C’erano anche due maceratesi nel team “Ricucire la Pace” Pax Christi 2010 che si è recato – dal 5 al 20 agosto - in Palestina per un’attività di peace building. Stefano Casulli e Valentina Valeri, i nostri giovanissimi conterranei che hanno scelto di dare il loro contributo alla pace, hanno raccontato il loro viaggio in un dettagliato resoconto.“E’ senza dubbio difficile provare a riassumere in un articolo un viaggio di 15 giorni nei territori occupati palestinesi. Siamo partiti con un team selezionato di 9 persone: ‘Ricucire la Pace 2010′, avente il compito di raccogliere materiale e testimonianze in diverse realtà della Palestina, da Nablus ad Hebron, a Gerusalemme, Betlemme, Taybeh e molti altri vilaggi della Cisgiordania.Abbiamo viaggiato con un pulmino vivendo direttamente la realtà locale: i posti di blocco, l’attraversamento del Muro divisorio, i controlli dei militari israeliani, il contrasto tra i villaggi arabi distruttti e le verdeggianti colonie illegali israeliane in territorio palestinese.Il Muro della CisgiordaniaScrivere della realtà israelo-palestinese significa, per noi, dire la Verità. Significa raccontare quanto abbiamo visto in quelle terre e studiato nel nostro percorso di formazione, mettere assieme la voce dei testimoni, le loro sofferenze e i loro sogni, mentre spesso le notizie dei media si mostrano superficiali, parziali, ricche di pregiudizi. Soprattutto, rimuovono quel racconto diretto che la vita delle persone produce, che i muri cercano di zittire, che i potenti ignorano. Dire la Verità è una scelta politica. Una scelta di giustizia. Un dovere per chi fa informazione e per chi ‘ha visto’. “I sofferenti non ci lasceranno dormire”, si potrebbe dire parafrasando Alex Zanotelli.Vogliamo cosi provare a raccontare la Verità, convinti che si possa lavorare per la giustizia e la pace anche nel piccolo: ciascuno lo può fare, mettendo insieme contatti, sensibilizzando, prendendo posizione. C’è un popolo oppresso, quello palestinese, e un governo che opprime, quello israeliano. C’è una narrazione storica che si nutre e strumentalizza i testi sacri e una narrazione mediatica schierata in favore di un governo che si dichiara democratico e laico, ma nei fatti non lo è.Strutture militariAbbiamo visto l’ingiustizia di cittadini giudicati davanti alla corte marziale, di uno stato che non è il loro, abbiamo vissuto sulla nostra pelle l’ipossibilità di muoversi; e poi le strade divise per palestinesi ed israeliani; la nascita repentina di colonie che mangiano terra, ulivi, limoni, si approriano e gestiscono acqua, energia elettrica: servizi controllati da Israele anche in territorio palestinese. Abbiamo ascoltato storie di gente costretta a scappare a causa delle demolizioni e degli spostamenti forzati dai propri villaggi secolari. Abbiamo trovati i resti di villagi scomparsi da un giorna all’altro, incontrato i beduini arabo-israeliani che per l’ennesima volta li ricostruiscono, con dignità e voglia di resistere. Ma abbiamo anche imparato a conoscere due popoli legati alla terra in maniera vitale. Abbiamo sperimentato la splendida alterità di un mondo tanto diverso come quello arabo: accogliente, dinamico e con tanta voglia di raccontarsi. Abbiamo compreso che Hamas è molto più e molto meno di un movimento terroristico: è una realtà radicata, meno integralista di quanto si pensi, ma intransigente verso le politiche israeliane e in grado di collaborare a Gaza con altri movimenti, anche cristiani.Questa costellazione di esperienze ci ha permesso di capire che i ripetuti appelli per la pace non hanno senso se prima di tutto non si lavora per la giustizia. Non possiamo dire: “Apriamo le trattative senza condizioni”. La giustizia deve alleviare la sofferenza, consentire la libertà (di movimento, di culto, di autodeterminazione). Ciò significa abbattere il Muro e fermare gli insediamenti, innanzitutto. Per noi, lavorare per la Giustizia significa quindi dire la Verità tutta, sino in fondo. Solo allora potrà realizzarsi la Pace. Una pace che non sia pacificazione, cristallizazione di posizioni asimmetriche. Una pace giusta e vera.”Nel corso del loro viaggio Stefano, Valentina e gli altri componenti del team sono anche andati a verificare la nota dell’Ansa del 15 agosto che ha riportato la notizia dell’abbattimento del muro nella colonia di Gilo, titolando che Israele stava finalmente abbattendo il Muro che dal 2002 ha iniziato a costruire. “La notizia, ripresa da tutti i giornali, – sottolinea Stefano Casulli – ha mancato però di specificare che il menzionato muro non è quello che divide e circonda la Cisgiordania, lungo 780 Km e alto tra gli 8 e i 12 metri; infatti il tracciato dello stesso è decisamente integro e in costante allargamento. Andati personalmente sul posto indicato dall’articolo Ansa per verificare di cosa si trattasse, abbiamo constatato che il muro di cui si parlava altro non era che una serie di piccoli blocchi di cemento alti appena 2metri posti a dividere la colonia dalla vallata sottostante di Beit’Jalla, quartiere di Betlemme in territorio palestinese, Abbiamo cosi verificato che la rimozione dei blocchi a Gilo è funzionale all’ampliamento del tracciato del Muro vero e proprio, che in breve andrà a tagliare Betlemme prendendo l’intera vallata di ulivi. La costruzione è attualmente in atto e visibile”
27.8.10
Due maceratesi in Palestina alla ricerca della verità.
