Riportiamo il documento (tratto da www.democraziakmzero.org) elaborato da una moltitudine di realtà romane, con il quale si fa sintesi di quanto portato avanti sinora nelle nostre lotte locali e nazionali, cercando di dare uno spessore politico alle rivendicazioni dei movimenti, attorno al nodo della riappropriazione collettiva dei beni, del governo del territorio, della ricchezza comune, verso uno sviluppo collettivo e partecipato.
L’ANNUNCIO DI UN INCONTRO A ROMA per “costruire la democrazia dei beni comuni” e la bozza di un “Manifesto politico della città di Roma”.
Costruiamo la Democrazia dei beni Comuni a Roma. Rilanciamo la città pubblica contro le privatizzazioni, le dismissioni, i tagli al welfare. Mercoledì 29 febbraio ore 17.30 all’ex Cinema Palazzo – San Lorenzo.
Roma si trova sotto attacco delle speculazioni finanziarie e immobiliari, delle privatizzazioni, dei tagli ai servizi e al welfare. Un strategia che si svolge su più fronti.
I programmi di austerità e di tagli portati avanti dal governo Berlusconi e proseguiti da Monti, sotto il diktat delle burocrazie europee, hanno ridotto le risorse disponibili nelle casse comunali, già oberate da un forte indebitamento e strozzate dall’imposizione del Patto di stabilità. Sulla città di Roma incombe il ricatto della dismissione e della privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali, in spregio dei 27 milioni di “sì” ai referendum di giugno che hanno rotto l’egemonia liberista affermando la difesa dei beni comuni. I primi effetti sono sotto gli occhi di tutti: riduzione della qualità e del peso dei servizi collettivi, aumento delle tariffe, ulteriore precarizzazione delle condizioni di lavoro, azzeramento delle politiche culturali.
Altro che federalismo! Roma e le altre città sono annichilite dalle politiche centraliste di un governo nazionale che scarica sulla dimensione locale la propria incapacità.
La destra al governo della città e della Regione propone un modello di sviluppo fondato sulla rendita, le privatizzazioni e la subalternità totale ai poteri forti, come dimostrano il Piano Casa, i progetti di cementificazione di Alemanno (milioni di metri cubi di cemento oltre a quelli già previsti dal Piano regolatore) e il Piano rifiuti della Regione Lazio. Inoltre, assistiamo alla svendita di un immenso patrimonio pubblico ( i depositi Atac, gli immobili militari, gli immobili trasferiti con il federalismo demaniale) che invece potrebbe essere destinato a servizi e abitazioni a canone sociale. Stessa musica nell’ambito culturale, dove assistiamo a tagli drastici delle già poche risorse disponibili e un attacco frontale alle esperienze che nei territori producono socialità, cultura e riqualificazione urbana. Mentre in Europa e nel mondo vanno in crisi le ricette liberiste, la destra di Alemanno gioca la carta dell’aggressione ai beni comuni e della finanziarizzazione della città, riducendo ai minimi termini il ruolo e le funzioni del consiglio comunale e degli organi rappresentativi.
Occorre invertire la rotta. La città deve cessare di essere concepita come una preda dagli speculatori, come salvadanaio dal governo nazionale o come proprietà privata dalle classe politica.
Intendiamo cogliere lo spirito emerso nel “Forum dei Comuni per i beni comuni” che si è tenuto a Napoli il 28 gennaio per aprire una nuova stagione nella città di Roma. Proponiamo di costruire uno spazio politico di movimento che punti a realizzare un nuovo modello di città fondato sui beni comuni, il federalismo possibile, l’autogoverno dei cittadini. Uno spazio autonomo dai partiti, ma non autoreferenziale, che sappia produrre proposte per la città e imporle nel dibattito pubblico.
Per farlo pensiamo di partire dalle tante vertenze e dalle mobilitazioni per i beni comuni e i diritti sociali che attraversano Roma. Vogliamo aprire una discussione pubblica e un percorso dal basso che sia in grado di disegnare un’altra via d’uscita dalla crisi e un’altra idea di città.
Primi promotori: Action-diritti in movimento, Esc-atelier autogestito, Point Break, Horus Project, Lab Puzzle, Strike, Angelo Mai.
Dalla partecipazione all’autogoverno
Bozza per un Manifesto politico della città di Roma
Punto 1.
