30.1.12

"Un altro mondo è possibile?": il nostro cineforum indignato all'ITAS

In questi anni il lavoro nelle scuole superiori ha generato tanti buoni frutti e una diffusa consapevolezza dei problemi della/nella scuola. Alle mobilitazioni si è sempre cercato di affiancare un lavoro assembleare di informazione, orizzontale e democratico ai massimi livelli.
Da oggi LGS porta avanti un cineforum alla settimana culturale dell'ITAS intitolato: "Un altro mondo è possibile?"... Con le decine di ragazze e ragazzi che sicuramente parteciperanno vogliamo aprire un canale di discussione, di condivisione di esperienza (la visione di un film) e comune individuazione di alcune tematiche centrali, che vertono innanzitutto sul disagio sociale e la marginalità.
La questione dell'autoritarismo a scuola come a casa, il futuro "meticcio" di una società che si vuole comunque razzista, escludente, con nemmeno troppo velate forme di neofascismo; e poi il tema della religione e della laicità. Quando io e Gabriele ideato questo cineforum ci siamo mmaginati un viaggio nei luoghi dell'esternalità, del fuori, nelle periferie; nei luoghi dove si genera esclusione, si producono forme di controllo e dove tuttavia (è il caso di Tutti per uno) si producono sempre nuove resistenze e pratiche liberatorie: da qui, il desiderio di rompere le dicotomie violente centro/periferia, dentro/fuori per far risaltare la potenza della soggettività subalterna e allo stesso tempo far immaginare una pratica della vita in comune che sappia appunto riconoscere le differenze e combattere le discriminazioni, le diseguaglianze, le poliedriche forme di dominio e controllo: da qui, la domanda sull' Altro mondo possibile.
Non avendo la pretesa di esaurire le tematiche che possono interessare una generazione comunque segnata dall'iperinformazione e dall'abbondanza di stimoli contraddittori e per questo sovente ininfluenti, ci siamo posti l'obiettivo di mettere a fuoco alcuni nodi del potere nella nostra società, incentivando tuttavia un ascolto partecipato ed una rielaborazione attiva del materiale di cui fruire.

Ipotizziamo, tuttavia, che questa positiva esperienza politica e culturale che è la visione collettiva di film a tema, possa continuare in seguito nelle forme che l'insieme di coloro che vorranno partecipare si darà.

Ringraziando Ludovica, compagna di lungo corso e rappresentante d'istituto dell'ITAS, ci auguriamo che esperienze come questa possano sempre più fiorire negli istituti della nostra città, in quanto determinano una riappropriazione democratica degli spazi scolastici e danno vita a forme nuove e futuribili di autoformazione collettiva.


Stefano Casulli

28.1.12

"La fabbrica dell'uomo indebitato. Saggi sulla condizione neoliberista" di Maurizio Lazzarato



Giorno dopo giorno siamo sempre più debitori: nei confronti dello Stato, delle assicurazioni private, delle imprese… E per onorare i nostri debiti siamo sempre più costretti a diventare «imprenditori» delle nostre vite, del nostro «capitale umano». Il nostro orizzonte materiale ed esistenziale viene così del tutto stravolto.
Il debito, tanto privato che pubblico, è la chiave di volta attraverso la quale leggere il progetto di un’economia fondata sul pensiero neoliberista.

Rileggendo Marx, Nietzsche, Deleuze e Foucault l’autore dimostra che il debito è anzitutto una costruzione politica e che la relazione creditore/debitore è il rapporto sociale fondamentale delle nostre società.

Perché il debito non è semplicemente un dispositivo economico, è anche, e soprattutto, una tecnica di governo e di controllo delle soggettività individuali e collettive.
Come sfuggire alla condizione neoliberista dell’uomo indebitato? Per Maurizio Lazzarato la risposta non è semplicemente economica. Ciò che dobbiamo rimettere in discussione è proprio «il sistema del debito» oggi alla base della struttura del capitalismo.

In libreria a fine marzo 2012
Isbn 978-88-6548-042-7
pp 168
euro 12,00

L'autore
Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. In italiano sono disponibili: La politica dell’evento (Rubbettino 2004), Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività (ombre corte, 1997) e Videofilosofia (manifestolibri, 1997).

Vai alla scheda
http://www.deriveapprodi.org/2012/01/la-fabbrica-delluomo-indebitato/

Vai all'introduzione pubblicata da Alfabeta2
http://www.alfabeta2.it/2011/12/05/la-fabbrica-dell%E2%80%99uomo-indebitato/

Vai alla recensione di Jason Read (in inglese)
http://www.unemployednegativity.com/2011/11/debt-collectors-economics-politics-and.html

Vai alla pagina dell'edizione francese (Editions Amsterdam, 2011)
http://www.editionsamsterdam.fr/articles.php?idArt=200

26.1.12

L'altra uscita dalla crisi: presentazione del libro "DEBITOCRAZIA" di Millet e Toussaint SABATO 28 GENNAIO



- Rivolta il debito
- LGS Macerata - Laboratorio Giovanile Sociale di Macerata
- Lavoratori intermittenti del teatro Sferisterio di Macerata

Presentano il libro "DEBITOCRAZIA. Come e perché non pagare il debito pubblico" di Damien Millet e Eric Toussaint

con Salvatore CANNAVO', ex parlamentare, giornalista del Fatto Quotidiano e tra i promotori della campagna nazionale Rivolta il Debito.
Anche Macerata, così, si apre alla discussione sulle misure di risposta della crisi!!
L'obiettivo è quello di confrontarsi criticamente sul tema del debito e della crisi economica, nella consapevolezza che l'austerità ed il rilancio neoliberista di Monti e dei grandi potentati europei non rappresentino la soluzione ai problemi che ci attanagliano! 
Come uscire dalla crisi cambiando il modello di sviluppo? E soprattutto, può passare dal default o dalla selezione del debito pubblico una possibile alternativa alle politiche di austerity e restrizione dei diritti e della democrazia?