20.8.10
Perchè stiamo con i palestinesi? Perchè siamo ebrei!
Qualcuno ci domanda come mai stiamo con i palestinesi."Perchè issate la bandiera palestinese. Perchè sostenete la causa palestinese?" "Siete ebrei" - ci dicono - "Che state facendo?"La nostra risposta è molto semplice:E' proprio perchè siamo ebrei che stiamo con i palestinesi e issiamo la loro bandiera. E' proprio perchè siamo ebrei che esigiamo la restituzione ai palestinesi delle loro case e di tutti i loro beni.Sì, la nostra Torah ci impone di essere giusti. Siamo chiamati a camminare sulla via della giustizia. Ma cosa c'è di più ingiusto del tentativo, vecchio di un secolo, del movimento sionista di invadere il paese di un altro popolo, espellerlo e impadronirsi dei suoi beni? I primi sionisti parlavano di un popolo senza terra che sarebbe andato in una terra senza un popolo. Parole che sembrano innocenti. Ma sono completamente false.La Palestina era un paese abitato da un popolo. Un popolo che aveva sviluppato una coscienza nazionale. Se dei rifugiati ebrei fossero arrivati in Palestina senza l'intenzione di dominare, di creare uno stato ebraico, di espropriare i palestinesi e privarli dei loro diritti fndamentali, sarebbero stati accolti - ne siamo assolutamente certi - con la stessa ospitalità che i popoli musulmani hanno riservato agli ebrei nel corso della storia. Avremmo vissuto insieme come altre volte, in pace e armonia.Amici musulmani e palestinesi di tutto il mondo, per favore ascoltate il nostro messaggio. Ci sono ebrei che sostengono la vostra causa. Quando diciamo di sostenerla, non pensiamo a una qualche proposta di partizione, come quella del 1947 presentata dall'ONU, che non aveva nessun diritto di farlo. Non pensiamo a uno spezzettamento della Cisgiordania, come quello proposto da Barak a Camp David, che al massimo avrebbe reso giustizia al 10% dei rifugiati palestinesi. Noi sosteniamo la restituzione alla sovranità palestinese di tutto il territorio, compresa Gerusalemme.Quando verrà il momento, giustizia vorrà che sia il popolo palestinese a decidere se gli ebrei potranno restare sul suo territorio e in che numero. Questa è la sola via che possa portare a una vera riconciliazione.Ma noi vogliamo di più. La restituzione del territorio ai suoi legittimi proprietari non sarà sufficiente. Bisognerà che chiediamo perdono al popolo palestinese in modo chiaro e preciso: il sionismo vi ha fatto del male, ha rubato le vostre case, ha rubato il vostro paese.In questo modo proclamiamo di fronte al mondo che siamo il popolo della Torah, che la nostra fede ci impone di essere onesti, giusti e buoni.Abbiamo preso parte a centinaia di assemblee palestinesi negli ultimi anni. Dappertutto i dirigenti e il pubblico ci hanno accolto col calore dell'ospitalità mediorientale. Che menzogna quando si sente dire che i palestinesi in particolare o i musulmani in generale detestano gli ebrei. Quello che detestano è l'ingiustizia, non gli ebrei.Non abbiate paura, amici. Il male non potrà trionfare per molto tempo. L'incubo sionista è arrivato alla fine. E' esaurito. Le sue più recenti brutalità sono l'ultimo disperato sussulto di un agonizzante. Noi vedremo insieme il giorno in cui ebrei e palestinesi si abbracceranno in pace sotto la bandiera palestinese a Gerusalemme.E alla fine, quando il redentore dell'umanità verrà, le sofferenze del presente saranno sommerse da tempo tra le benedizioni del futuro.
