di Andrea Bagni, tratto da www.democraziakmzero.org
Ore 10.20, compito in classe. Uno dei temi nasce dall’assemblea dello scorso anno, durante l’occupazione. Argomento dell’incontro, più o meno, Che ce ne facciamo oggi della politica e della democrazia?
Il comitato studentesco aveva allora invitato di tutto: uno del pdl-giovani, due di Casa Pound e del Blocco studentesco; uno dei giovani pd e due del movimento “extraparlamentare”. Format televisivo: tutti maschi gli oratori, una ragazza a passare il microfono.
Questo è il mondo in cui crescono. Un recinto da spezzare, dell’immaginario. Quello del pdl parla di meritocrazia e rigore. Una ragazzina del biennio interviene dal pubblico per dire in modo buffo, timido e insieme spavaldo, Ma allora il figlio stra-bocciato di Bossi consigliere regionale, e quelle donne in parlamento che sono state prima a mostrare il culo in tivù…. Uragano di applausi. Ma il giovane berlusconiano non si scompone: io non li avrei votati ma il popolo li ha eletti, in democrazia funziona così. Quando quello di Casa Pound fa un elogio appassionato dello stato etico, che esprime la comunità e la guida, gli obiettano: ma questa è una dittatura, è tornare al tempo di Stalin (dicono proprio Stalin, non Hitler o Mussolini), non è democratico. Risposta disarmante: Beh la democrazia è quella che abbiamo d’intorno, vi sembra tanto bella, c’entra qualcosa con quello di cui abbiamo bisogno? E anche lui – che aveva già detto niente soldi alle scuole private, libri gratis per i giovani, otto per mille solo allo stato – si prende un bel po’ di applausi.
Dunque da una parte il popolo che sceglie le veline e la successione dinastica (o adesso gli imprenditori di successo, Tods o Ferrari), dall’altra la nostalgia dello Stato Padre Teologico, custode e guida forte della famiglia nazionale. Un bel disastro.
Oggi che cosa scriveranno sul foglio protocollo? Non so nemmeno io bene che pensare – dunque correggere sarà interessante.
Penso alla intervista di Cassen a proposito di Democracia real ya pubblicata su Dmk0. Penso alla primavera italiana, di movimenti e referendum e Napoli e Milano. Penso anche a questo strambo referendum sul sistema elettorale che ottiene un mare di firme in piena estate. Dovessi spiegare ai ragazzi che ho davanti la campagna contro il Porcellum in nome del ritorno al Mattarellum ci sarebbe da ridere. Gli adulti parlano una lingua tutta loro e poi si stupiscono se i ragazzi li mandano a quel paese.
Ho l’impressione che la situazione italiana sia rappresentata perfettamente in un vecchio film con Albert Finney (Quinto potere), dove qualcuno si affaccia alla finestra e urla, Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più. Gli risponde immediatamente nella città un coro di incazzati…
C’è un’Italia che non ne può più e le prova tutte. Appena trova un varco nelle istituzioni e nei media ci si tuffa. Ma che fare di questo altro vasto paese, come passare dall’urlo e dal mugugno alla liberazione della parola.
Dalla Spagna real emerge un’ipotesi radicale e affascinante – dunque all’altezza della situazione, che richiede di essere radicali e attraenti. Un modello di democrazia di base un po’ alla wikipedia. Realtà locali che producono pratiche e pensieri all’interno di una rete orizzontale che farà andare avanti quei pensieri e quelle pratiche che funzionano, trovano eco, aggregano. Il comune che si forma dalla ricchezza e dalla creatività sociale, come in un processo stocastico: qualcosa che si allarga, contagia e si consolida a livelli superiori – cioè sempre orizzontali ma più larghi; qualcosa che resta locale e non diventa decisione collettiva.
Sembra un’altra democrazia, più o meno consiliare. Fluida. Dove la rappresentanza, mi pare di capire, sale per istanze territoriali via via più larghe, legata a un mandato preciso e revocabile – non quello della nostra carta costituzionale che prevede invece l’assenza di un vincolo di mandato. Perché lo prevede? Non è scavare una distanza fra elettori e eletti?
È che non si tratta della stessa democrazia. Il modello wiki-consiliare non ha bisogno di suffragio universale e non definisce in senso proprio corpi intermedi, perché tutta la costruzione resta orizzontale. Non c’è un altro, uno stato o un parlamento, con cui costruire una intermediazione. C’è piuttosto una cessione di potere, non un passaggio con andate e ritorni. La democrazia costituzionale – quella fondata su elezioni e suffragio universale – non è integrata o alimentata ma direi sostituita. I rappresentanti, dunque, non hanno da giocare nessun altro gioco in uno spazio diverso, istituzionale, che giustifichi l’assenza di vincolo di mandato. Le istituzioni sono altre, radicate nella società, diffuse. La rappresentanza vicina e controllabile.
