15.9.11

[zoom sulla crisi] Un Paese di merda? - di Augusto Illuminati


Va bene che il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie, ma neppure l’italiano medio (moderato, un po’ evasore e un po’ ignorante) e l’italiana media (più colta e meno retribuita) se li meritano, quei due vecchiacci malvissuti di Bossi e Berlusconi. Il primo che con il tricolore ci si pulisce il culo, il secondo che dichiara (intercettazione depositata) di volersene andare dall’Italia, Paese di merda. Ok, siamo nel Paese in cui (intercettazione depositata) il pappone Tarantini si vanta con il faccendiere Lavitola di aver dormito a vent’anni nella barca di D’Alema e a trenta a palazzo Grazioli, mentre secondo le carte processuali sua moglie preferiva dormire con Lavitola. Ma questo indica solo quanta merda ci sia nel ceto politico bi-partisan, non fa merda né di noi e neppure del criticabile italiano medio o dell’Italia intera. Come, del resto, l’italian* medi* è più sobri* ed elegante dei suoi ministri: il papi con bandana e pompetta, il marziale Larussa in mimetica, la Santanchè in tenuta da strada, il carnevalesco semplificatore Calderoli.
C’è dunque un problema urgente e superficiale di estetica e di sopravvivenza nazionale, che riguarda l’italian* medi* con tutti i suoi difetti e il tessuto connettivo economico e ideologico del Paese in senso perfino interclassista. Come arginare questo tsunami (di merda) che rischia di travolgere la tenuta e l’immagine dell’Italia. Quando mai in Francia “accorperebbero” i balli del 14 luglio o in Usa rinuncerebbero ai fuochi d’artificio del 4 luglio e al tacchino del Thanksgiving, come noi proponiamo per il 25 aprile, il 1 maggio o il 2 giugno! Ora, Casini e Bersani (ma anche, dietro e sopra di loro, Napolitano) hanno deciso di tenere a galla Bossi e Berlusconi lasciandoli cuocere a fuoco lento per un paio d’anni. Temo che non ce lo possiamo permettere, dal punto di vista dell’italian* medi* –ripeto, non della, classe, della moltitudine o dei poveri o come preferite. Ancora sei mesi così e rischiamo la decomposizione territoriale o un rigurgito antipolitico che farebbe arretrare tutto. Purtroppo le forze parlamentari sono incapaci di fare perfino una ragionevole politica borghese: basti elencare le vicissitudini della manovra, il grottesco dibattito referendario nel Pd, i simmetrici guai giudiziari del ceto di governo e di opposizione. Sei mesi. Anche meno. Pensa Napolitano, pensa Marcegaglia, pensa la ragioneria dello Stato che la frazione italiana del capitale finanziario possa reggere di più con un Premier che suggerisce, per tappare i buchi, di alzare l’Iva al 22%, «ma solo per tre mesi»? Persino una bella fiammata di “odio sociale”, a questo punto, darebbe ossigeno al sistema, risollevando i consumi e dinamizzando le relazioni produttive stagnanti. Le vetrine spaccate sono uno stimolo anticlico, mentre il menu a buon mercato del Senato è assolutamente prociclico. Con le spigole a 3,35 € si corre a incrementi del Pil tendenti allo zero.
C’è poi il problema più profondo, ci cui il primo è un riflesso. Dietro lo sfascio sociale e istituzionale ci sta la spaccatura sempre più ampia fra una minoranza (non esigua) di beneficiari della finanziarizzazione dell’economia e una crescente maggioranza di impoveriti in termini relativi ma ora anche assoluti, per di più resi invisibili dalle trasformazioni in senso precario e sommerso del mercato del lavoro. Maggioranza moltitudinaria che non accede più neppure alle forme mistificatorie di rappresentanza fordista (partiti e sindacati) e al welfare di un tempo. Tutte le proposte di pareggio del bilancio e rientro dal deficit mirano, del resto e in modo consapevole, ad allargare quel divario, indebolendo la capacità contrattuale e i livelli di reddito diretto o trasferito degli operai, dei precari e del grosso dell’ex-ceto