19.8.10
Macelleria istituzionale.
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell'Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l'impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all'articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d'accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell'avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all'intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L'ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell'armata forzaleghista.Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l'intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell'agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l'anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell'ormai inevitabile showdown d'autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all'ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
17.8.10
I chicchi di melograno
Be’er Sheva, 15 Agosto 2010
Scaglie di resistenza in Palestina
I nostri compagni Stefano e Valentina scrivono dalla Palestina
Il melograno è simbolo di fertilità e speranza. Ha al suo interno tanti chicchi diversi che, sebbene avvolti da una pellicola amara, sono dolcissimi.
Cercare frammenti di dolcezza in un frutto aspro…
Girare la Palestina con un pullmino ti porta a vedere in breve tempo i muri creati da un regime di apartheid fondato sulla diseguaglianza politica e giuridica, sull’organizzazione meticolosa di una pulizia etnica del popolo della West Bank (la Cisgiordania), sulla razionale politica di esclusione della minoranza arabo-israeliana e la reclusione degli abitanti della Striscia di Gaza.
Potremmo provare a raccontare, come pulci all’interno di uno stringente reticolato, cosa significa ‘abitare’ questa Palestina. Segnalare così i punti di contatto tra queste politiche discriminatorie e ingiustificabili con la vita delle singole persone. Lo faremo.
Oggi però abbiamo deciso di condividere l’altra faccia della medaglia: la Palestina che resiste, quel contro-potere quotidiano fatto di volti e volontà, percorsi comuni e speranze. E abbiamo deciso di provare ad indagarne i metodi, in tutta onestà, per cercare gli spiragli e le proiezioni future di una lotta tutta nuova, nella convinzione che il nostro esaltare ‘l’ottimismo della volontà’ di chi non si arrende rappresenti una scelta politica ben specifica.
Il radicarsi dell’occupazione militare nei territori palestinesi, la maggiore presenza di coloni nelle aree circostanti ciascuna singola municipalità e l’assiduo controllo delle risorse (acqua, corrente elettrica, campi coltivabili) operato dalle forze israeliane anche nelle zone di competenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, hanno prodotto un peggioramento delle condizioni di vita generali e la scomparsa delle garanzie per molti abitanti. Sempre più frequentemente arrivano ordini di sgomberi e demolizioni senza giusta causa: Omar, autista di pullman a tempo pieno, ci porta a vedere l’abitazione che dovrà demolire con le proprie mani, mentre Joseph ci mostra a Gerusalemme Est la casa sotto cui manifesta: era la sua, adesso è un avamposto dei coloni al centro di un quartiere arabo. Quanti Joseph e quanti Omar lungo il nostro cammino…
Ecco quindi che piuttosto che di ‘occupazione’, termine opportuno per definire la complessiva situazione politica, dovremmo parlare di ‘micro-ingiustizie’ che si ripercuotono sulla vita di tutti i giorni: l’assenza di servizi e prospettive nei campi profughi, la mancanza d’acqua nei villaggi beduini della Valle del Giordano, l’assenza di luce elettrica a Sud di Hebron, le ridottissime possibilità di lavoro per giovani e donne impossibilitati a girare liberamente per la loro terra.
Scavando dentro queste situazioni, scopriamo che laddove c’è una difficoltà la vita risorge, resiste a ciò che vuole annullarla. E così si trova che a Beil Jibrin, campo profughi di Betlemme, nasce un centro sociale gestito da giovani volontari quindicenni e denominato ‘Andala’, il nome del bambino-fumetto palestinese che guarda il dramma della propria terra voltando le spalle al lettore; o a Nablus, nel campo di Balata Camp, sorge un centro culturale per accogliere la generazione di ragazzi che ha visto solo guerriglia e divise militari; o a Qalandia, un campo profughi di migliaia di abitanti, dove Salim ed alcuni residenti del luogo hanno messo in piedi una cooperative di scarpe che vende in Europa tramite il Commercio Equo&Solidale.
In particolare, contrariamente a quanto dicono i luoghi comuni su queste terre, protagoniste di questa rinascita sembrano essere le donne: nelle tante cooperative sorte negli ultimi anni, dal Negev fino al centro di Ramallah, dove la nostra amica Rosa ci conduce all’interno di una fabbrica di borse e gioielli artigianali. At-Tuwani, a riguardo, ne è la riprova: una giovane donna decide di mettere in piedi una cooperativa femminile che lavora e discute in un villaggio di 250 abitanti circondato da una colonia di ebrei ortodossi e un avamposto illegale; questo percorso collettivo le porterà ad aprire un piccolo negozietto artigianale e ad essere protagoniste di un limpido esempio di lotta nonviolenta: dinnanzi ai soldati israeliani, pronte anche alla prigione, impediranno la distruzione dei pali elettrici del villaggio. Sarà questo l’inizio di un cammino nonviolento che sta garantendo la sopravvivenza del villaggio.
