DA OGGI SI APRE SUL BLOG LA SEZIONE 'ZOOM SULLA CRISI' (http://lgsmacerata.blogspot.com/search/label/ZoomCrisi) NELLA QUALE DEDICHEREMO PARTICOLARE ATTENZIONE ALLE CAUSE, CONSEGUENZE E POSSIBILI SOLUZIONI DELLA CRISI, PUBBLICANDO ARTICOLI NOSTRI O RIFLESSIONI DEI MAGGIORI INTELLETTUALI ITALIANI E STRANIERI.
La trasmissione l’Infedele di lunedì, dedicata da Gad Lerner alla manovra economica e al problema del debito pubblico, induce ad alcune riflessioni. Tralascio gli interventi di apologia dell’evasore-imprenditore (a cui Arzignano ha dedicato un monumento) e quello sul suo ispiratore – il governo Berlusconi – affidata a un sottosegretario addestrato a schivare le domande. Tralascio anche quello di Maurizio Landini che ha spiegato che se siamo a questo punto è il meccanismo che ci ha portato fin qui a dover essere cambiato.
Oltre a loro erano presenti un (ex) banchiere, autore di una proposta sensata di imposta patrimoniale, un giornalista economico che sa radiografare con cura i bilanci aziendali e un economista che è una delle migliori voci nel campo dell’analisi finanziaria a livello internazionale: tutti e tre fortemente critici non solo nei confronti del governo Berlusconi e delle sue manovre, ma anche – in parte – delle politiche dell’Unione Europea.
La prima riflessione è questa: il tratto caratteristico della nostra epoca è non solo il fatto che i governi dell’Occidente hanno lasciato – anzi, affidato – alle banche e all’alta finanza il governo dell’economia e, con esso, quello della vita di miliardi di persone, ritrovandosi poi del tutto impotenti di fronte al loro strapotere; ma anche il fatto che l’interpretazione e – direbbe Vendola – la “narrazione” di quel che succede è stata affidata, in forma pressoché monopolistica, agli economisti; che sono tutti, keynesiani o liberisti, adepti di un’unica scuola, di un’unica religione, di un’unica ossessione: la “crescita”. Arte, storia, letteratura, filosofia, scienze della natura e della terra possono essere piacevoli diversivi. Ma quando si giunge al dunque – che fare? – l’unica verità che conta è la loro.
Un banchiere, anche se “ex” e “democratico”, vede il mondo dalla scrivania di una banca: se la banca non va il mondo si ferma; e non c’è altro modo per rimetterlo in moto che quello di far ripartire la banca. Il che è certo vero nella “normalità”: finché il “sistema” funziona. Ma se si inceppa, il banchiere perde la bussola. Persino Mario Draghi, messo al vertice di due delle massime istituzioni finanziarie del mondo – Bce e Financial Stability Board – per l’esperienza acquisita nella banca Goldman & Sachs, alla domanda che cosa fare se uno Stato fallisce ha risposto più o meno: «non lo so, non ci sono precedenti». Intanto non è vero: guardando intorno e indietro nella storia i fallimenti di uno Stato sono caterve. Ma non va dimenticato che Goldman & Sachs è sotto accusa – tra l’altro – per aver piazzato in giro mutui subprime da una parte mentre giocava al ribasso contro di essi dall’altra; e per aver aiutato il governo della Grecia pre-Papadopulos prima a indebitarsi fino al collo, poi a falsificare i conti presentati all’Unione Europea. Infine, vista la situazione in cui ci troviamo – non solo in Italia, ma in buona parte dell’Europa – varrebbe comunque la pena approfondire, nella misura del possibile, la materia.
Anche per gli economisti sembra che il cono di luce della loro disciplina si fermi alle “leggi” di funzionamento – ordinato o meno – del sistema. Al di là di quel cono non c’è che il caos. Eppure quelle non sono leggi divine o “di natura”, bensì il prodotto di un agire umano complesso e variabile. Ma un non-economista che si sente ripetere tutti i giorni che bisogna fare questo e quello; e poi ancora quello e questo (tutte cose, comunque, a suo danno: per lo meno nell’immediato. E non si tratta solo delle grottesche “manovre” del governo Berlusconi, ma anche e soprattutto delle scelte della Bce e dei governi dell’Unione Europea), altrimenti si precipita nel caos, potrà pur chiedersi che cosa gli può succedere se questo e quello non vengono fatti, o se una volta fatti non funzionano. Tanto più che tutto viene deciso nelle “alte sfere”; tanto alte che non si sa nemmeno dove siano. Chi conosce veramente i soggetti, uomini e istituzioni, che tengono in mano, insieme al debito pubblico, il destino di milioni di persone?