OLTRE LA RETORICA DELLA PARTECIPAZIONE
All’inizio degli anni duemila, sulla scorta del laboratorio di Porto Alegre in Brasile, si erano avviate esperienze di partecipazione all’interno degli enti locali di molti paesi del mondo. Sotto il nome di “nuovo municipalismo”, si era fatta strada l’idea che “processi partecipativi” che coinvolgessero attivamente la cittadinanza, potessero riformare “dal basso” le logore istituzioni locali.
Oggi dobbiamo constatare che quel progetto di riforma ha subito una battuta d’arresto. Bisogna infatti vedere nella crisi economico-finanziaria che si è avviata nella seconda metà del 2007, le radici di una più profonda CRISI DEMOCRATICA che riguarda da vicino le stesse istituzioni politiche e che rende la parola d’ordine della “partecipazione”, insufficiente a rispondere alla domanda di nuova democrazia.
Nella fase attuale, infatti, assistiamo ad un profondo processo di espropriazione della decisione politica da parte delle istituzioni economiche-finanziarie a danno dei cittadini. Il criterio di legittimazione delle decisioni in materia politica ed economica smette di essere interno al rapporto tra governati e governanti, spostandosi fuori dei tradizionali canali della rappresentanza. Che sia il comportamento dei mercati, le valutazioni delle agenzie di rating o le decisioni della Banca Centrale Europea, il cosa decidere, come e quando, non è più appannaggio dei cittadini, neanche attraverso gli strumenti di delega tipici delle democrazie liberali.
Chi governa esegue decisioni prese altrove, chi è governato non può far altro che subire un processo sul quale non ha più alcuna capacità di controllo. La crisi del debiti sovrani in Europa ha ancor di più accelerato e radicalizzato questo processo di espropriazione della decisione, proiettandolo su tutti i livelli amministrativi. Il dominio incontrastato del potere esecutivo dei governi su quello legislativo delle assemblee elettive, così come la fiducia incondizionata accordata ai tecnici e agli esperti, ne sono una conferma lampante.
In questo quadro, limitarsi ad inserire degli scampoli di partecipazione all’interno dei canali della rappresentanza, già sostanzialmente svuotati dalle loro prerogative, è quantomeno debole e rischia di non essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte.
Punto 2.
IL DECENTRAMENTO AUTORITARIO: PER UNA CRITICA AL FEDERALISMO ESISTENTE
Le nuove disposizioni in tema di federalismo non smentiscono, anzi confermano, il quadro che stiamo descrivendo. Il problema sta, per così dire, a monte. L’utilizzo della stessa parola federalismo – aggettivata nei modi più disparati: amministrativo, regionale, fiscale, demaniale – rischia di trarre in inganno. Ciò che va sotto il nome di federalismo è in realtà una forma di mero decentramento di alcuni poteri e competenze che in precedenza erano monopolio dello Stato centrale. La stessa riforma del Titolo V della Carta costituzionale è stata informata da questa concezione: abbiamo assistito, infatti, non ad un ripensamento dei rapporti tra i poteri e le istituzioni in senso propriamente federativo, ma ad una semplice ridefinizione degli ambiti di competenza spettanti a Stato, Regioni e agli altri Enti locali. Si è dunque rimasti all’interno della stessa logica centralistica dello Stato moderno. Il processo devolutivo dei poteri e delle competenze ha riprodotto così la stessa topologia dello Stato unitario e accentrato: dall’alto verso il basso, si è detto, oppure dal centro alla periferia.
Lo stesso atteggiamento si è riscontrato, anche a sinistra, all’interno del dibattito su quella che, fino a poco tempo fa, veniva definita come “l’Europa politica”. La costruzione graduale dello spazio politico europeo, in senso federalista, è stata concepita come la proiezione, su scala territoriale più ampia, della statualità: l’Europa sarà finalmente politica – veniva detto da più parti – solo quando assumerà le fattezze di un Super-stato. Oggi, di fronte al rischio reale di una rottura dello stesso spazio economico e monetario europeo, i limiti di questo modo di vedere le cose sono sotto gli occhi di tutti e chi fino a poco tempo fa invocava l’Europa come nuovo Stato prova un certo imbarazzo e senso di smarrimento.