medio, per non parlare del massacro generazionale (in termini di retribuzione, occupazione e futura pensione) e di una persistente esclusione e discriminazione salariale sessuata. Gli annunci si differenziano soltanto nell’indicazione dei settori da colpire e dei canali di estorsione: taglio di stipendi o di pensioni, blocco salariale comunque, privatizzazione delle aziende nazionali o municipalizzate, descolarizzazione o meritocrazia, lavoro nero o apprendistato, ecc. La logica del “mantenimento dei saldi”, comune a governo e opposizioni parlamentari, implica solo una diversa distribuzione dei sacrifici fra i subalterni, condito con più o meno retorica sull’evasione fiscale. A proposito della quale ci si potrebbe domandare: ma a chi affideremo la vindice spada fiscale? Alla coppia Tremonti-Milanese? A Berlusconi, l’anti-italiano, specialista in off-shore e che ha la sua brava società di comodo per villa Certosa? All’incorruttibile Penati?
Anche a questo livello più strutturale l’assenza di una qualsiasi idea di sviluppo (che differenzia il capitalismo italiano dai pur brancolanti esperimenti di Germania e Usa, per non parlare del Bric), corrisponde alla cieca gestione contabile della crisi che sta trascinando alla rovina le potenze occidentali e probabilmente prelude a un cambiamento geopolitico globale a tutto favore di blocchi tipo quelli a guida brasiliana o cinese. La rottura neoliberista del nesso sociale (prima garantito dal compromesso keynesiano) produce nei paesi di vecchi industrializzazione lacerazioni che si estendono a tutte le modalità di consenso: negli Usa il Tea Party, da noi le pulsioni secessioniste (al Nord leghiste, al Sud mafiose) e gli egoismi sezionali istituzionalizzati, ovunque la discriminazione xenofoba che però utilizza il lavoro migrante, anzi ne fa il paradigma del precariato anche nazionale. La democrazia diventa ingestibile, sia per i populismi rampanti (di cui l’Italia berlusconian-bossiana è stato laboratorio, prima dell’autunno tremolante dei patriarchi) sia per la governance autoritaria cui sta venendo meno il combustibile dei mercati.
Per questo un movimento di opposizione deve agire non solo avendo per referente sociale una moltitudine plurale ben diversa dalle classi (relativamente) compatte di un tempo, ma anche su due livelli di lotta. Deve farsi carico di uno sviluppo qualificato per trattenere la catastrofe e allo stesso tempo (non in un secondo tempo, secondo schemi storici ben noti) conferire centralità ed egemonia al tema del superamento della condizione precaria, forma contemporanea della liberazione del proletariato. Quando diciamo che una democrazia radicale e tumultuaria deve poggiare sui 27 milioni di votanti sì ai referendum (ivi compresa una buona fetta dell’italian* medi* di cui sopra), donne per bene e donne per male, lavoratori della conoscenza e suore di clausura, metalmeccanici e sindaci incazzati, partite Iva e berlusconiani delusi, ribadiamo appunto una scommessa. Che l’uscita dalla crisi e dall’ossessione debitoria non ce l’indicherà nessuno dei due contendenti della Mondadori, né Berlusconi né De Benedetti, tanto meno i loro avatar e vassalli, ma toccherà a forze nuove e avverrà fuori del quadro attuale della rappresentanza, sulla base di istituzioni del comune che crescono nel corso di un’insorgenza. Il ciclo di lotte che ha nello sciopero del 6 e nelle battaglie della Fiom un punto importante di avvio acquista così un rilievo decisivo, proprio per il suo impatto con una manovra devastante quanto inconcludente e con una crisi virtuale di governo.

Andiamo verso un autunno-inverno caldo e cominciamo a sbarazzarci della vecchia merda. Anche per non vergognarci più del nostro Paese. Mi scusi, Presidente, /io non mi sento italiano /ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Nessun commento:

Posta un commento