Penso che alle mie ragazze e ai miei ragazzi piacerebbe, ma sarebbe anche straordinariamente impegnativo. Loro si accendono ogni tanto collettivamente, ma di restare accesi costantemente direi che in genere non ne vogliono sapere. Guai cercare – almeno nella mia scuola – di rendere permanente, “istituzionalizzare”, la loro partecipazione. Tutt’al più si possono aprire spazi, creare condizioni, dare garanzie, per un’attività collettiva che riempirà quei luoghi quando arriva il momento – a volte per noi inaspettato, malgrado le tradizioni novembrine. Ho l’impressione che non sia del tutto diversa la mobilitazione della società. Da febbraio in poi aspettavamo piazze incazzate 24 ore su 24. Speravamo in una spallata dei movimenti, dei comitati, delle donne. Sono arrivate vittorie bizzarramente istituzionali: elezioni amministrative, ballottaggi, referendum. La nostra Puerta del Sol, il voto.
È che quello spagnolo a me sembra un ottimo modello per esprimere la vitalità democratica di una società, la sua dimensione costituente. Ma non sono sicuro esaurisca la sua vita e la sua struttura costituzionale. Forse mi spaventa anche l’idea di dare per morta e lasciar perdere la rappresentanza che esce dalle elezioni “una testa un voto” – anche se quella testa è oggi un notevole casino, oggetto di attenzioni interessate, target televisivo. E se non si cancella dall’orizzonte ci si deve fare i conti, non si può pensare di vivere e crescere come in una vita parallela, indifferente.
In fondo non è detto che venga fuori un disastro, anzi. Perché in questa primavera italiana c’è stato anche altro da comitati e movimenti. C’è stata un’Italia grande di singole e singoli, orfani di un po’ tutto, figli di una solitudine densamente popolata. Un’Italia civile e democratica che è partita in massa dalla mia scuola il 13 febbraio delle donne. Una cosa mai vista. Gente insospettabile di impegno politico, che usciva per andare a una manifestazione probabilmente per la prima volta nella sua vita. Quella del film di Finney. Anche di ragazze e ragazzi era piena Firenze. Roba da social forum… E poi c’è il mondo Fiom insieme a quello Zagrebelsky Ginsborg Flores d’Arcais; insieme al popolo viola, l’ex noBday, il 16 ottobre. C’è insomma anche una società che in nome della democrazia è capace di non accettare il comando “naturalizzato” della Fiat o della Bce. Allora le questioni istituzionali, anche la cultura liberal-democratica stile Micromega o Libertà e Giustizia, sono qualcosa con cui dialogare.
Oggi, forse, c’è una divaricazione così radicale del capitalismo dalla democrazia che si possono trovare consonanze con mondi che non vengono per niente dall’anticapitalismo. L’esigenza di confrontarsi, trovare mediazioni e terreni comuni non vale solo per la rappresentanza politica “condannata” a compromessi: vale anche per la società civile e politica, e chiede di inventare e praticare linguaggi inclusivi, per creare spazi pubblici di confronto. Una rivoluzione anche per noi stessi, intima come tutte le rivoluzioni significative.
È chiaro che la democrazia costituzionale ha bisogno di nuovi anticorpi e corpi intermedi. E che deve ripensare la dimensione della partecipazione. Non come tecnica amministrativa, strategia di copertura per decisioni prese altrove (vedi la Firenze di Renzi). Come una diffusa agorà in cui ritrovare la dimensione esistenziale della politica. Di sicuro non possono più essere i partiti i luoghi della connessione, né quelli di oggi, comitati elettorali per yesman e business class, né quelli di un tempo, organizzati a somiglianza degli stati e degli eserciti. La sfera delle decisioni va allargata e abbassata, come si è allargata e abbassata la sfera delle competenze. E quel modello wiki-polis dei movimenti deve in qualche modo contagiare i soggetti politici nuovi, che non possono essere gerarchici, piramidali, di professionisti. Ma la società è più larga e complessa della somma degli individui, così come della somma dei comitati. E lo spazio della mediazione e del confronto, la definizione delle regole, resta fondamentale. Io tutto questo lo chiamo ancora democrazia costituzionale, nel senso in cui in un saggio di molti anni fa usava il termine Pietro Scoppola: non la definizione di un risultato da raggiungere di cui la democrazia sarebbe lo strumento – la Rivoluzione o l’Ordine salvifico divino -, ma l’accordo fra diverse/i intorno a un processo da garantire di liberazione permanente. Un processo senza garanzia di prodotto, nel quale conta la qualità dello spazio discorsivo, attraversato da corpi fluidi e “sessuati”, rappresentanza e autorappresentazione.
La liberazione resta un processo permanente, ma tutt’altro che lineare.
Più di una società rivoluzionata è interessante una società rivoluzionaria.
E adesso ricreazione.