Di Michele Giorgio, inviato in Palestina del Manifesto
Soffocare sul nascere l'idea dello stato di Palestina evitando il veto. È questo l'impegno garantito dall'Amministrazione Obama al governo israeliano mentre comincia a prendere corpo alle Nazioni unite l'iniziativa palestinese. Ieri il presidente dell'Olp e dell'Anp Abu Mazen ha informato il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon della sua intenzione di presentare, questo venerdì, una richiesta di adesione come stato delle Nazioni unite. Impegno Usa che, spiegava ieri l'ambasciatore d'Israele all'Onu, Dan Prosor, dovrebbe concretizzarsi nella costituzione in seno al Consiglio di sicurezza di un blocco di sette paesi (Usa, Gabon, Bosnia, Colombia, Germania, Portogallo e Nigeria, ai quali potrebbero aggiungersi, ma con l'astensione, Francia e Regno unito) pronti a fermare la richiesta di adesione della Palestina come 194mo Stato membro dell'Onu.
In questo modo Washington conta di fermare subito il cammino di Abu Mazen senza dover ricorrere al veto che renderebbe più negativa l'immagine degli Usa tra palestinesi e arabi. Per le questioni di procedura è necessaria una maggioranza di nove membri e visto che il Consiglio ne conta 15 (5 permanenti e dieci a rotazione), il «no» di sette paesi sarebbe sufficiente per chiudere la questione.
È incessante il lavoro diplomatico contro lo stato di Palestina. Eppure anche un cieco vedrebbe che il passo di Abu Mazen è utile anche agli interessi di Israele che in questo modo confinerebbe in uno staterello disomogeneo e senza sovranità reale gran parte dei palestinesi oggi sotto occupazione (lo stato-bantustan denunciato da più parti). Ma il premier israeliano Netanyahu, evidentemente, non pensa ad altro che a proseguire l'espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E Washington gli sta dando tutto l'appoggio possibile. Lo stesso Netanyahu durante l'ultima seduta del consiglio dei ministri, ha sottolineato che la cooperazione con Barack Obama non è mai stata tanto proficua come in questi ultimi quattro mesi. «È stata eccellente», ha detto con tono soddisfatto il primo ministro.
Secondo il Jerusalem Post Washington vuole dare nuova linfa alla proposta discussa a luglio dal Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) che prevede il sì, con riserve, di Israele a negoziare con i palestinesi sulla base delle linee del 4 giugno 1967 (antecedenti all'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est) in cambio del riconoscimento da parte di Abu Mazen di Israele come stato ebraico. Proposta che dovrebbe già essere morta e sepolta perché nessun leader palestinese, incluso il fragile presidente dell'Olp, ha il consenso popolare necessario per approvare la rinuncia al diritto al ritorno dei profughi palestinesi della guerra del 1948 ai loro villaggi d'origine (oggi in territorio israeliano) che, di fatto, deriverebbe dal riconoscimento di Israele come stato ebraico. Ne è una prova in questi giorni la televisione pubblica palestinese, megafono di Abu Mazen, che mostra un logo con il numero 194 corrispondente alla risoluzione dell'Onu che sancisce il diritto dei profughi al ritorno. Allo stesso tempo Netanyahu, anche se decidesse di moderare la sua linea oltranzista, dovrebbe fare i conti con una porzione significativa del governo e della Knesset che lo esortano a «rispettare i principi del partito Likud» (controllo della biblica Eretz Israel e sviluppo delle colonie). Il suo governo, peraltro, appare diviso sulle misure punitive da adottare contro l'Anp. I ministri degli esteri, Avigdor Lieberman, delle finanze Yuval Steiniz e il vice premier Moshe Yaalon invocano la mano pesante, mentre il titolare della difesa Ehud Barak e quello dell'intelligence Dan Meridor si oppongono a sanzioni severe.
Ma il gioco non è solo nelle mani di Netanyahu e dei suoi ministri. In campo, nella posizione di punta centrale, ci sono anche i coloni. Oggi migliaia di settler israeliani terranno due marce in Cisgiordania in sostegno della colonizzazione. La prima nei pressi dell'insediamento di Bet El, la seconda, più provocatoria, in direzione di Nablus. Si tratta di una delle aree ad alta tensione della Cisgiordania dove i coloni presentano spesso ai residenti palestinesi il cosiddetto «prezzo da pagare», ossia il conto per le rare iniziative dell'esercito contro la colonizzazione selvaggia. «Questa settimana organizzeremo marce e mostreremo la nostra presenza per far capire a tutti a chi appartiene questa terra», ha dichiarato Meir Bertler, leader del gruppo ultranazionalista «I Ragazzi delle Colline».
I comitati popolari palestinesi da parte loro preparano contromisure, come hanno spiegato ieri alcuni attivisti alla sorgente di Ein al-Qaws (Ramallah). Faranno affidamento anche sull'aiuto di volontari israeliani ed internazionali per documentare quanto avverrà in Cisgiordania. «L'idea principale è quella di avere un gruppo di volontari con videocamere che possano proteggere i palestinesi», ha dichiarato Mohammed Khatib, del Comitato Popolare di Bilin, «se questo non fermerà i coloni, proteggeremo il nostro popolo con i nostri corpi, senza mai fare ricorso alla violenza. Se loro vogliono usare la violenza sono liberi di farlo, ma noi utilizzeremo solo metodi non-violenti». Dal 7 al 13 settembre, riferisce Ocha (Nazioni Unite), i coloni israeliani hanno ferito sette palestinesi in tre diversi episodi di violenza. E nei primi otto mesi del 2011, almeno 6.680 alberi di proprietà palestinesi sono stati sradicati, tagliati o dati alle fiamme.