17.1.12

Giù le mani dall'acqua e dalla democrazia!

Il 12 e 13 giugno scorsi 26 milioni di donne e uomini hanno votato per l’affermazione dell’acqua come bene comune e diritto umano universale e per la sua gestione partecipativa e senza logiche di profitto. Le stesse persone hanno votato anche la difesa dei servizi pubblici locali dalle strategie di privatizzazione: una grande e diffusa partecipazione popolare, che si è espressa in ogni territorio, dimostrando la grande vitalità democratica di una società in movimento e la capacità di attivare un nuovo rapporto tra cittadini e Stato attraverso la politica. Il voto ha posto il nuovo linguaggio dei beni comuni e della partecipazione democratica come base fondamentale di un possibile nuovo modello sociale capace di rispondere alle drammatiche contraddizioni di una crisi economico-finanziaria sociale ed ecologica senza precedenti. A questa straordinaria esperienza di democrazia il precedente Governo Berlusconi ha risposto con un attacco diretto al voto referendario, riproponendo le stesse norme abrogate con l’esclusione solo formale del servizio idrico integrato. Adesso, utilizzando come espediente la precipitazione della crisi economico-finanziaria e del debito, il Governo guidato da Mario Monti si appresta a replicare ed approfondire tale attacco attraverso un decreto quadro sulle strategie di liberalizzazione che vuole intervenire direttamente anche sull’acqua, forse addirittura in parallelo ad un analogo provvedimento a livello di Unione Europea che segua la falsariga di quanto venne proposto anni addietro con la direttiva Bolkestein. In questo modo si vuole mettere all’angolo l’espressione democratica della maggioranza assoluta del popolo italiano, schiacciare ogni voce critica rispetto alla egemonia delle leggi di mercato ed evitare che il “contagio” si estenda fuori Italia.  Noi non ci stiamo.  L’acqua non è una merce, ma un bene comune che appartiene a tutti gli esseri viventi e a nessuno in maniera esclusiva, e tanto meno può essere affidata in gestione al mercato. I beni comuni sono l’humus del legame sociale fra le persone e non merci per la speculazione finanziaria. Ma sorge, a questo punto, una enorme e fondamentale questione che riguarda la democrazia: nessuna “esigenza” di qualsivoglia mercato può impunemente violare l’esito di una consultazione democratica, garantita dalla Costituzione, nella quale si è espressa senza equivoci la maggioranza assoluta del popolo italiano.  Chiediamo con determinazione al Governo Monti di interrompere da subito la strada intrapresa. Chiediamo a tutti i partiti, a tutte le forze sociali e sindacali di prendere immediata posizione per il rispetto del voto democratico del popolo italiano. Chiediamo alle donne e agli uomini di questo paese di sottoscrivere questo appello e di prepararsi alla mobilitazione per la difesa del voto referendario.  Oggi più che mai, si scrive acqua e si legge democrazia

14.1.12

La mitigata laicità delle nostre scuole

Lettera aperta di un maceratese riportata dal il Manifesto l'11/01/12.

Son da poco finite le vacanze invernali per chi, come me, lavora in una scuola. Ognuno di noi avrà vissuto questi giorni nel modo più opportuno: riposandosi, condividendo il tempo a disposizione con i propri cari, dedicandosi agli altri, giocando a carte o andando alle funzioni religiose, recuperando il sonno perduto o festeggiando la pausa con gli amici.
Tuttavia, mi rimane ancora chiaro in testa quanto accaduto nel mio istituto il 23 dicembre, ultimo giorno prima delle vacanze.

Evento centrale di quella giornata era la “Santa Messa” organizzata dalla scuola, cui gli studenti erano tenuti a partecipare: ragazze e ragazzi di buona volontà componevano l'orchestra fatta di flauti, chitarre e pianole, mentre di altri giovani erano le voci del coro. Il tutto, sotto la direzione degli insegnanti di musica e all'attenzione del resto della scuola.
Alle ore 11.00 era prevista la sospensione delle lezioni, per iniziare la funzione celebrata dall'arcivescovo alle 11.30. Così, effettivamente, è stato. 
In linea di massima ciascun ragazzo aveva libertà di non presenziare alla funzione, ma in realtà questo discorso è stato fatto solo a coloro che durante l'anno non prendono parte all'ora di religione. Questa è stata la percezione anche degli altri ragazzi della scuola, che hanno recepito la messa come un momento rientrante a tutti gli effetti nella normale prassi scolastica. 
Ecco il nudo racconto di quanto accaduto.
O meglio, di una parte.