Ma donne sono anche i membri di Macsom Watch, un gruppo di ebree israeliane che presidiano i checkpoint col fine di tutelare i palestinesi che vi vengono fermati.
Le battaglie quotidiane vengono combattute in diversi villaggi con manifestazioni e presidi. A Bil’in, famosa realtà ‘nonviolenta’ che ogni venerdì marcia contro l’esistenza del Muro, sono i lacrimogeni ad allontanare dei manifestanti nervosi, dando vita ad una guerriglia che sembra perdere i tratti della nonviolenza. A Sheik Jarra sono gli stessi israeliani a protestare contro l’occupazione della Palestina, ed i canti e le musiche in arabo ed ebraico ci lasciano intravedere un mondo che sa parlare entrambe le lingue. Due facce di una stessa medaglia: la voglia di cambiare, la frustrazione e sensazione di non farcela.
Sì, la sensazione è che le piccole resistenze quotidiane non riescano a scardinare un sistema di potere capace di creare gli anticorpi ai propri batteri: arrestare i più ‘pericolosi’, filmare i manifestanti, dividere le forze politiche, impedire la comunicazione e l’informazione; e così sempre meno persone aderiscono a manifestazioni o a proteste collettive, per dedicarsi alla propria vita. Prospettive politiche dalla società civile? Poche, pochissime.
Tuttavia questa costellazione di esperienze si va ad unire alle voci mute dei beduini che ricostruiscono per la decima volta il loro villaggio dopo l’ennesima demolizione dell’esercito, o di coloro che si legano agli alberi d’ulivo dei loro terreni per evitare che siano mangiati dal Muro in costruzione; soprattutto, richiamano alla mente le milioni di persone che decidono di restare in Palestina, per amore verso questa terra e desiderio di un futuro libero da occupazioni, per legami affettivi e senso di giustizia.
Già, la giustizia. Per la giustizia lavorano i volontari che operano nei campi estivi ad Artas, Taybeh ed i villaggi più sperduti del mondo. Per la giustizia operano i preti, i giornalisti, gli avvocati che si mettono a disposizione per la causa degli oppressi.
Non c’è pace senza giustizia. Quella si chiama pacificazione, semplificazione. La pace fondata sul sopruso, intrisa di violenza, asimmetrica, non è pace. È ingiustizia cristallizzata, è morte di una società equa e in grado di garantire tutti.
Non c’è pace senza giustizia. Lo dicono gli Omar, gli Joseph, ad Aboud come ad Hebron, a Nablus come a Gerusalemme.
Lo dicono i giusti. In Israele come in Palestina.
Team di Peacebuilding ‘Ricucire la Pace 2010’
Per informazioni: 00972.5431.76361
Una casa con quattro stanze.
Taybeh- Efraim, 10/08/2010
Una casa con quattro stanze…
Incontrando la storia per strada, tra Ramallah e Nablus.
I nostri compagni Stefano e Valentina scrivono dalla Palestina
Quante stanze ha la vostra casa?
Sì, provate un po’ a pensarci; diciamo poi che nella vostra casa vi siano quattro stanze
Arriva una persona e, con la forza, contro ogni regola, occupi tre delle vostre stanze: voi come reagireste? Sareste contenti? Il bel problema è che questa non è una storia inventata!
Dopo la seconda guerra mondiale il popolo ebreo occupa il 78 % del territorio della Palestina storica, e lascia solo il 22 % al popolo Palestinese. 800.000 rifugiati palestinesi sono costretti a lasciare i loro villaggi, e vivono, tuttora, in 66 campi profughi.
Pensate se, ancora, dopo 20 anni, il vostro nuovo vicino forzato, occupasse anche la quarta stanza: siete sotto il suo controllo. Per girare nella stanza avete bisogno di un permesso; se ve ne andate è meglio, così perdete il diritto alla vostra cittadinanza.
Questo è quello che è successo con la guerra dei sei giorni nel 1967: Israele occupa militarmente anche quella piccola quarte stanza che era rimasta al popolo di Palestina.
Da quarant’anni i Palestinesi hanno una richiesta chiara, insieme a tutto il mondo arabo: lasciateci vivere almeno nella quarta stanza! Siamo stanchi, loro sono stanchi, il mondo è stanco, ci accontentiamo di questo, non certo molto.