In questo modo Washington conta di fermare subito il cammino di Abu Mazen senza dover ricorrere al veto che renderebbe più negativa l'immagine degli Usa tra palestinesi e arabi. Per le questioni di procedura è necessaria una maggioranza di nove membri e visto che il Consiglio ne conta 15 (5 permanenti e dieci a rotazione), il «no» di sette paesi sarebbe sufficiente per chiudere la questione.
È incessante il lavoro diplomatico contro lo stato di Palestina. Eppure anche un cieco vedrebbe che il passo di Abu Mazen è utile anche agli interessi di Israele che in questo modo confinerebbe in uno staterello disomogeneo e senza sovranità reale gran parte dei palestinesi oggi sotto occupazione (lo stato-bantustan denunciato da più parti). Ma il premier israeliano Netanyahu, evidentemente, non pensa ad altro che a proseguire l'espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. E Washington gli sta dando tutto l'appoggio possibile. Lo stesso Netanyahu durante l'ultima seduta del consiglio dei ministri, ha sottolineato che la cooperazione con Barack Obama non è mai stata tanto proficua come in questi ultimi quattro mesi. «È stata eccellente», ha detto con tono soddisfatto il primo ministro.
Secondo il Jerusalem Post Washington vuole dare nuova linfa alla proposta discussa a luglio dal Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue) che prevede il sì, con riserve, di Israele a negoziare con i palestinesi sulla base delle linee del 4 giugno 1967 (antecedenti all'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est) in cambio del riconoscimento da parte di Abu Mazen di Israele come stato ebraico. Proposta che dovrebbe già essere morta e sepolta perché nessun leader palestinese, incluso il fragile presidente dell'Olp, ha il consenso popolare necessario per approvare la rinuncia al diritto al ritorno dei profughi palestinesi della guerra del 1948 ai loro villaggi d'origine (oggi in territorio israeliano) che, di fatto, deriverebbe dal riconoscimento di Israele come stato ebraico. Ne è una prova in questi giorni la televisione pubblica palestinese, megafono di Abu Mazen, che mostra un logo con il numero 194 corrispondente alla risoluzione dell'Onu che sancisce il diritto dei profughi al ritorno. Allo stesso tempo Netanyahu, anche se decidesse di moderare la sua linea oltranzista, dovrebbe fare i conti con una porzione significativa del governo e della Knesset che lo esortano a «rispettare i principi del partito Likud» (controllo della biblica Eretz Israel e sviluppo delle colonie). Il suo governo, peraltro, appare diviso sulle misure punitive da adottare contro l'Anp. I ministri degli esteri, Avigdor Lieberman, delle finanze Yuval Steiniz e il vice premier Moshe Yaalon invocano la mano pesante, mentre il titolare della difesa Ehud Barak e quello dell'intelligence Dan Meridor si oppongono a sanzioni severe.
Ma il gioco non è solo nelle mani di Netanyahu e dei suoi ministri. In campo, nella posizione di punta centrale, ci sono anche i coloni. Oggi migliaia di settler israeliani terranno due marce in Cisgiordania in sostegno della colonizzazione. La prima nei pressi dell'insediamento di Bet El, la seconda, più provocatoria, in direzione di Nablus. Si tratta di una delle aree ad alta tensione della Cisgiordania dove i coloni presentano spesso ai residenti palestinesi il cosiddetto «prezzo da pagare», ossia il conto per le rare iniziative dell'esercito contro la colonizzazione selvaggia. «Questa settimana organizzeremo marce e mostreremo la nostra presenza per far capire a tutti a chi appartiene questa terra», ha dichiarato Meir Bertler, leader del gruppo ultranazionalista «I Ragazzi delle Colline».
I comitati popolari palestinesi da parte loro preparano contromisure, come hanno spiegato ieri alcuni attivisti alla sorgente di Ein al-Qaws (Ramallah). Faranno affidamento anche sull'aiuto di volontari israeliani ed internazionali per documentare quanto avverrà in Cisgiordania. «L'idea principale è quella di avere un gruppo di volontari con videocamere che possano proteggere i palestinesi», ha dichiarato Mohammed Khatib, del Comitato Popolare di Bilin, «se questo non fermerà i coloni, proteggeremo il nostro popolo con i nostri corpi, senza mai fare ricorso alla violenza. Se loro vogliono usare la violenza sono liberi di farlo, ma noi utilizzeremo solo metodi non-violenti». Dal 7 al 13 settembre, riferisce Ocha (Nazioni Unite), i coloni israeliani hanno ferito sette palestinesi in tre diversi episodi di violenza. E nei primi otto mesi del 2011, almeno 6.680 alberi di proprietà palestinesi sono stati sradicati, tagliati o dati alle fiamme.
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