L'altra parte della faccenda ci fa vedere che quel 23 dicembre il 20% circa degli alunni era assente (contro il 6% del giorno prima, ad esempio), ed in particolare la percentuale si impennava tra i non frequentanti l'ora di religione (i soli che, in sostanza, quel giorno erano esentati dalla messa): 40%.
A ciò va aggiunto che chi è rimasto a scuola si è trovato con una professoressa che ha tentato di improvvisare una lezione per circa 30 ragazzi.
Vi è poi un altro aspetto, che mi sento di far rientrare nel capitolo “dati di fatto” educativi e formativi: la scuola ha costruito un momento collettivo per festeggiare la fine dell'anno all'interno di una chiesa, mettendo a disagio e fortissimo imbarazzo i ragazzi esclusi dalla “festa di fine anno”. E poi, quale messaggio è stato veicolato ai ragazzi che erano alla messa? Non è forse normale che qualcuno di loro dica: “i musulmani, gli arabi e gli albanesi non devono venire alla messa”? Possibile che non ci si renda conto che una scuola aperta e laica, che dovrebbe essere luogo di incontro, condivisione, scambio ed educazione alla convivenza, non può in alcun modo mettere in atto iniziative parziali, dando scientemente adito all'associazione Scuola-Italia-Cattolicesimo? Quali altre, diverse, funzioni religiose vengono autorizzate all'interno delle nostre scuole?

Come molti sanno, quanto successo nel mio istituto non è una novità e nemmeno un'eccezione, dato che accade in moltissime scuole della provincia di Macerata, dove (spesso in buona fede e senza gridare allo scontro di civiltà) si presentano come naturali e normali attività religiose quali messe, confessioni o omelie, generando disparità di trattamento tra gli studenti ed una vera e propria discriminazione/marginalizzazione di una specifica forma di diversità che è quella religiosa. 
Ripeto, la cosa ancor più grave sta nel fatto che nelle scuole (medie in particolare) abbiamo a che fare con persone che prima di essere “uomini di fede consapevole” sono ragazzi e ragazze che crescono, apprendono come le spugne, vivono e leggono le situazioni rapportandosi ad esse come se fossero la norma sociale: e cosa è stato recepito, in questa situazione? Che a scuola la messa si può fare e le altre funzioni religiose no? Che ci sono delle cose che rientrano nella norma, e altre che sono anormali?
Siamo proprio sicuri, noi insegnanti, genitori, cittadini di voler educare a tutto ciò?
É poi vero che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali […] senza distinzione di religione”? È proprio vero che le confessioni religiose sono “egualmente libere davanti alla legge” e che “la scuola è aperta a tutti”?

Qualcuno potrebbe obiettare che la presenza del crocifisso e IRC (Insegnamento della Religione Cattolica) rappresentino già un'evidente violazione dei suddetti principi costituzionali: è vero, e chi lavora nella scuola pubblica lo può ben vedere.
Ritengo tuttavia che un caso concreto e specifico come questo renda manifesta la violazione dell'eguaglianza degli studenti e delle loro famiglie da parte di un'istituzione che dovrebbe viceversa fondare la convivenza sociale.
Inoltre, quanto successo ha determinato un livello tale d'assenteismo (di una specifica categoria di ragazzi) da poter affermare che non è stato garantito il diritto allo studio di tutti gli studenti.

In ultimo, il fatto che l'intero Consiglio dei Docenti abbia votato questa specifica iniziativa, facendola rientrare a tutti gli effetti tra le attività didattico-formative, non la giustifica minimamente: l'educazione all'eterogeneità, alla democrazia e al pluralismo vanno garantite attraverso norme che impediscono ai docenti di legiferare e intervenire con iniziative come queste.

La scuola del futuro deve preservare ed esaltare le differenze, costruendo un vivere comune attorno alle tante esperienze (anche religiose) di ciascuno.
Non saranno uno Stato e una scuola fintamente laici a impedirmi di sognare ed educare a un futuro in cui le esperienze e gli spazi da condividere o sono per tutti, con i colori di ciascuno, o non sono per nessuno.
LETTERA FIRMATA