Infine, lo stesso discorso è stato fatto anche per un’altra parola andata molto di moda negli ultimi anni: la sussidiarietà. Questa è stata intesa come un principio residuale, utile a colmare gli spazi che il potere statale lasciava vuoti o scoperti, favorendo così non processi di autonomia a livello locale, ma di privatizzazione.
Con l’approfondirsi della crisi i limiti di questa prospettiva sono venuti allo scoperto. Da una parte il federalismo esistente appare oggi come uno strumento per scaricare verso il basso il peso delle misure di austerity e i processi di privatizzazione e svendita del patrimonio pubblico. Basti vedere gli effetti del cosiddetto “federalismo demaniale”, oppure le norme relative alla privatizzazione dei servizi pubblici locali, per non parlare dell’effetto a cascata dei tagli alla spesa pubblica che finiranno per strangolare gli Enti Locali costringendoli alla riduzione e al congelamento dei servizi. Dall’altra parte il federalismo esistente, nonostante le apparenze, finirà per concentrare potere invece che diffonderlo. Emblematica è in tal senso la logica che informa la riforma di ROMA CAPITALE per accorgersene: qui il decentramento va di pari passo con la riduzione dei margini di rappresentanza nell’assemblea capitolina e con lo svuotamento più totale del ruolo dei municipi, ridotti ad essere organi meramente consultivi e senza budget.
Punto 3.
DIFFONDERE IL POTERE: PER UN FEDERALISMO POSSIBILE
Contro l’inganno del federalismo esistente, occorre riaprire la riflessione e la pratica di un federalismo possibile. Non si tratta di una questione tecnica o di modellistica istituzionale, come si suole dire quando si parla di queste tematiche. Si tratta di riaffermare il federalismo come differente modo di concepire le relazioni, i processi decisionali e la strutturazione del potere politico. Si tratta, detto in altri termini, di ripensare radicalmente il rapporto tra l’uno e i molti, andando definitivamente oltre gli angusti confini della sovranità statale.
Abbiamo già parlato dei limiti e degli errori di prospettiva di chi ha pensato l’Europa federale alla maniera di un Super-stato. Occorre oggi, allo stesso tempo, ripensare radicalmente anche un’altra ipotesi che in questi anni ha circolato con forza, tra gli europeisti più convinti, il federalismo multilevel. Il multilevel, di fronte alla crisi della governance europea, va ridefinito a partire dai movimenti sociali e dalle istanze di autogoverno territoriale. Le città e le metropoli devono oggi ambire a scavalcare o aggirare lo Stato nazione. Solo in questo modo uno spazio europeo potrà essere preservato, valorizzato o esteso “dal basso”. Le città, le metropoli, i comuni devono ambire a collegarsi tra di loro, concependosi come nodi di una fitta RETE DI AUTOGOVERNO. Devono dare vita a federazioni, alleanze, leghe (di cui l’Europa era ricca agli inizi della modernità) che rompano i filtri imposti dagli Stati nazione ed aprano canali di contrattazione diretta con le istituzioni dell’Unione Europea.
Per realizzare questo obiettivo occorre ripensare alla radice la logica top\down tipica della modernità. Sono le città e i livelli locali di governo che semmai devono delegare ad istanze di governo condiviso alcune delle loro prerogative e competenze, non viceversa.
Con ciò non intendiamo in alcun modo promuovere istanze localiste. Il localismo, al pari dello Stato, concepisce il territorio come uno spazio chiuso, segnato dalla naturalità dei suoi confini. Esso rappresenta l’altra faccia di una stessa medaglia. Il territorio, al contrario, va inteso come uno spazio dinamico, aperto, cangiante, all’interno del quale vanno fatte proliferare molteplici istante di autogoverno. Il territorio viene continuamente ridisegnato dalla società che lo attraversa. Lo stesso concetto di cittadinanza va pensato a questo livello.
Noi pensiamo quindi che sia arrivato il momento di OCCUPARE nuovi spazi politici in grado di negoziare, dal basso, le pratiche di governo. FEDERARE LE ESPERIENZE DI AUTORGANIZZAZIONE DEL TERRITORIO, trasformarle in COSTITUENTI SOCIALI capaci di progettualità e di lotta. Gli stessi amministratori locali dovrebbero utilizzare il loro ruolo di rappresentanti per dare spazio e capacità contrattuale a queste esperienze.