In queste condizioni il meno che si possa pensare è che al default, cioè al disastro, ci si arriverà – o ci si può arrivare – in ogni caso: anche perché non è una cosa che possa turbare più di tanto quelle “alte sfere” da cui dipende il futuro del mondo. Loro se la caveranno bene comunque, come se la sono cavata benissimo finora. Ma è inevitabile pensare che prima di arrivare al disastro, proprio loro stanno provvedendo – e in che modo lo capiamo bene tutti, perché tutto avviene sotto i nostri occhi e a nostre spese – a spennare tutti quelli che si possono spennare e a razziare tutto quello che si può razziare.
Insomma, che cosa passa per la mente dei non-economisti, e in quali comportamenti – certamente “irrazionali” dal punto di vista delle discipline economiche – ciò si possa tradurre, questo la scienza economica non lo sa; e con lei non lo sanno gli economisti. Per cercare di capirlo – e magari per cercare di orientarlo – ci vuole un altro tipo di sapere, che ha poco a che fare con le “leggi”, i numeri e i diagrammi dell’economia. E che non è la sociologia o la psicologia, per lo meno quelle attuali, che da anni scimmiottano l’economia, che a sua volta scimmiotta la fisica; proprio quando quest’ultima sta abbandonando gran parte delle sue certezze. Un passo avanti sarebbe il recupero di quello che il pensiero di un secolo fa aveva chiamato “sociologia comprendente” e che un altro secolo prima, e ancor prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, Adam Smith aveva cercato di definire con una Teoria dei sentimenti morali. In termini meno dotti, per capire che cosa ci succede intorno, soprattutto quando il trantran di un mondo ordinato si spezza, bisogna in qualche modo partecipare del sentire degli altri; perché è questo il fondamento ultimo della vita associata: la capacità di “mettersi nei panni” altrui. Un banchiere dovrebbe provare a mettersi nei panni di un cittadino qualunque (un non-economista); un imprenditore (o padrone) in quelli dei suoi operai; un governante in quelli dei governati; ma anche un lavoratore a tempo indeterminato in quelli di un precario (e tutti quanti in quelli di un disoccupato); gli italiani in quelli di un migrante e un uomo in quelli di una donna. E viceversa. Non è così facile. Ed è sicuramente più facile farlo dall’alto verso il basso che viceversa, essendo noto che la piramide sociale è molto più trasparente vista dal vertice che dalla base (mentre quello che giace e da tempo si accumula ai suoi margini è oscuro per tutti; o quasi). Ci abbiamo messo vent’anni a capire di che pasta è fatta la vita quotidiana di Berlusconi. Perché il denaro arriva là dove neppure l’immaginazione riesce ad arrivare. Ed altri venti per capire i mezzi e i modi dell’irresistibile ascesa di Murdoch.
Provando a mettersi nei panni altrui gli economisti – e i banchieri, ma questi per lo più lo sanno già – comincerebbero a capire come mai i loro numeri e le loro leggi non possono che porli in un rapporto di contrapposizione frontale con il sentire di chi è alle prese con le conseguenze delle loro visioni economiche. E che i loro diagrammi sono dei coltelli piantati nelle carni di chi vive le difficoltà di una vita sempre più precaria. E tanto più quanto più quel loro “cono di luce” gli impedisce di vedere – e di aiutare a guardare – oltre. La loro scienza è peraltro molto effimera: basta pensare alla cosiddetta curva di Laffer – uno scarabocchio disegnato su un fazzoletto di carta da un oscuro economista durante una cena con Reagan – con la quale si dimostra che abbassando le tasse ai ricchi aumenta l’occupazione e il benessere dei poveri. Eppure essa ha ispirato trent’anni di politiche economiche a livello planetario, senza che nessuno abbia trovato la maniera di urlare contro un’infamia del genere, che, anzi, ispira ancora gli editoriali del Corriere di Alberto Alesina. La complicità della comunità degli economisti si manifesta in questo: che il cono di luce della loro disciplina finisce là dove si ferma la “crescita” o la possibilità di farla “riprendere”. Al di là di questo confine la disciplina non è più operativa.
Tutti sanno che la Grecia non ce la può fare e non ce la farà mai a risalire la china in cui l’hanno precipitata gli imbrogli della Goldman & Sachs. Forse la sua povera economia verrà tenuta a balia dall’Unione Europea per i prossimi decenni (la Grecia è così piccola!). Ma è già di fatto in default e nessuno osa dirlo. Ma se il cerchio si allarga – e si allarga, anche e soprattutto grazie al governo Berlusconi: ai suoi traffici, alle sue cricche, alle sue menzogne, alla ragnatela delle sue complicità, ma questo si poteva capire già anni fa – il default dell’Italia, e forse dell’euro, si fa sempre più probabile. E allora, perché non parlarne? Forse adesso si capisce perché i lavoratori che sono scesi in piazza il 6 settembre ne sanno, o ne immaginano, più di quello che gli economisti ne pensano o ne dicono.
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