10.1.12

Difendiamo i beni comuni dalle liberalizzazioni - verso Napoli 28/01

È necessaria una  grande battaglia di civiltà contro la privatizzazione dei servizi  pubblici locali. E per dire al governo «tecnico» che l'acqua non si  tocca. Un grande appuntamento a Napoli il 28 gennaio, con  amministrazioni locali e movimenti.
Un governo "politico" in agosto ha violato la Costituzione reintroducendo, in contrasto con l'esito referendario  del 12 e 13 giugno 2011, meccanismi concorrenziali e logiche di mercato  per l'affidamento dei servizi pubblici locali (ad eccezione dei servizi  idrici), determinando un preoccupante scollamento tra democrazia  rappresentativa e democrazia partecipativa. Un governo "tecnico", nella osiddetta fase due della sua azione politica, vuole accelerare tale  processo, con l'obiettivo di reintrodurre privatizzazioni forzate anche  nel settore all'acqua. È bene allora ricordare che l'art. 4 d.l. n.  138/2011, convertito con la L. n. 148/2011 riproduce l'abrogato art. 23  bis del Decreto Ronchi, che trovava applicazione per tutti i servizi  pubblici locali (spl), prevalendo sulle discipline di settore con esso  incompatibili, salvo quanto previsto in materia di distribuzione di gas  naturale e di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali,  trasporto ferroviario regionale. Attraverso procedure competitive ad  evidenza pubblica, da svolgersi nel rispetto della relativa normativa  comunitaria, gli spl potevano essere affidati ad imprenditori o a  società in qualunque forma costituite oppure a società a partecipazione  mista pubblica e privata (mediante il ricorso alla gara cosiddetta a  doppio oggetto), con l'attribuzione al socio privato di una  partecipazione non inferiore al 40%.
L'affidamento in house veniva  ammesso come deroga al regime ordinario, a patto che fossero presenti  «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche  economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto  territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso  al mercato» e che si rispettasse la procedura indicata (svolgimento di  un'analisi del mercato per motivare la scelta dell'in house,  consultazione dell'Agcm). In ultimo, la norma abrogata prevedeva un  regime transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in  vigore della disciplina, fissandone la scadenza ed una data certa per la  messa a gara, a seconda del tipo di affidamento e della natura  dell'ente gestore. La norma trovava applicazione per tutti i servizi  pubblici di rilevanza economica, come del resto era stato riconosciuto  dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 2011, la  quale, proprio in forza dell'applicazione estesa a tutti i servizi,  aveva ritenuto il primo quesito rispettoso del requisito di omogeneità,  richiesto ai fini dell'ammissibilità dalla giurisprudenza della  Consulta. 
L'abrogazione referendaria dell'art. 23 bis, come indicato  dalla stessa Corte Costituzionale, non determinava né la reviviscenza  dell'art. 113 Tuel né tanto meno creava una lacuna normativa, giacché la  disciplina comunitaria poteva infatti trovare diretta applicazione nel  nostro ordinamento, anche in assenza di una intervento nazionale di  adeguamento. Tale cornice giuridica ha avuto una assai breve  vigenza: l'articolo 4 è stato infatti introdotto dal legislatore solo  due mesi dopo l'avvenuta abrogazione dell'art. 23 bis, ignorando di  fatto la volontà referendaria. La consultazione di giugno avrebbe reso  prioritaria una discussione profonda in materia di spl, al fine di  intervenire in maniera razionale e sistematica in un settore da sempre  oggetto di continui ritocchi normativi. Ciò tuttavia non è avvenuto: il  decreto legge n. 138/3011 è stato votato in una situazione di asserita  emergenza, per rispondere al mercato. Il risultato, per quel che  concerne i servizi pubblici locali, è stato - come si è detto - la riproposizione della norma abrogata solo due mesi prima, con una scelta  che ha definitivamente segnato l'incapacità di una classe politica di  saper cogliere le novità politiche ed istituzionali generate dal  processo referendario. Ancora una volta, il legislatore ha posto le basi  per un processo di dismissione, segnato da uno sbilanciamento  dell'assetto delle gestioni a favore del privato, contribuendo alla  svalutazione degli stessi assets che saranno messi a gara, essendo  indiscutibile che una contestuale immissione sul mercato di numerosi  beni e servizi è idonea a determinare il crollo del loro prezzo. In  questo modo, il legislatore ha anche ignorato la maggiore autonomia che  il diritto comunitario assicura agli enti locali in materia di  definizione delle procedure di affidamento. 
Attualmente la  situazione è la seguente: l'art. 4 d.l. 138/2011 disciplina la gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad  eccezione del servizio idrico e dei settori già esclusi dal Decreto  Ronchi, «liberalizzando tutte le attività economiche e limitando, negli  altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui,  in base ad un'analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata  non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della  comunità». L'affidamento dei servizi avviene «in favore di imprenditori  o di società in qualunque forma costituite individuati mediante  procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto del Trattato  sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi  ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità,  imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,  parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità» (comma  8); inoltre, per quel che concerne gli affidamenti a società miste, al  partner privato selezionato con gara a doppio
oggetto dovrà detenere  «una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 12). 
L'affidamento in house, possibile ma solo in via derogatoria rispetto al  regime ordinario, è ammesso «a favore di società a capitale interamente  pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per  la gestione cosiddetta in house», a patto che «il valore economico del  servizio oggetto dell'affidamento sia pari o inferiore alla somma  complessiva di 900.000 euro annui». Infine, è definito un regime  transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in vigore  della nuova disciplina, determinandone la scadenza e la relativa messa a  gara (comma 32, lett. a, b, c, d). Se all'esistenza del regime  transitorio e del meccanismo delle gare a data certa si aggiunge da una  parte il "premio" che i Comuni riceveranno una volta effettuate le  dismissioni (l'art. 5 prevede infatti l'assegnazione di una somma non  sottoposta ai vincoli di spesa propri del patto di stabilità),  dall'altra la sanzione del commissariamento per gli enti che invece  risulteranno inadempienti alla data del 31 marzo 2012, non è certamente  infondato parlare di una violazione dei principi comunitari e  costituzionali dell'autonomia decisionale dell'ente locale.
Occorre  reagire, e subito, a questa situazione di illegalità diffusa, di  attentato alla Costituzione e di vulnus alla democrazia partecipativa;  occorre reagire agli ulteriori e attuali progetti politici dell'attuale  governo "tecnico" (fase 2) che intendono estendere gli effetti di tali  provvedimenti anche all'acqua. La reazione deve partire non "soltanto"  dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica e dai ventisette milioni di  cittadini che hanno votato contro le privatizzazioni "forzate", ma  anche da parte di tutte quelle amministrazioni locali che rivendicano il  rispetto della Costituzione e della loro dignità ed autonomia  decisionale. Democrazia partecipativa e democrazia locale, in una  dimensione nazionale, devono unirsi in una grande battaglia di civiltà,  una grande battaglia per i diritti.Una prima e importante occasione  per discutere di questi temi sarà il 28 gennaio a Napoli, giorno in cui  de Magistris ha invitato, nell'ambito del I forum dei comuni per i beni  comuni.

5.1.12

Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra» - Wu Ming 1

Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra»


-
Ho preso questi appunti nel corso del tumultuoso, convulso 2011, anno di insurrezioni, detronizzazioni, disvelamenti e nuove confusioni. Per la precisione, sono note scritte nel periodo aprile-settembre 2011.
Alla bruta materia di queste frasi annotate live, nel pieno degli eventi, non ho saputo imporre alcuna struttura solida e coerente. La numerazione di paragrafi e capoversi è il residuo di un tentativo in tal senso, sostanzialmente fallito.

