Taybeh- Efraim, 10/08/2010
Una casa con quattro stanze…
Incontrando la storia per strada, tra Ramallah e Nablus.
I nostri compagni Stefano e Valentina scrivono dalla Palestina
Quante stanze ha la vostra casa?
Sì, provate un po’ a pensarci; diciamo poi che nella vostra casa vi siano quattro stanze
Arriva una persona e, con la forza, contro ogni regola, occupi tre delle vostre stanze: voi come reagireste? Sareste contenti? Il bel problema è che questa non è una storia inventata!
Dopo la seconda guerra mondiale il popolo ebreo occupa il 78 % del territorio della Palestina storica, e lascia solo il 22 % al popolo Palestinese. 800.000 rifugiati palestinesi sono costretti a lasciare i loro villaggi, e vivono, tuttora, in 66 campi profughi.
Pensate se, ancora, dopo 20 anni, il vostro nuovo vicino forzato, occupasse anche la quarta stanza: siete sotto il suo controllo. Per girare nella stanza avete bisogno di un permesso; se ve ne andate è meglio, così perdete il diritto alla vostra cittadinanza.
Questo è quello che è successo con la guerra dei sei giorni nel 1967: Israele occupa militarmente anche quella piccola quarte stanza che era rimasta al popolo di Palestina.
Da quarant’anni i Palestinesi hanno una richiesta chiara, insieme a tutto il mondo arabo: lasciateci vivere almeno nella quarta stanza! Siamo stanchi, loro sono stanchi, il mondo è stanco, ci accontentiamo di questo, non certo molto.
E per arrivarci i palestinesi hanno fatto di tutto.
Nel 1988 inizia la prima Intifada: nel nostro viaggio ci viene raccontata, a Ramallah, da una persona speciale.
Siamo con L., in un tipico ristorante arabo, con le poltroncine ed una cucina fatta di salse, pollo arrosto, thé e caffè. Questa splendida signora, da 45 anni trasferitasi in Palestina, ci racconta la storia che sui giornali o sui manuali non si legge.
La prima Intifada è scoppiata in seguito all’uccisione di 8 persone a Gaza da parte di un israeliano. Scoppiò il finimondo a Ramallah (in arabo “Altura di Dio”)…ben al di là della nota guerriglia fatta di sassi contro carri armati e giovani contro soldati ben equipaggiati, la I Intifada ha rappresentato innanzitutto una vera rivolta collettiva contro l’occupazione. Un comitato centrale ‘segreto’ lasciava ai bordi delle strade volantini settimanali che venivano rapidamente presi e nascosti dalle famiglie. Pressappoco recitavano così: lunedì ci si reca al cimitero a pregare i morti dell’Intifada; martedì cercare una mamma morta tra i propri conoscenti e rendere visita alla famiglia; mercoledì visitare gli ospedali e giovedì lavorare la terra.
L. racconta che scompaiono le differenze economiche nella popolazione, l’aiuto diviene reciproco e il supporto costante.
Nonostante questa spirale di violenza la Pace è però ancora lontana, nelle quattro stanze della vostra casa. Decidete allora di sedervi ad un tavolo col vostro vicino, per provare a risolvere la situazione. Siamo ai negoziati di pace di Madrid e Oslo.
Il meccanismo diventa questo: voi, cari miei, siete dei terroristi, e non sareste capaci di vivere nella quarta stanza; allora vi si da un po’ di questa stanza, per vedere se vi comportate bene con i vicini, e poi se mai avrete la metà, o anche il 90%, della benedetta quarta stanza.
Questi accordi di Oslo sono recepiti come un vero e proprio fallimento dalla popolazione, a Ramallah crolla l’appoggio popolare e inizia una fase di scetticismo verso la politica, anche alla luce del fatto che la motivata generazione dell’Intifada viene tagliata fuori dalle trattative di Pace.
Dopo anni, accordi, scontri, tentativi falliti di trovare la Pace, la tensione rimane sempre alta, e basta davvero una piccola miccia per fare esplodere il pagliaio. Basta così una passeggiata di certo poco oculata di Sharon sulla spianata delle moschee, per scatenare, nel 2002, la seconda Intifada.
