nome degli Indignados … E ora reclamano: “Lasciateci fare politica”.
2) Ma allora, si dirà, gli indignati “veri” sono i ragazzi che incendiano le macchine e fanno quel gran casino contro la polizia a San Giovanni? Certo che no. Qui nasce tuttavia il grande, se non l’unico problema. Chi possono essere gli unificatori del movimento? Chi costruisce oggi, in Italia, l’unità degli sfruttati, degli indebitati, dei non-rappresentati?
Le risposte a questi interrogativi sono molteplici. Tanti anni fa, Asor Rosa avrebbe detto: quei ragazzi pieni di rabbia appartengono alla “seconda società”, essa è inorganizzabile, essa è la non-politica. Oggi, alcuni rappresentanti del “movimento” diranno: sono estremisti, anarchici e insurrezionalisti, quindi pericolosi, quindi inorganizzabili. È forse vero. La conseguenza sarà allora la medesima che ne trasse Asor trent’anni fa: sono irrappresentabili? Anche qui: forse sì. Ma per questo li escludiamo per principio, prima ancora di aver capito perché erano tanti e di cosa erano l’espressione? Noi non crediamo che il ritornello di Asor Rosa possa valere come pregiudizio. A chi ce lo presentasse come tale, ci rivolgeremmo allora agli Indignados spagnoli ed universali per avere un’altra risposta. Gli Indignados sono un movimento dei poveri – sono anni che andiamo indagando e parlando di precarizzazione lavorativa e esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che queste lotte debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale.
Dobbiamo ricordarci che laddove, in altri paesi d’Europa che pur conoscono grandi tradizioni di lotta, si è data l’incapacità a mettere insieme tutte le facce della nuova povertà, la sconfitta è stata generale, anche quando i movimenti erano duraturi e forti. La Francia, per esempio, non produce più lotte vincenti da quando il movimento studentesco ha smesso di congiungersi con quello delle banlieues. In Germania, non c’è più lotta da quando i Grünen Realos-pragmatici hanno isolato e liquidato i Fundis – gli occupanti delle case, quelli che lottavano assieme ai migranti, e avevano assunto la dimensione dei quartieri per tentare la costruzione di istituzioni del comune. Dobbiamo tornare a costruire un fronte dei poveri – tutti i poveri, dalla classe media immiserita in giù.
C’è dunque una bella differenza fra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerarli intoccabili, lebbrosi. Loro – quelli che spaccano – hanno diritto a dirci di no, a rifiutarci, a preferire l’isolamento. Ma noi, non per questo li consideriamo estranei alla povertà. Il 14 dicembre, il 15 ottobre, e tante altre volte, li abbiamo visti in azione: alcune periferie della povertà sono scese in piazza. La polizia e i media le hanno immediatamente riconosciute: il potere è spesso bieco ma non è stupido. Perché i movimenti non potrebbero anche loro chiedersi chi sono, e provare a capire prima di giudicare? Forse perché dietro alla puzza al naso degli organizzatori, senti un rigetto di pelle?
3) Il colmo della cecità e della provocazione dei media (e, subito dopo, del Ministero degli Interni) è stato toccato quando hanno scelto di attaccare i movimenti NoTAV e San Precario – vale a dire le due realtà di movimento attualmente più forti. Forse le uniche che non abbiano aperture politiciste e che non siano interessate alla rappresentanza parlamentare, ma che piuttosto sono democraticamente piantate nel reale, nella società civile, e che producono effetti concreti immediati.
Dobbiamo stringerci attorno ai compagni che subiscono queste provocazioni – cosi come attorno agli incarcerati, di cui chiediamo la liberazione senza se e senza ma. Cos’altro fanno gli Indignados di Barcellona per gli arrestati dopo la tentata occupazione della Camera regionale catalana? Hanno riconosciuto che si trattava di un errore politico evidente, ma li difendono comunque in nome dell’unità del movimento. Vogliamo continuare a caricaturare i comportamenti pacifici degli Indignados spagnoli alla maniera di pecore gentili?
4) Oggi solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. Non un “programma minimo” – un programma che non dia obbiettivi concreti ma solo linee di alleanza sindacale e parlamentare. Perché stupirsi che molti sentano questo programma minimo come un “opportunismo massimo”?
Centrale è invece oggi un progetto costituente che unifichi politicamente, e quindi sappia anche reagire alle eventuali componenti distruttive del movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato.
Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile -, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno.
Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. I ragazzi – quelli che hanno fatto casino – esprimono, con la loro rabbia, non la capacità ma l’incapacità di rispingere la paura del potere. Si può tuttavia probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri – a condizione che si abbia un programma positivo, maggioritario, materialmente definito. Oggi quel programma del comune si è già ampiamente manifestato nei referendum e nelle elezioni municipali, contro le macchine partitiche. Si tratta di procedere su questo terreno.
Svolgere il tema del comune costituente nella lotta rappresenta dunque oggi forza maggioritaria. A Reggio Emilia nel 1960, e a Genova nel 2001, dei compagni sono stati uccisi – ma il movimento non aveva paura, era unito, vinse perché non escludeva nessuno a priori, mise polizia e governi davanti all’evidenza di un irresistibile ostacolo. Oggi, volendo presentarsi con un programma minimo, cercando alleanze in una parte del ceto politico screditata e corrotta quanto lo è il ceto politico di destra, si è finito per rafforzare Berlusconi. Tutti dunque sembrano consapevoli che siamo giunti ad una impasse. Un’impasse di programma prima che di metodo. Ma come metterlo nella testa di coloro che vedono un insorto in ogni povero che non ha più paura?
5) Siamo infine anche di fronte ad un’impasse di metodo. Non erano stati dati obbiettivi al corteo di Roma. Di contro, a Madrid, sono stati i palazzi del potere e le banche ad essere assediate da mezzo milione di Indignados. Gli stessi che, immediatamente dopo, hanno ripreso le loro attività di quartiere, uniti da un’unica organizzazione orizzontale, usando reti, socialnetworks e twitts in modo astuto, chiamando tutti dove c’era bisogno, su uno sfratto come nelle scuole occupate, o negli ospedali autoamministrati.
A Barcellona, duecentomila persone si sono ritrovate: poi si sono formati tre cortei, l’uno ha occupato un ospedale, l’altro l’università ed un terzo un enorme magazzino per farne un centro sociale. A Piazza San Giovanni bisognava invece arrivare per ascoltare i politici di prima, seconda e terza generazione? Vi stupisce che nasca il bordello che c’è stato? Qual è stato il metodo, qual è stata la gestione politica del comune in quel caso?
Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione – la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. Si tratta di lasciargli spazio e voce.
“Lasciateci fare politica”, dicono alcuni. Certo. Intanto, noi proviamo a costruire il movimento degli Indignados.
Barbara di Tommaso, Io, in movimento fuori dai recinti. E dagli scontri:
Loris Campetti, La posta in gioco è una sola:
Immagini:
Riflessioni di un poliziotto:
Francesco Interlenghi, Uno sguardo sul 15 ottobre:
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