1. CHI DICHIARA COSA?

1.a. Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso la frase: «Non siamo di destra né di sinistra». Talvolta, l’ordine dei fattori è invertito: «Non siamo di sinistra né di destra».
Non è certo una frase nuova, l’abbiamo udita tante volte. Eppure, tendendo l’orecchio, possiamo registrare una prima, piccola novità: il soggetto plurale ricorre più spesso di quello singolare. Il noi sta scalzando l’io. Fino a qualche anno fa, questa “dichiarazione di non-appartenenza” era il più delle volte a titolo personale. Oggi, invece, è sempre più sovente l’enunciazione di soggetti collettivi.

1.b. Se continuiamo ad ascoltare e intanto ci guardiamo intorno, possiamo comprendere il perché della coniugazione plurale: se ieri, nella stragrande maggioranza dei casi, la frase era espressione di qualunquismo destrorso (ovvero, chi premetteva di «non essere di destra né di sinistra», novanta volte su cento era in procinto di attaccare politiche o personaggi di sinistra), di recente la questione si è ingarbugliata: in giro per l’Europa, nuovi movimenti, anche molto diversi tra loro, si fanno un punto d’onore di dichiararsi non-appartenenti ad alcuno dei due campi politici. Si va dal nostrano Movimento 5 Stelle, si passa per i «Partiti dei Pirati» che hanno ottenuto buoni risultati elettorali in Germania e altri paesi, e si giunge ai cosiddetti «Indignati», movimento transnazionale che ha i suoi miti delle origini nelle rivolte nordafricane e nelle mobilitazioni spagnole partite il 15 maggio 2011.

1.c. La mia convinzione è che, a seconda del soggetto che la dice, del contesto in cui viene usata e delle pratiche a cui si accompagna, il significato della frase di cui al punto 1.a. si trasformi in maniera radicale.

2. IL PARADOSSO DI QUADRUPPANI

2.a. Una volta ho sentito lo scrittore francese Serge Quadruppani dichiarare: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra».
L’apparente paradosso spaziale – quasi da disegno di Escher – può aiutarci a trovare l’orientamento nel territorio dei nuovi movimenti. In parole povere: la frase «Non sono di destra né di sinistra» è un velo che possiamo e dobbiamo lacerare, per capire quali tra i nuovi movimenti appartengano al composito phylum (ma è una vera e propria treccia composta di tanti fili) che per comodità o richiamo a una tradizione chiamiamo «Sinistra», e quali invece al phylum che chiamiamo «Destra».

2.b. Per capirci: io credo che gli Indignados spagnoli siano di sinistra. Si tratta di un movimento egualitario, anticapitalista, non privo di interlocutori a sinistra e indubbiamente ostile a ogni destra politica e sociale.
Di contro, il «grillismo» mi appare sempre più come un movimento di destra: diversivo, poujadista, sovente forcaiolo, indifferente a ogni tradizione (anche recente) culturale e di lotta, noncurante di ogni provenienza politica.


Alain Badiou
2.c. Esistono discorsi e circostanze in cui il concetto di “Sinistra” è messo in discussione «da sinistra», in quanto insufficiente, inadeguato, eccessivamente inscritto in una rappresentazione parlamentare o para-parlamentare.
Il filosofo Alain Badiou, in una celebre conferenza sulla Comune di Parigi, ha proposto di chiamare «sinistra»

«l’insieme del personale politico parlamentare che si dichiara il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare. O, in un lessico più contemporaneo, il solo capace di fornire un ‘esito politico’ ai ‘movimenti sociali’.»

In questo senso, secondo Badiou, la Comune di Parigi fu una rottura con la sinistra, poiché «non rimise il proprio destino nelle mani dei politici competenti» per poi, come sempre accade, lamentarsi del loro «tradimento». Per Badiou «questa volta, quest’unica volta, il tradimento fu invocato come uno stato di cose al quale ci si doveva finalmente sottrarre, e non come una conseguenza disgraziata di quanto si era scelto».

2.d. Il linguista cognitivista George Lakoff (esponente della sinistra “liberal” statunitense) ha più volte criticato la rappresentazione destra-sinistra, perché fa pensare che le persone siano allineate l’una l’accanto all’altra su un piano bidimensionale, e che si possa procedere con continuità da “quello più a destra” a “quello più a sinistra”. Invece, dice Lakoff, la realtà è multilineare e multidimensionale, il modo in cui si formano le nostre idee è complesso ed esistono molte persone «biconcettuali», ovvero progressiste su alcuni temi e conservatrici su altri.
La coppia antitetica progressista/conservatore mi suona ben più problematica e insoddisfacente di destra/sinistra, ma non mi interessa criticarla in questa sede. Quello di Lakoff è un discorso che in Italia possiamo capire senza sforzi: una grossa fetta di «popolo cattolico» è composta da biconcettuali: «di sinistra» su molte questioni sociali ed economiche, «di destra» in materia di questioni di genere, sessualità, diritti civili.

2.e. La rottura prodotta dagli Indignados nei confronti della sinistra spagnola mi sembra sintetizzare – in modo precario, transitorio – queste due impostazioni: il 15 maggio 2011 si è trattato di sottrarsi al «tradimento come stato di cose», e al tempo stesso di parlare al maggior numero di persone possibile, di raggiungere le parti «progressiste» dei cervelli biconcettuali, e di farlo non a colpi di mediazioni al ribasso, bensì scompigliando l’antinomia: «Non siamo di destra né di sinistra: siamo los de abajo», ovvero quelli di sotto, quelli che vengono dal basso.