E per arrivarci i palestinesi hanno fatto di tutto.
Nel 1988 inizia la prima Intifada: nel nostro viaggio ci viene raccontata, a Ramallah, da una persona speciale.
Siamo con L., in un tipico ristorante arabo, con le poltroncine ed una cucina fatta di salse, pollo arrosto, thé e caffè. Questa splendida signora, da 45 anni trasferitasi in Palestina, ci racconta la storia che sui giornali o sui manuali non si legge.
La prima Intifada è scoppiata in seguito all’uccisione di 8 persone a Gaza da parte di un israeliano. Scoppiò il finimondo a Ramallah (in arabo “Altura di Dio”)…ben al di là della nota guerriglia fatta di sassi contro carri armati e giovani contro soldati ben equipaggiati, la I Intifada ha rappresentato innanzitutto una vera rivolta collettiva contro l’occupazione. Un comitato centrale ‘segreto’ lasciava ai bordi delle strade volantini settimanali che venivano rapidamente presi e nascosti dalle famiglie. Pressappoco recitavano così: lunedì ci si reca al cimitero a pregare i morti dell’Intifada; martedì cercare una mamma morta tra i propri conoscenti e rendere visita alla famiglia; mercoledì visitare gli ospedali e giovedì lavorare la terra.
L. racconta che scompaiono le differenze economiche nella popolazione, l’aiuto diviene reciproco e il supporto costante.
Nonostante questa spirale di violenza la Pace è però ancora lontana, nelle quattro stanze della vostra casa. Decidete allora di sedervi ad un tavolo col vostro vicino, per provare a risolvere la situazione. Siamo ai negoziati di pace di Madrid e Oslo.
Il meccanismo diventa questo: voi, cari miei, siete dei terroristi, e non sareste capaci di vivere nella quarta stanza; allora vi si da un po’ di questa stanza, per vedere se vi comportate bene con i vicini, e poi se mai avrete la metà, o anche il 90%, della benedetta quarta stanza.
Questi accordi di Oslo sono recepiti come un vero e proprio fallimento dalla popolazione, a Ramallah crolla l’appoggio popolare e inizia una fase di scetticismo verso la politica, anche alla luce del fatto che la motivata generazione dell’Intifada viene tagliata fuori dalle trattative di Pace.
Dopo anni, accordi, scontri, tentativi falliti di trovare la Pace, la tensione rimane sempre alta, e basta davvero una piccola miccia per fare esplodere il pagliaio. Basta così una passeggiata di certo poco oculata di Sharon sulla spianata delle moschee, per scatenare, nel 2002, la seconda Intifada.
Ascoltarne il racconto all’interno di Balata Camp, un campo profughi di Nablus che ospita 25.000 persone in un km², magari da coloro che all’epoca dei fatti erano solo bambini o adolescenti fa un certo effetto. Mustafa ci svela, con le foto e con la voce, il volto dei sofferenti: impiegato con il Medical Reliefs, in uno staff di infermieri che portavano cibo e medicine sia durante l’Intifada che dopo. Eh già, dopo. Infatti Nablus, una città di 300.000 abitanti e tanta voglia di resistere (con il suo 20 % di morti e carcerati rappresenta il centro delle rivolte nella Cisgiordania), rimase completamente occupata fino al 2007. In particolare, il campo profughi di Balata Camp fu circondato e perennemente presidiato finché non è stato smantellato l’ultimo checkpoint di controllo. Il dramma dei bambini dell’epoca, ci racconta il direttore del Cultural center del campo, si rispecchia in una generazione aggressiva e violenta, con difficoltà di relazione con i genitori ed i coetanei, un tasso di dispersione scolastica elevatissimo. Il racconto di Mustafa, le sofferenze di Balata Camp, ancora una volta paradigma delle sofferenze di tutti i campi profughi. Ecco ci appare, dal basso, un racconto diverso, che mostra i traumi di lungo periodo che un popolo, e una generazione, porta con sé.
Assembramenti di abitazioni senza una apparente logica, una concentrazione di persone che spesso supera la capacità di questi campi, situazioni igieniche precarie sono il denominatore comune di queste realtà in cui le persone che vi abitano si aggrappano alla vita con tutte le loro forze.
I campi profughi, la cui soluzione rappresenta uno dei nodi da risolvere per giungere ad una conclusione pacifica del conflitto, nascondono comunque desideri e sogni, laboratori di speranza di cui i giovani che incontriamo restano i testimoni più concreti; desiderio di studiare, lavorare, incontrare, amare, insomma tutto ciò che desidera qualsiasi giovane del mondo.
