28.7.10

Uccidere per il lavoro.

A Roma un uomo uccide il suo datore di lavoro da cui temeva di essere licenziato. A Lucca l´ex dipendente di un´azienda, che aveva perso il posto sei mesi fa, fa fuoco su due dirigenti, li ammazza e poi si suicida. Due tragedie in due giorni. Il lavoro come questione di vita o di morte, letteralmente: per il lavoro si uccide e ci si uccide.

La cronaca di questi mesi, non solo in Italia, ci ricorda che nei paesi sviluppati il lavoro - remunerato - non è solo il mezzo per ottenere il reddito necessario a soddisfare i propri bisogni, ma ciò che letteralmente legittima lo stare al mondo, proprio e altrui. Solo chi lavora in modo remunerato è un cittadino a pieno titolo, come ci ricordano innumerevoli documenti nazionali e internazionali. Il resto, incluso il lavoro non pagato, familiare o volontario, conta poco come fonte di riconoscimento sociale.
Non ci si può stupire allora se qualcuno, quando perde il lavoro, perde anche la testa e attenta alla propria o altrui vita. C´è chi uccide chi lo ha licenziato, ma c´è anche chi si uccide perché ha perso il lavoro e chi lo fa perché non è più in grado di garantirlo ai propri dipendenti. In tutti questi casi la perdita del lavoro, e della propria collocazione rispetto ad esso, sembra incrinare così fortemente le basi della identità individuale, della propria ragione d´essere e stare al mondo, che non vale più la pena di vivere. Altre dimensioni, altri rapporti - famigliari, di amicizia o altro - non sembrano riuscire a sostituire quel vuoto. Senza arrivare ad uccidersi c´è chi si isola, riduce i contatti sociali perché si vergogna o non si sente all´altezza, entra in depressione.
Sono fenomeni studiati già negli anni della grande depressione, negli anni trenta del Novecento. I sistemi di protezione sociale, in modo più o meno efficace e universale, hanno ridotto l´impatto negativo della perdita del lavoro sulle condizioni di vita quotidiana. Ma la centralità del lavoro nello strutturare l´identità soggettiva e sociale soprattutto dei maschi adulti è persino aumentata. Il lavoro è diventato insieme un dovere e un diritto. Allo stesso tempo, il soggetto da cui questo diritto si può esigere è sempre più de-personalizzato, de-localizzato, così come si sono de-localizzati i meccanismi e i luoghi dell´incontro tra la domanda e offerta di lavoro, come mostra da ultimo il caso Fiat.
Quando, invece, c´è vicinanza fisica, conoscenza personale, l´attribuzione delle responsabilità sembra più lineare, ma i cortocircuiti più facili. Il suicidio del piccolo imprenditore che non può più pagare gli stipendi e l´omicidio del proprio datore di lavoro da parte di chi è stato licenziato sono le due facce, opposte, dello stesso fenomeno: la personalizzazione estrema come reazione alla perdita del controllo. Il primo non regge il peso di una responsabilità che sente tutta sua, anche se è egli stesso vittima di meccanismi che non controlla del tutto. Il secondo concentra tutte le responsabilità del proprio fallimento sociale nella sola figura a lui nota nella catena delle circostanze che hanno portato al licenziamento.
Certo, sono casi estremi e non vanno generalizzati. E l´omicidio non ha giustificazioni. Ma varrebbe la pena di vederli come spie non solo del disagio oggettivo in cui si trova chi perde il lavoro oggi, senza realistiche speranze di trovarne un altro a breve, ma di una società fondata sul lavoro remunerato come fonte principe di identità personale e integrazione sociale. Una società che non è in grado né di garantire il lavoro né di offrire e sostenere altri modelli di identificazione possibile, meno totalizzanti nella loro unidimensionalità.

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