3. «STORICIZZARE AL MASSIMO»

3.a. Il difetto del discorso di Lakoff è che non sembra esserci posto per la storia. In questo, Lakoff è molto americano, il suo mondo è tutto sincronico, schiacciato sull’adesso.
«Storicizzare sempre!», intimava Fredric Jameson, con tanto di punto esclamativo, all’inizio del suo capolavoro L’inconscio politico (1981). «Storicizzare al massimo, per lasciare meno spazio possibile al trascendentale», disse Michel Foucault in un dibattito del 1972.
La sostanza del concetto di «Sinistra» può essere capita solo con un approccio diacronico che ne ripercorra la genealogia e le trasformazioni. «Sinistra» è qualcosa che discende i fili del tempo in un certo modo, a partire dalla Rivoluzione francese, e si evolve attraversando due secoli di lotte.

3.b. Io stesso penso che «Sinistra» non basti a descrivere le mie posizioni, e trovo utile aggiungere precisazioni e qualificazioni. Io non sono semplicemente di sinistra: io mi riconosco in un phylum di idee rivoluzionarie e lotte per l’uguaglianza che attraversa i secoli; penso che la specie umana – previa una rottura radicale nella temporalità in cui siamo immersi – debba avviare la fuoriuscita dal capitalismo; penso che l’obiettivo da realizzare sia la società senza classi etc. Un mio amico usava dire: «Io non sono di sinistra: sono comunista!»
Tuttavia, è chiaro che se devo semplificare ed evitare di aprire troppe parentesi, non mi faccio problemi a dire che sono di sinistra.

3.c. Ricapitolando: in certi casi il concetto di «Sinistra» è criticato per la sua insufficienza da punti di vista che si sono formati nel phylum della sinistra rivoluzionaria. A questo proposito, si possono citare gli anarchici, ma anche gli zapatisti.
Di solito, in questi casi, la dichiarazione di «non-appartenenza lineare» si accompagna a pratiche egualitarie, alla presenza di interlocutori «privilegiati» a sinistra e all’ostilità verso qualunque destra. A diverse latitudini e in diverse fasi del loro percorso, nonostante i problemi, tanto gli anarchici quanto gli zapatisti hanno cooperato con diverse correnti della sinistra.

3.d. Certo, può anche succedere che movimenti originariamente di sinistra cerchino interlocutori a destra, o meglio, tra i fascisti. Nella storia del nostro phylum ricorrono confusionismi e infiltrazioni, orridi esperimenti «rosso-bruni», «nazi-maoisti», «terze posizioni» etc.
Il fascismo stesso, fin dalla nascita, si presenta come una «terza posizione». Il fascismo è un prodotto dello spavento, sorge e si diffonde per reazione alle lotte del movimento operaio e bracciantile. L’ascesa del fascismo è l’oscillare del pendolo a destra dopo l’oscillazione a sinistra del Biennio Rosso. Il Nemico n.1 è la Bestia Proletaria che ha osato alzare la testa. La cattiva coscienza del fascismo nei confronti della sinistra (dalla quale il suo Duce e molti suoi dirigenti provengono) e dell’arditismo (dal quale provengono svariati squadristi, benché in minor numero di quanto si pensi, e nel cui alveo si è formato l’unica formazione che ha opposto resistenza armata allo squadrismo, ovvero gli Arditi del Popolo) si manifesta nell’adozione di simboli e nell’imitazione di retoriche degli avversari. La stessa parola «fascio» viene prelevata nel phylum della sinistra (i «fasci operai», i «fasci siciliani dei lavoratori»), e resa inutilizzabile.
Il fascismo vince e la memoria degli avversari diviene bottino di guerra: il vincitore si presenta come unica forza popolare e unico nemico del capitalismo che ha appena salvato (o meglio, di una più vaga e comodamente denunciabile “plutocrazia”). Facendosi regime, il fascismo carpisce lo spirito vitale dei nemici che ha sconfitto.

4. GRILLISMO E FALSI EVENTI


Louis Antoine Léon de Saint-Just (1767-1794), santo persecutore di troll e affini
[Avviso preliminare alle "truppe cammellate" dei seguaci dell'ex-comico genovese, usi a intervenire en masse ingiuriando / sbraitando / sgrammaticando ogni volta che in rete si tocca il loro Leader: qui è fatica sprecata. Su Giap, il primo commento di qualunque utente finisce in moderazione e lo sblocchiamo solo se pensiamo ne valga la pena. Non pubblichiamo qualunque cagata venga deposta fumigante da Tizio o Caio, ma applichiamo una precisa politica redazionale, sovente riassunta nel motto: "Saint-Just vigila sulle nostre discussioni". La vedete quella? Ecco, ci siamo capiti.]
-
4.a. C’è un modo più «normalizzante» e di destra (nonché largamente maggioritario) di dichiararsi né di destra né di sinistra. Qui l’attitudine è: «rossi e neri sono tutti uguali» (cfr. la celeberrima scena di Ecce Bombo in cui Nanni Moretti attribuisce a generici «film di Alberto Sordi» la responsabilità di tale cliché). Si afferma l’equivalenza e l’indistinguibilità tra diversi percorsi e storie. Si getta tutto nel mucchio, occultando il conflitto primario – quello a cui i concetti di «Destra» e «Sinistra» continuano ad alludere, anche se più flebilmente che in passato, ossia la lotta di classe – in nome di surrogati, diversivi, conflitti sostitutivi come quello tra la «gente» e i «politici», la «casta» etc.