Per fare in modo che il dentro e il fuori dell’istituzione diventi un punto di contraddizione e di sedimentazione che duri nel tempo e che si diffonda nello spazio. Ben oltre la partecipazione, occorre essere coscienti che il problema oggi è diventato quello della RIFONDAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO.
Punto 4.
DEBITO PUBBLICO E AUSTERITÀ: IL SACCHEGGIO DEI SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Dietro i programmi di austerità e di taglio alle spese sociali, è nascosto un inganno: quello di far credere che l’attuale crisi sia causata dall’ingrossamento dei debiti pubblici degli Stati, a loro volta gravati da un eccesso di spesa sociale. E’ vero il contrario: è lo smantellamento dei servizi sociali e la riduzione dei salari ad aver lasciato campo libero all’indebitamento privato delle famiglie, a un modello di sviluppo fondato sulla finanziarizzazione dell’economia, sulla rendita e sul profitto di breve periodo. Gli Stati, soccorrendo le banche private senza alcuna contropartita, hanno portato i propri bilanci al collasso. Non solo: la progressiva e incondizionata abdicazione del pubblico al ruolo di pianificatore ha spianato la strada alle strategie di conquista delle élite economiche e finanziarie che, prescrivendo la cannibalizzazione dei diritti, lo sfaldamento del welfare e il saccheggio delle risorse naturali e comuni, hanno sistematicamente preso in ostaggio le scelte politiche. Oggi si ritiene che la causa della malattia (la precarizzazione del lavoro, i taglio ai servizi sociali, il contenimento dei salari, l’aumento delle diseguaglianze e delle devastazioni ambientali) sia la medicina da somministrare al malato. C’è da escludere che ne uscirà vivo. Soprattutto il Pubblico Statale ha smesso da tempo di essere quello che pensiamo: in questa situazione paradossale lo Stato è diventato il garante degli interessi privati e i cittadini i prestatori di ultima istanza di chi li sta saccheggiando.
A completare questo rovesciamento della realtà, per il quale le vittime devono sentirsi in debito con i loro persecutori, ci pensano i programmi di austerità che stanno precipitando sui nostri territori: i piani di risanamento della spesa pubblica altro non sono che una pistola puntata alla tempia degli Enti Locali. Indebitati a causa degli stessi meccanismi perversi che mettono in ginocchio i bilanci dello Stato, svendono gli ultimi pezzi di territorio e di patrimonio, privatizzano servizi pubblici, falcidiano i servizi sociali e ogni brandello di welfare rimasto nelle loro mani. Eppure bisogna dire che lo spaventoso debito accumulato da Roma Capitale è l’altra faccia dell’arricchimento degli speculatori e dell’impoverimento dei romani. Invece di fermare questo circolo vizioso, ci si impegna per alimentarlo: sulla città di Roma ricadrà il ricatto della dismissione e della privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali, con la conseguenza, del tutto scontata, di una riduzione della qualità e del peso dei servizi collettivi, di un aumento delle tariffe e di una spinta ulteriore alla precarizzazione del lavoro. In nome di una presunta efficienza (tutta da dimostrare), i romani pagheranno la totale inefficacia di questo modello. Le privatizzazioni “a orologeria”, d’altronde, si pongono obiettivi di mera sopravvivenza economica (oltretutto con risultati catastrofici per le casse comunali), senza contemplarne l’efficacia per la collettività in termini di miglioramento della qualità della vita.
Punto 5.
NUOVI PRINCIPI PER I SERVIZI COLLETTIVI: VERSO UNA DEMOCRAZIA DEI BENI COMUNI
Occorre ripartire da un AUDIT COLLETTIVO DEL DEBITO DI ROMA CAPITALE. Riprendere in mano il bilancio comunale, attraverso un processo pubblico che smascheri il debito illegittimo creato a danno dei residenti. Una commissione permanente di cittadini che si occupi di “vivisezionare” il debito pregresso per capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene; per prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori. In secondo luogo, la commissione deve, oltre che rifiutare la dittatura del pareggio di bilancio e del patto di stabilità, assumersi il compito di reinterpretare l’idea di “sviluppo” della città, introducendo una NUOVA FILOSOFIA fondata su tre principi.