Tuttavia, giovani che non dimenticano e che continuano ad avere memoria della Nak’ba (la ‘catastrofe’ che ha colpito i palestinesi), come testimoniano le fotografie sui muri delle case del campo.
Nel pomeriggio a Nablus un altro amico, Mashdry, ci fa rivivere per quello che può e ancora si vede (il centro di Nablus ancora segnato, nei suoi vicoli, dalle pallottole) tutta la drammaticità di quei momenti che hanno rappresentato e rappresentano un nuovo tentativo di riscatto del popolo palestinese. E ancora Mashdry ci dice: “non una violenza gratuita, ma quella voglia di riconquistare un diritto alla vita negato, abusato, seppellito sotto l’occupazione”.
Ma questi giorni a Nablus e Ramallah, nel cuore della West Bank, ci hanno mostrato qualcosa in più di un muro alto 8 metri che circonda la Cisgiordania.
L’assenza dello Stato palestinese. Visitare la tomba di Arafat a Ramallah, la capitale amministrativa della Cisgiordania, ci ha lasciato di stucco: un paio di poliziotti sorvegliano l’entrata del mausoleo con fucili di vecchia data, e un poliziotto disarmato ci accompagna sino alla sede, dove il silenzio e il vuoto (di persone) la fanno da padroni. Sullo sfondo, parzialmente confusi con gli altri palazzi, riusciamo ad individuare il Parlamento e la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il parcheggio di terra ed i numerosi cantieri completano uno scenario desolante, che sembra simbolo di uno Stato che non c’è.
In ultimo, una sensazione che è il timore di molti.
La Pace economica. Ramallah è una città diversa dalle altre: cantieri, pubblicità, differenziazione nell’abbigliamento, relativa disoccupazione e moltissimi progetti di organizzazioni internazionali o para-nazionali. I numerosissimi finanziamenti a questa città (non riconosciuta come capitale dai palestinesi, ma attualmente centro dell’attitità governativa) sembrano aver ridotto le impellenti esigenze sociali, ma proporzionalmente paiono aver attenuato le resistenze e le pretese dei palestinesi. È questo quanto ci segnalano Lina e Grazia, capo del dipartimento di Ricerca Legale ‘Al Haq’ che monitora il rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati: un po’ di benessere in cambio della libertà di movimento e autodeterminazione, in cambio dell’occupazione militare e del monitoraggio delle aggregazioni politiche, che svilupparono forme inedite di partecipazione e coinvolgimento nella I Intifada.
Questi sono gli spunti che ci sono arrivati dagli incontri in questi giorni, questi i piccoli pezzi di Storia che emergono dietro i volti e le persone che ci accompagnano.
Una piccola casa, le sue quattro stanze, e tante persone, fra proprietari veri o presunti, vicini scomodi, cittadini autorevoli, violenza, negoziati e Pace sperata.
Un grido univoco però ci risuona chiaro in testa: PACE per questa casa, GIUSTIZIA per le sue quattro stanze.
Sapete perché hanno paura?
8 Agosto 2010, Beit Saour
Sapete perché hanno paura?
Un giorno di ordinaria occupazione a Hebron.
I compagni Stefano e Valentina scrivono dalla Palestina
Hebron (Al Qalil), la città di Abramo e dei patriarchi, rappresenta il centro più importante della Cisgiordania meridionale, nonché vero e proprio emblema del conflitto in atto: 1200 soldati israeliani (in Palestina!) e 104 checkpoints proteggono 400 coloni insediatisi nel cuore di una città abitata da più di 200 mila palestinesi.
Arriviamo nel pomeriggio, ed immediatamente i colori ed i profumi della città ci assalgono fin dentro la macchina: i clacson e le grida, i colori dei bracciali e della frutta, le musiche popolari a noi tanto inusuali e il nero degli abiti, il cigolìo del carretto guidato da un bambino e l’azzurro dei negozi tipico di questa città tutta araba. O quasi.
Lasciata l’auto, ci dirigiamo verso il mercato, e accompagnati da un giornalista locale arriviamo ben presto nel cuore di Hebron. Tuttavia, ad un tratto, i rumori vengono meno, i colori sfumano verso il grigio, le voci mutano in silenzio; il mercato si interrompe e lascia spazio ai negozi chiusi, ai checkpoint (ben 104, col compito di bloccare i passaggi e controllare i locali) alle vie coperte dai teli e grate: la città vecchia, con i suoi vicoli e le case in pietra , è abitata da quattrocento coloni israeliani (che si aggiungono ai 7.000 della periferia) che hanno occupato le case dei palestinesi col supporto del governo di Tel Aviv.