4.b. Il grillismo non è solo un «caso di studio»: è un’urgenza, un problema da affrontare quanto prima. In uno spazio «né di destra né di sinistra», retoriche e pratiche in apparenza vicine a quelle dei movimenti euroamericani di cui sopra vengono «risemantizzate» e messe al servizio di discorsi ben diversi. Le energie di molti benintenzionati, in maggioranza giovani o addirittura giovanissimi, sono incanalate in un discorso in cui sono rinvenibili elementi di criptofascismo.
Non mi riferisco solo allo spettacolare Führerprinzip che il movimento mette in mostra durante le sue adunate pubbliche con ex-cabarettista sbraitante, fin dal celebre «V-Day» dell’8 settembre 2007. E’ senz’altro l’elemento più appariscente, ma da solo non giustificherebbe l’uso dell’espressione «criptofascismo».

4.c. Il prefisso «cripto» deriva dal greco, e lo si usa per qualcuno che nasconde (di solito male) la sua vera natura. «Criptofascista» allude a un discorso cifrato, decrittando il quale si trova un animus fascistoide. Di solito tale «cifratura» si riscontra nei movimenti di impronta qualunquista / poujadista / destrorso-populista etc. Tra questi ultimi si può annoverare la Lega Nord.
La cifratura del grillismo è molto peculiare. Il nocciolo criptofascista è avvolto da fitti banchi di nebbia e fuffa. Il modo in cui il movimento descrive se stesso trasuda di quella retorica dei «processi dal basso» che il grillismo ha avuto in dote dai movimenti altermondialisti di inizio secolo e si è adoperato a ricontestualizzare. Per molti versi, il grillismo è un prodotto della sconfitta dei movimenti altermondialisti: ha occupato lo spazio lasciato vuoto da quel riflusso. Per citare Žižek che parafrasa Benjamin: «Ogni fascismo è testimonianza di una rivoluzione fallita».


Giovanni Favia, leader del Movimento 5 Stelle in Emilia-Romagna
4.d. Il dirigente grillino Giovanni Favia, per descrivere il «Movimento 5 Stelle», ha usato il concetto deleuzo-guattariano di «rizoma». Metafora botanica, il «rizoma» indica una distribuzione di messaggi e/o produzione di concetti non-gerarchica né lineare, che può passare da un punto qualsiasi a un altro punto qualsiasi, muovendosi potenzialmente in qualunque direzione. Deleuze e Guattari contrapposero il rizoma all’albero, metafora che indica l’esatto opposto: una struttura verticale e gerarchica, funzionante per passaggi obbligati da un centro alle sue periferie.
Tuttavia, Beppe Grillo è proprietario unico del logo e del nome «Movimento 5 Stelle», ed è lui a decidere insindacabilmente chi possa usarlo. Percorso obbligato tipico di una struttura arborescente, cioè l’opposto del rizoma.

4.e. La retorica autoreferenziale e auto-elogiativa del grillismo è mistificante. Non è su di essa che dobbiamo concentrarci, ma sui modi in cui il movimento addita e descrive i propri nemici.
Presso il grillismo, l’individuazione del nemico è sempre diversiva. In questo, è in «buona» compagnia: in Italia, negli ultimi anni, abbiamo visto movimenti tutti focalizzati sulla «disonestà dei politicanti», sui privilegi della «casta» etc. Sono problemi veri, e al contempo falsi bersagli: le decisioni importanti sull’economia non vengono prese a Roma, perché il potere capitalistico sovranazionale non autorizza la politica in tal senso.
Diceva tempo fa un compagno: «’Ce lo chiedono i mercati’ è il nuovo ‘Sento le voci nella testa’. Puoi fare le peggiori cose e nessuno ti riterrà responsabile!» «Ce lo chiedono i mercati» è il tormentone di un’epoca in cui la politica è esautorata. Qualunque discorso sulla «Casta», anche quando basato su dati di fatto reali, alimenta una strategia di depistaggio e impedisce di individuare e attaccare i nemici veri.


L'economista Eugenio Benetazzo in posa con Roberto Fiore, fondatore e leader di Forza Nuova. Cliccando sulla foto, lo si vede in compagnia di Borghezio.
4.f. Certo, anche il grillismo si occupa di economia e, seppure disordinatamente, denuncia la subalternità a essa della politica. Tuttavia, nel farlo, non può fare a meno di introdurre ulteriori diversivi e simulacri. Ad esempio, incanala la critica ai meccanismi finanziari in un discorso paranoide contro il cosiddetto «signoraggio», cavallo di battaglia di vari complottismi destrorsi. A lungo il grillismo si è valso della consulenza di Eugenio Benetazzo, bizzarra figura di economista che si definisce «fuori dal coro», più volte ospite di iniziative del partito neofascista Forza Nuova.

4.g. I movimenti che si concentrano a lungo su falsi bersagli diventano, per dirla con Badiou, «fedeli a falsi eventi».
Falso evento è anche la «rivoluzione di Internet» come la descrive il grillismo: processo unilateralmente positivo, salvifico, che promette la risposta a ogni problema. L’approccio alla rete è all’insegna di un feticismo digitale e di una sorta di «animismo» che vede nella tecnologia una forza autonoma, trascendente le relazioni sociali e le strutture che invece la plasmano, determinandone sviluppo e adozione. La Rete diventa una sorta di divinità, protagonista di una narrazione escatologica in cui scompaiono i partiti (nel senso originario di fazioni, differenze organizzate) per lasciare il posto a una società mondiale armonica, organicista. L’utopia di un uomo è la distopia di un altro.
A chi pensa che stia esagerando, consiglio il video «Gaia. Il futuro della politica», realizzato nel 2008 dalla Casaleggio & Associati, agenzia di pubblicità e web-marketing organica al grillismo. Guardandolo, mi è tornato alla mente il concetto coniato dallo storico americano Jeffrey Herf per descrivere il tecno-entusiasmo delle destre tedesche tra le due guerre mondiali: «modernismo reazionario».