Il primo dice che i parametri che misurano la crescita economica (Pil) hanno perso ogni credibilità nel fotografare lo stato di salute di una comunità. L’innalzamento del livello dell’istruzione e della salute, la qualità della democrazia, l’impronta ambientale dei sistemi produttivi, la consistenza delle reti sociali, la riduzione del livello delle disuguaglianze, la conciliazione tra vita e lavoro: questi ed altri parametri devono essere assunti a pieno titolo quali indicatori dello sviluppo della città. Allo stesso modo il criterio per valutare l’efficienza dei servizi collettivi non può essere unicamente quello della riduzione dei costi e l’aumento dei margini di profitto, ma quello che misura l’allargamento della cittadinanza sociale, l’uguaglianza nell’accesso e la vivibilità della città.
Il secondo principio dice che il finanziamento dei servizi collettivi non può figurare come una spesa, un aggravio da ridurre e razionalizzare: questo pensiero dominante è solo un mezzo per stritolarli e renderli disponibili al saccheggio dei privati. I servizi non di mercato così come i beni che appartengono a tutti, sono la condizione per lo sviluppo di un’economia fondata sulle relazioni sociali, sulla conoscenza e sulla sostenibilità ecologica e, al tempo stesso, la remunerazione per quelle attività che rendono più ricca la società aumentando la qualità della vita, senza essere orientate dall’esclusiva ricerca del profitto. Per questo, lungi dall’esser considerato un costo, il loro finanziamento deve figurare come un INVESTIMENTO COLLETTIVO.
Il terzo principio di questa nuova filosofia afferma che il principio di sussidiarietà deve essere completamente rovesciato. Fino ad ora si è pensato che dove non arriva il pubblico, si deve lasciare al privato, e dove non arrivano entrambi, si deve lasciare alla società civile. Questa idea ha visto nel sociale un residuo dell’azione di governo e un modo opportunistico per scaricare verso il basso le inefficienze dei servizi e i costi che il pubblico non si vuole più sobbarcare.
In quest’ottica dobbiamo affermare UNA NUOVA GERARCHIA: i servizi e i beni pubblici (acqua, energia, trasporti, salute, istruzione, ecc.), così come il territorio (inteso come “suolo” ma anche come risorsa alimentare), e, perché no, la moneta, sono ISTITUZIONI e BENI COMUNI, e come tali, devono rispondere ad una logica gestionale e ad uno statuto proprietario radicalmente deversi. Rompere lo steccato che separa gli esperti dai non esperti, gli erogatori del servizio dai fruitori, i venditori dai clienti. Occupare gli spazi lasciati vuoti per il saccheggio da parte dei privati, per una ri-democratizzazione radicale che vede nei cittadini, nei lavoratori e nei fruitori che si organizzano insieme, i protagonisti di inedite modalità di gestione e di una nuova forma di PROPRIETÀ che superi la falsa alternativa tra pubblico e privato. Sono per noi i beni comuni, e non il pareggio di bilancio, a dover essere costituzionalizzati ed inseriti negli statuti degli Enti Locali.
In questa nuova filosofia non c’è posto dunque per la tirannia del privato, ma neanche per l’abulia del pubblico che esprime modi di organizzazione centralizzati e poco aperti alle trasformazioni, di conseguenza più fragili e sostanzialmente antidemocratici.
La generazione distribuita dell’energia attraverso fonti rinnovabili, i gruppi di acquisto solidale, le reti di scambio e riuso di beni e servizi, gli orti di quartiere, l’autogestione degli spazi culturali e sportivi, non sono solo esempi di sistemi locali distribuiti, aperti e interconnessi, capaci di mettere a valore competenze, di essere flessibili e accessibili su scala territoriale. Devono per noi diventare presidi di DEMOCRAZIA SOSTANZIALE e di PIANIFICAZIONE DECENTRATA dell’intera città.
Punto 6.
MUTUALISMO E REDDITO DI BASE CONTRO IL MERCATO DELLA CARITÀ
La crisi, come c’era da aspettarsi, sta aumentando a dismisura la domanda di ammortizzatori sociali e di assistenza. Al contempo però, a causa del blocco della spesa sociale dovuto ai rigidi vincoli di bilancio, questa domanda rimarrà drammaticamente inevasa, alimentando il declassamento e l’ulteriore impoverimento di vasti strati sociali. L’esaurimento dei risparmi privati unito al de- finanziamento dei programmi di assistenza, comincia sempre più a far precipitare la situazione costringendo le persone alla solitudine e all’indebitamento. Anche in questo ambito, il federalismo esistente, in questo caso quello fiscale, afferma di voler devolvere le competenze agli enti locali, ma in assenza di fondi nazionali da trasferire perché precedentemente svuotati, con la riduzione imposta alla spesa locale e soprattutto, in mancanza della fissazione di livelli essenziali che valgano per tutti, finirà per marginalizzare gli interventi. Con conseguenze pesanti: lo scaricamento sugli utenti del costo dell’assistenza, l’individualizzazione delle prestazioni e la colpevolizzazione dell’assistito. La mancanza di risorse economiche dei cittadini, quando non verrà piegata al ricatto di un reinserimento lavorativo ad ogni condizione, verrà trasformata in un caso da medicalizzare o da trattare come problema di ordine pubblico.