Il caso vuole che proprio al nostro passaggio vediamo arrivare 3 soldati israeliani armati che perlustrano la zona e controllano i documenti dei pochissimi negozianti presenti: l’intera colonia sta uscendo dal centro città scortata da una trentina membri dell’esercito occupante israeliano. È impressionante vedere alcune decine di persone, vestite con l’abito proprio agli ebrei ortodossi, ‘accompagnate’ fuori dal centro da militari dell’esercito. Spontaneamente esponiamo una bandiera della Pace, stridente con la situazione, la violenza percepita ed i colori che occupano la strada. Tuttavia l’imbarazzo e il rumoreggiare dei coloni di fronte alla bandiera, nonché la palese sproporzione dell’operazione sembrano svelare la paura e il disagio, oltre che la repulsione, dei passanti.
Proseguiamo e vediamo che il mercato (quasi interamente chiuso) è coperto da teli artigianali e dove possibile da vere e proprie grate: le pietre, le bottiglie e gli oggetti che vi troviamo sopra ci spiegano che i coloni dai loro palazzi lanciano di tutto sulle strade frequentate dai palestinesi. Da qui la chiusura dei negozi, generata anche da veri e propri interventi dell’esercito.
Entrati nella zona H2 di competenza ebraica (la H1 è palestinese), e saggiato il thé di uno dei pochissimi commercianti palestinesi della zona, torniamo indietro prima che faccia buio…
Ma poco prima di giungere alla macchina una voce italiana ci chiama: è un giovanissimo ufficiale italo-israeliano, di religione ebraica. Ci avviciniamo, sapendo che difficilmente ricapiterà di parlare con un soldato israeliano disponibile in terra di Palestina. “Difendere il mio popolo” “controllare che non ci siano palestinesi armati” “eseguire gli ordini dati dal mio Paese”. Queste alcune delle risposte alle nostre perplessità a proposito dell’occupazione israeliana a Hebron ed in tutta la Cisgiordania.
Tuttavia, anche in questo caso, sembra di scorgere sotto le parole dure e impostate, una consapevolezza che si fa timore, disagio. Il suo stesso allontanarsi da noi diviene d’un colpo repentino all’inasprirsi delle nostre domande si svela il ragazzo di ventidue anni, che forse ha scorto nelle nostre parole la violenza di chi accusa.
Non capita spesso, nemmeno ai volontari che costantemente frequentano queste zone, di imbattersi in incontri come i nostri, attraverso i quali abbiamo recepito in tutta la loro immediatezza la violenza di un sistema di occupazione e relazione asimmetrica. Hebron, occupata fisicamente e militarmente da coloni ed esercito, è così simbolo di un Paese, dei suoi muri visibili e invisibili, a Gerusalemme come a Betlemme, nei villaggi di At-Tuwani, Abu Dis (Betania) e Beit-Saour come nel campo profughi di Beil Gibrin, altre esperienze fatte in questi giorni.
Ma Hebron non è solo questa: le grate, i teli, i negozi chiusi, si snodano fra vie strette, antiche, che trasudano storia, cultura, fascino e mistero; la città vecchia antica di quasi 800 anni. Sarebbe un delitto non ricordarlo: storditi da questa surreale occupazione ci si dimentica di guardarsi intorno. Lo dice chiaro la nostra guida: “siamo stanchi di raccontare a voi che passate di qua solo storie di violenza, soldati, coloni: vogliamo raccontarvi della nostra storia, delle nostre radici, di cosa significano per noi questi bianchi muri sbreccati che ci circondano.”
La cultura, l’identità, lo Spirito di un popolo che vuole trionfare sulla situazione attuale; la stanchezza di essere ricordati sempre e solo come ‘gli oppressi’ prima che come persone con una loro storia da raccontare. Questo è il desiderio di chi vive nella città vecchia di Hebron: poter, un giorno, camminare per le strade del centro, e non parlare più di check point, insediamenti, controlli e assurdi divieti, ma emozionarsi a parlare della propria storia, identità, anima, che ancora si aggirano fra questi angoli fuori dal tempo, e che difficilmente possono essere fermati dai grigi tornelli di assurde barriere.
E anche noi siamo interrogati davanti a tutto questo: abbiamo il dovere e la responsabilità di costruire il proprio futuro e raccontare la propria storia.
Team di PeaceBuilding ‘Ricucire la Pace 2010’
5.8.10
Caliendo, spettacolo avvilente alla Camera.