Va ricordato che non più di una decina di anni fa Beppe Grillo demonizzava i computer e li sfasciava sul palco durante i suoi spettacoli. Adesso li osanna ed esalta la rete libera e bella, il «popolo della rete» etc.



5. DOVE L’ASINO CASCA: GRILLISMO E IMMIGRAZIONE

5.a. E’ la tematica dell’immigrazione quella in cui il discorso grillino si fa più decifrabile e lascia trasparire l’animus fascistoide. Il blog di Grillo offre non poche «perle» in tal senso. Ecco un’arringa contro romeni e zingari risalente all’ottobre 2007:

«Un Paese non può SCARICARE SUI SUOI CITTADINI i problemi causati da decine di migliaia di rom della Romania che arrivano in Italia. L’obiezione di Valium [Romano Prodi, N.d.R.] è sempre la stessa: la Romania è in Europa. Ma cosa vuol dire Europa? MIGRAZIONI SELVAGGE di persone senza lavoro da un Paese all’altro? Senza la conoscenza della lingua, senza possibilità di accoglienza? Ricevo ogni giorno centinaia di lettere sui rom. E’ un vulcano, una BOMBA A TEMPO. Va disinnescata. Si poteva fare una MORATORIA per la Romania, è stata applicata in altri Paesi europei. Si poteva fare un serio controllo degli ingressi. Ma non è stato fatto nulla. Un governo che non garantisce la sicurezza dei suoi cittadini a cosa serve, cosa governa? CHI PAGA per questa insicurezza sono i più deboli, gli anziani, chi vive nelle periferie, nelle case popolari.
Una volta i confini della Patria erano sacri, i politici li hanno sconsacrati.»

5.b. Non esiste quasi più discorso razzista che non sia fatto… in nome dell’antirazzismo. E’ in nome dell’antirazzismo che il grillismo fomenta l’odio. Cito da un altro articolo del blog di Beppe Grillo, pubblicato nel maggio 2011 e intitolato «Un clandestino è per sempre»:

«In Italia sono entrati 20.000 TUNISINI, della maggior parte di loro non si sa più nulla, che fine abbiano fatto. Pochi sono riusciti ad arrivare in Francia. Vagano per la penisola senza sapere una parola di italiano. In nessuno Stato del mondo questo è permesso con una tale SERENITÀ D’ANIMO, da noi si. Il motivo è semplice, sono utili ai profitti delle aziende, ai partiti, alle mafie. Il clandestino è MULTIUSO come un coltellino svizzero. Per ricevere qualcuno a casa tua devi disporre delle risorse per farlo. Dargli un lavoro dignitoso, un letto, organizzare l’integrazione. Altrimenti devi interrogarti se stai giocando con la DINAMITE e con il futuro della tua nazione.»

Si parte dalla denuncia dello sfruttamento di cui sono vittime i clandestini, e si arriva alla conclusione che bisogna impegnarsi a respingerli, in nome della nazione. Una premessa umanitaria, capace di blandire la parte progressista ed egualitaria di un cervello «biconcettuale», apre la via a un discorso che ne vellica la parte conservatrice e razzista.

5.c. Grillo alza un polverone sensazionalistico ed eccezionalistico («Solo in Italia!») per un numero irrisorio di tunisini sbarcati nella primavera 2011. E’ la stessa impostazione truffaldina dell’allora ministro degli interni Maroni, il quale parlò di inesistenti «maree di immigrati» e reclamò un aiuto da parte dell’UE, che gli rispose con un misto di disprezzo e commiserazione.
Parlare di lassismo e «serenità d’animo» in tema di immigrazione equivale a occultare leggi criminali e criminogene come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini e i vari «pacchetti sicurezza». A produrre clandestinità non sono presunte politiche lassiste, bensì, all’opposto, politiche troppo restrittive e vessatorie, in parte disfunzionali anche dal punto di vista capitalistico, concepite per soddisfare una parte di elettorato il cui razzismo eccede quello strutturale e «sistemico» necessario a regolare il mercato del lavoro.
Una mistificazione presente in molti testi prodotti da Grillo e del suo movimento consiste nel dire che l’accoglienza ai migranti favorirebbe la Lega Nord. Al contrario, è la mancata accoglienza a favorirla. La Lega ha sempre avuto interesse a mantenere una situazione criminogena che producesse clandestinità e quindi disagio da additare e stigmatizzare.
A seguire, si capovolge la realtà: Grillo, in pratica, sostiene che l’Italia non avrebbe le risorse per mantenere gli immigrati. Ma secondo il «Sole 24 Ore», si dovrebbe proprio agli immigrati (l’8% della popolazione italiana) il 10% del nostro PIL. Gli immigrati lavorano, pagano contributi all’INPS e permettono all’ente di erogare le pensioni ai nostri anziani. Ammesso che abbia senso distinguere tra «noi» e «loro», sono loro a produrre le risorse per mantenere molti di noi.

5.d. Una volta dispersa la fuffa, del discorso grillino sui migranti non resta che il nocciolo razzista e fascistoide.

Wu Ming 1