In questo quadro Roma Capitale si appresta a proporre un misto di familismo, spirito caritatevole e opportunità per il mercato privato. Il welfare locale, oramai strozzato dall’assenza di risorse, verrà diviso tra una parte di servizi completamente privatizzati alla ricerca di utenti disposti a spendere i propri soldi sul mercato, ed una componente residuale lasciata in mano alle organizzazioni compassionevoli o ad un Terzo Settore completamente umiliato nelle sue prerogative, col solo fine di gestire i casi emergenziali.
Di fronte a questo scenario, due sono le controtendenze da immaginare: la prima è quella che punta alla ridefinizione dal basso dei livelli essenziali per una vita dignitosa, a partire dai quali erogare fondi per un REDDITO DI BASE, incondizionato e universale, che garantisca autonomia di scelta alle persone e consenta l’accesso ai servizi socio-assistenziali come diritti sociali e non concessioni caritatevoli. La seconda è quella di resistere nell’immediato allo scenario di impoverimento delle condizioni di vita, con pratiche collettive di MUTUALISMO URBANO, attraverso gruppi di acquisto collettivo, occupazioni abitative, dispositivi di autoformazione, recupero degli spazi della città lasciati vuoti dalla rendita immobiliare e da destinare alla produzione di cultura indipendente e alla socialità. Solo l’organizzazione comune fa uscire dalla solitudine e dalla paura, superando al contempo la condizione dell’assistito.
Punto 7.
UNA NUOVA IDEA DI SVILUPPO URBANO
Le pratiche collettive del mutualismo urbano possono fare anche di più: aiutarci a costruire un’alternativa all’attuale immagine di Roma. Dobbiamo uscire fuori, innanzitutto, da quello spazio indefinibile, dispotico e autoritario che è stato possibile realizzare solo cancellando, insieme alla cultura del progetto, la stessa capacità di pensare alla città come forma collettiva per eccellenza. Roma, come altre città, è letta unicamente come soggetto economico. Da classificare secondo la sua capacità competitiva per tentare, così, d’entrare nelle hit del mondo. Roma vive dentro un paesaggio inedito in cui, insieme alla trasformazione delle forme economiche e produttive, è mutata l’idea stessa di urbanità che, tracimando, ha invaso la sua rappresentazione nell’immaginario collettivo. Roma dal 1993 al 2008, ha visto il proprio territorio bruciato, per oltre il 12%, dall’urbanizzazione. Come dire tre volte l’area urbana milanese. Non c’è quindi da rimettere a posto le cose, c’è da trovare nel corpo della città, vecchi e nuovi posti. Sancendo la fine di un modello che affida alla cultura il ruolo di catalizzatore di investimenti e risorse finanziarie per dare impulso alle trasformazioni urbane ed alle “valorizzazioni“, diminuendo la disponibilità della cultura per fasce sempre più vaste della popolazione.