Ascoltarne il racconto all’interno di Balata Camp, un campo profughi di Nablus che ospita 25.000 persone in un km², magari da coloro che all’epoca dei fatti erano solo bambini o adolescenti fa un certo effetto. Mustafa ci svela, con le foto e con la voce, il volto dei sofferenti: impiegato con il Medical Reliefs, in uno staff di infermieri che portavano cibo e medicine sia durante l’Intifada che dopo. Eh già, dopo. Infatti Nablus, una città di 300.000 abitanti e tanta voglia di resistere (con il suo 20 % di morti e carcerati rappresenta il centro delle rivolte nella Cisgiordania), rimase completamente occupata fino al 2007. In particolare, il campo profughi di Balata Camp fu circondato e perennemente presidiato finché non è stato smantellato l’ultimo checkpoint di controllo. Il dramma dei bambini dell’epoca, ci racconta il direttore del Cultural center del campo, si rispecchia in una generazione aggressiva e violenta, con difficoltà di relazione con i genitori ed i coetanei, un tasso di dispersione scolastica elevatissimo. Il racconto di Mustafa, le sofferenze di Balata Camp, ancora una volta paradigma delle sofferenze di tutti i campi profughi. Ecco ci appare, dal basso, un racconto diverso, che mostra i traumi di lungo periodo che un popolo, e una generazione, porta con sé.
Assembramenti di abitazioni senza una apparente logica, una concentrazione di persone che spesso supera la capacità di questi campi, situazioni igieniche precarie sono il denominatore comune di queste realtà in cui le persone che vi abitano si aggrappano alla vita con tutte le loro forze.
I campi profughi, la cui soluzione rappresenta uno dei nodi da risolvere per giungere ad una conclusione pacifica del conflitto, nascondono comunque desideri e sogni, laboratori di speranza di cui i giovani che incontriamo restano i testimoni più concreti; desiderio di studiare, lavorare, incontrare, amare, insomma tutto ciò che desidera qualsiasi giovane del mondo.
Tuttavia, giovani che non dimenticano e che continuano ad avere memoria della Nak’ba (la ‘catastrofe’ che ha colpito i palestinesi), come testimoniano le fotografie sui muri delle case del campo.
Nel pomeriggio a Nablus un altro amico, Mashdry, ci fa rivivere per quello che può e ancora si vede (il centro di Nablus ancora segnato, nei suoi vicoli, dalle pallottole) tutta la drammaticità di quei momenti che hanno rappresentato e rappresentano un nuovo tentativo di riscatto del popolo palestinese. E ancora Mashdry ci dice: “non una violenza gratuita, ma quella voglia di riconquistare un diritto alla vita negato, abusato, seppellito sotto l’occupazione”.
Ma questi giorni a Nablus e Ramallah, nel cuore della West Bank, ci hanno mostrato qualcosa in più di un muro alto 8 metri che circonda la Cisgiordania.
L’assenza dello Stato palestinese. Visitare la tomba di Arafat a Ramallah, la capitale amministrativa della Cisgiordania, ci ha lasciato di stucco: un paio di poliziotti sorvegliano l’entrata del mausoleo con fucili di vecchia data, e un poliziotto disarmato ci accompagna sino alla sede, dove il silenzio e il vuoto (di persone) la fanno da padroni. Sullo sfondo, parzialmente confusi con gli altri palazzi, riusciamo ad individuare il Parlamento e la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il parcheggio di terra ed i numerosi cantieri completano uno scenario desolante, che sembra simbolo di uno Stato che non c’è.
In ultimo, una sensazione che è il timore di molti.
La Pace economica. Ramallah è una città diversa dalle altre: cantieri, pubblicità, differenziazione nell’abbigliamento, relativa disoccupazione e moltissimi progetti di organizzazioni internazionali o para-nazionali. I numerosissimi finanziamenti a questa città (non riconosciuta come capitale dai palestinesi, ma attualmente centro dell’attitità governativa) sembrano aver ridotto le impellenti esigenze sociali, ma proporzionalmente paiono aver attenuato le resistenze e le pretese dei palestinesi. È questo quanto ci segnalano Lina e Grazia, capo del dipartimento di Ricerca Legale ‘Al Haq’ che monitora il rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati: un po’ di benessere in cambio della libertà di movimento e autodeterminazione, in cambio dell’occupazione militare e del monitoraggio delle aggregazioni politiche, che svilupparono forme inedite di partecipazione e coinvolgimento nella I Intifada.
Questi sono gli spunti che ci sono arrivati dagli incontri in questi giorni, questi i piccoli pezzi di Storia che emergono dietro i volti e le persone che ci accompagnano.
Una piccola casa, le sue quattro stanze, e tante persone, fra proprietari veri o presunti, vicini scomodi, cittadini autorevoli, violenza, negoziati e Pace sperata.
Un grido univoco però ci risuona chiaro in testa: PACE per questa casa, GIUSTIZIA per le sue quattro stanze.
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