Chi ha seguito il dibattito parlamentare sulla mozione di sfiducia al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, probabilmente e' stato afferrato da un sentimento di sgomento per aver assistito a uno spettacolo avvilente e a un qualcosa di inquietante. Lo spettacolo avvilente e' stato vedere parte della Camera, segnatamente il PdL, trasformarsi in una torcida che all'entrata di Silvio Berlusconi intona un coro da stadio, con Berlusconi che saluta compiaciuto. Sono poi seguiti altri cori da stadio della Lega per Umberto Bossi. Una gazzarra indecente, che la dice lunga sulla cultura e la sensibilita' istituzionale che li anima.Il qualcosa di inquietante e' ascoltare il ministro della Giustizia Angelino Alfano che non solo rinnova la sua fiducia al sottosegretario Caliendo e ai componenti della "cricca" del suo ministero, coinvolta nell'inchiesta sulla cosiddetta P3; ma che emette una sentenza di assoluzione, stabilisce che l'inchiesta e' infondata, che e' tutto una bubbola orchestrata da certi magistrati e dalla sinistra. Una cosa mai vista, e inimmaginabile in un qualunque altro paese. A questo punto, se ci fosse un po' di decenza, e' il ministro Alfano che dovrebbe essere dimesso: per quello che ha detto, per quello che non ha fatto, non ha saputo fare (e la situazione esplosiva delle carceri italiane ben documenta l'impotenza e l'incapacita' di governare le cose del ministro della giustizia, incapace perfino di difendere il suo ddl.E a proposito di non fare e non saper fare. Uno dei vanti del Governo e' che mai come in questi mesi si registra un impegno contro la criminalita' organizzata; e certamente l'impegno di polizia, carabinieri, guardia di finanza e tutti coloro che contrastano il crimine, e' fuori discussione. Se sia merito del Governo non saprei dire; certo dovrebbe far pensare che nessun componente del governo si sia dissociato e abbia condannato le affermazioni di Marcello Dell'Utri, quando ha definito il mafioso Alberto Mangano un eroe. E dovrebbe far pensare che dicono di aver dato un colpo mortale alla criminalita' organizzata in media una volta al mese da anni, eppure mafia, camorra, 'ndrangheta sono ben vive e prosperano piu' che mai.A fronte dell'ostentato ottimismo, ci sono dati inquietanti: per esempio, furti, racket, usura, pizzo, aggressioni: la Confederazione Italiana Agricoltori, che certo non e' un'organizzazione "komunista" e sovversiva, in un suo documentato rapporto denuncia che le varie mafie, solo nelle campagne, sono responsabili di una media di 150 reati al giorno, che fruttano circa 50 miliardi di euro l'anno. Tra i reati piu' diffusi, furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket, perfino l'antico abigeato e' in continua crescita: ogni anno circa centomila animali spariscono dalle aziende, in gran parte viene poi macellato clandestinamente. Poi c'e' l'abusivismo edilizio, il caporalato, lo sfruttamento da parte della criminalita' organizzata di etracomunitari irregolari. Un fenomeno che non e' prerogativa delle sole regioni meridionali, ma si sta espandendo in tutta Italia. Come si diceva un tempo, questi sono fatti, non parole.
4.8.10
Testimoni nei Territori Occupati della Palestina.
Andremo per due settimane nei Territori Occupati nel team Ricucire la Pace, all'interno della Campagna “Ponti e non Muri” di Pax Christi.
Da domani parte una rubrica che raccoglie i report inviati dalla Palestina; il nostro scopo è di condividere con tutti gli/le amic* del Laboratorio il viaggio e testimoniare quanto avviene nei territori occupati da Israele, centro della contesa internazionale e innanzitutto luoghi di sofferenza e profonda ingiustizia.
La nostra sarà un'esperienza itinerante, in quanto gireremo da nord a sud la Cisgiordania per poi arrivare nel Deserto del Negev, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza.
Pensiamo possa essere utile dedicare uno spazio del blog alla questione israelo-palestinese, paradigma di tante ingiustizie e decisiva per gli assetti geopolitici mondiali.
Da domani parte una rubrica che raccoglie i report inviati dalla Palestina; il nostro scopo è di condividere con tutti gli/le amic* del Laboratorio il viaggio e testimoniare quanto avviene nei territori occupati da Israele, centro della contesa internazionale e innanzitutto luoghi di sofferenza e profonda ingiustizia.
La nostra sarà un'esperienza itinerante, in quanto gireremo da nord a sud la Cisgiordania per poi arrivare nel Deserto del Negev, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza.
Pensiamo possa essere utile dedicare uno spazio del blog alla questione israelo-palestinese, paradigma di tante ingiustizie e decisiva per gli assetti geopolitici mondiali.
Stefano e Valentina.
Iscriviti a:
Post (Atom)