A Roma un legame strettissimo lega tra loro, da sempre, finanza, immobili e sviluppo urbano. La crisi finanziaria ha svelato che è a questa “triade” che dobbiamo la nascita di una specifica questione territoriale romana. Non è una questione urbanistica. Dobbiamo immaginare un nostro progetto che faccia della giustizia sociale il motore della crescita urbana: opponendoci alle grandi opere, costruendo nel costruito, tirando una bella riga sul consumo del suolo, scoprendo i nessi tra esperienze sociali e pratiche di “rammendo territoriale”. Per aprire spazi pubblici, facendoci largo tra il tanto costruito, aggiungendo vuoto a vuoto da reinventare continuamente, per intraprendere un viaggio che ci faccia riconoscere l’abitare come bene comune. Iniziando a varcare, con le cinquantamila famiglie che oggi non godono del diritto alla casa, le soglie delle (cinque volte più numerose) case tenute vuote. Riportare i tanti che sono stati costretti ad abbandonare la città, per “densificarla”, non attraverso continue operazioni di rendita, ma a partire dal ROVESCIAMENTO DELLE POLITICHE DI DISMISSIONE DEL PATRIMONIO PUBBLICO, il quale va reinventato aprendolo a NUOVE FORME DELL’ABITARE. Decidiamo di fare a meno di una tecnica che vuole dominare la natura. Puntiamo a produrre nuove mappe, dove i capisaldi vengono ad essere rappresentati dal “dominio del rapporto tra natura e umanità”. Pensare alla riconversione di quello che c’è, abbandonato o meno che sia, sperimentando pratiche di ricostruzione dell’immagine urbana che si contagino tra loro.
Punto 8.
DAL GOVERNO ILLUMINATO ALLA RESTAURAZIONE: UNA REPUBBLICA CONTRO LA CORRUZIONE
L’amministrazione della città di Roma è stata per molto tempo pensata, e presentata, come un vero e proprio “laboratorio”. Non c’è dubbio, infatti, che i governi di centrosinistra nei primi anni Novanta abbiano chiuso quel lungo medioevo che aveva segnato gli anni Ottanta romani: un misto di affarismo spregiudicato unito, per giunta, alla chiusura più totale nei confronti delle innovazioni postindustriali. Questo, da una parte, è stato possibile ripensandolo sviluppo produttivo e il sistema dei servizi attraverso la valorizzazione dell’economia della conoscenza e della cultura e in questo modo rispondendo alle esigenze della nuova composizione del lavoro che si stava affermando nella città. Dall’altra, stabilendo un rapporto maggiormente aperto alle dinamiche della cittadinanza attiva, provando ad interpretare e a riconoscere, seppur parzialmente, le molteplici esperienze di autogestione e di partecipazione che si stavano diffondendo sull’intero tessuto urbano.
Tuttavia, occorre dire che queste esperienze di “amministrazione illuminata” hanno ben presto lasciato il terreno della sperimentazione, alla “santa alleanza” con il grande capitale immobiliare e dello spettacolo. La tiepida apertura dell’amministrazione comunale alla società attraverso la messa a punto di moderni sistemi di governance e di sviluppo urbano decentrato, si è nel giro di poco tempo richiusa: la logica della rendita assieme a quella dei Grandi eventi hanno lasciato intravedere il presentarsi di un nuovo potere imperiale, insensibile ai nuovi squilibri sociali e alle richieste di diffusione della decisione. Sono state proprio queste latenti ma esplosive contraddizioni ad aver preparato il terreno all’odierna Restaurazione dell’amministrazione del sindaco Alemanno.
In altre parole, le pur brevi esperienze di “laboratorio amministrativo” della città sono degradate in poco tempo nell’autoreferenzialità, e questa, nel dilagare della corruzione degli ultimi tempi.
Come interrompere il ciclo e come fare in modo che non si riproponga nuovamente? La storia recente ci mostra che non si risponde alla domanda affidandosi semplicemente a nuovi “amministratori illuminati”. Bisogna fare altro. Innanzitutto occorre superare il principio della rappresentanza intesa unicamente come delega, così come quello della sua sorella gemella, la partecipazione, utilizzata troppo spesso dagli amministratori per controllare le istanze sociali e per salvare dalla delegittimazione gli istituti della rappresentanza in crisi. I mandati devono essere revocabili e quindi sottoposti alla condivisione comune. Dall’altra parte è necessario moltiplicare e dare potere alle ISTITUZIONI AUTONOME (comitati, gruppi d’interesse, associazioni, sindacati, comunità, esperienze di autogestione, ecc. ecc.). Roma deve diventare una REPUBBLICA, ovvero il prodotto di una pluralità di poteri costituenti che si associano o federano nel governo condiviso. Solo moltiplicando il potere, tenendo sempre aperto il rapporto tra istanze di governo e istanze conflittuali, è possibile scongiurare la corruzione. Senza un assetto istituzionale che riconosca la molteplicità dei poteri e dei contropoteri di cui è composta una città come Roma, la DEMOCRAZIA DEI BENI COMUNI rimarrà niente di più che un misero slogan elettorale.
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