10.10.11

Slavoj Zizek in Liberty Plaza



SLAVOJ ZIZEK, il filosofo sloveno, il 9 ottobre ha parlato agli occupanti di Liberty Plaza, a New York. Quella che segue è una trascrizione parziale del suo discorso (dato che il sistema dei “microfoni umani” rende difficile sentire tutte le parole). Il testo è stato pubblicato dal sito www.occupywallst.org. DemocraziaKm0 lo ha tradotto.


… Ci dicono che siamo sognatori. I veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possono andare avanti all’infinito così come sono. Noi non siamo sognatori. Noi ci siamo svegliati da un sogno che si è trasformato in un incubo. Noi non vogliamo distruggere nulla. Noi siamo solo testimoni di come il sistema sta distruggendo se stesso. Tutti conosciamo le classiche scene dei cartoni animati. Il carrello arriva sull’orlo di un precipizio. Ma continua a camminare. Ignorando il fatto che non c’è nulla, sotto. Solo quando si guarda in basso e ci si rende conto, allora si cade giù. Questo è quello che stiamo facendo qui. I ragazzi qui a Wall Street stanno dicendo a chiunque: “Ehi, guarda giù!”. (Applausi).
Nel mese di aprile del 2011, il governo cinese vietato in tv, nei cinema e nei romanzi di tutte le storie che contengano una realtà alternativa o viaggi nel tempo. Questo è un buon segno per la Cina. Significa che la gente sa ancora sognare alternative, perciò bisogna vietare questo sogno. Qui non si pensa a un tale divieto. Poiché il sistema dominante ha soppresso la nostra capacità di sognare. Guardate i film che vediamo per tutto il tempo. E’ facile immaginare la fine del mondo. Un asteroide distrugge ogni forma di vita e cose così. Ma non potete immaginare la fine del capitalismo. Allora, cosa ci facciamo, qui? Lasciate che vi racconti una barzelletta meravigliosa dei vecchi tempi del comunismo.
Un ragazzo è stato inviato dalla Germania dell’Est a lavorare in Siberia. Lui sapeva che la sua posta sarebbe stato letta dalla censura. Così ha detto ai suoi amici: dobbiamo concordare un codice. Se la lettera che vi mando è scritta in inchiostro blu, quello che scrivo è vero. Se è scritta in inchiostro rosso, è falso. Dopo un mese ai suoi amici attiva la prima lettera. Tutta scritta in blu. Dice, la lettera: tutto è meraviglioso, qui. I negozi sono pieni di buon cibo. I cinema proiettano bei film occidentali. Gli appartamenti sono grandi e lussuosi. L’unica cosa che non si può comprare è l’inchiostro rosso.
Questo è il modo in cui viviamo. Abbiamo tutte le libertà che vogliamo. Ma ciò che ci manca è l’inchiostro rosso. La lingua per articolare la nostra non-libertà. Il modo in cui ci insegnano a parlare di guerra, di libertà e di terrorismo, e così via, falsifica la libertà. E questo è quello che state facendo qui: state dando a tutti noi dell’inchiostro rosso.
C’è un pericolo. Non innamoratevi di voi stessi. Passiamo dei bei giorni, qui. Ma ricordate: il carnevale è a buon mercato. Ciò che conta è il giorno dopo. Quando dovremo tornare alla vita normale. Will there be any changes then. Ci saranno dei cambiamenti, a quel punto. Non voglio che vi ricordiate di questi giorni, sapete, come – oh, eravamo giovani, era bellissimo. Ricordate che il nostro messaggio di base è: siamo autorizzati a pensare a delle alternative. Il sistema si è rotto. Non viviamo nel mondo migliore possibile. Ma c’è molta strada da percorrere. Ci sono domande davvero difficili che dobbiamo affrontare. Sappiamo quello che non vogliamo. Ma cosa vogliamo? Quale organizzazione sociale è in grado di sostituire il capitalismo? Che tipo di nuovi leader vogliamo?
Ricordate: il problema non è la corruzione o l’avidità. Il problema è il sistema che ti spinge a rinunciare. Attenzione: non solo i nemici. Ma anche i falsi amici che sono già al lavoro per diluire questo processo. Allo stesso modo in cuis i prende il caffè senza caffeina, la birra senza alcol, il gelato senza grassi. Cercheranno di fare di tutto questo una innocua protesta morale. (parole incomprensibili)… Ma il motivo per cui siamo qui è che ne abbiamo abbastanza di un mondo dove riciclare lattine di coca cola… Dove l’uno per cento va ai bambini affamati del mondo. E questo è sufficiente per farci stare bene.  (…)
Possiamo vedere che per molto tempo abbiamo permesso che anche il nostro impegno politico fosse esternalizzato. Lo rivogliamo indietro. Noi non siamo comunisti. Se “comunismo” vuol dire il sistema che è crollato nel 1990, ricordate che oggi i comunisti sono i capitalisti più efficienti e spietati. In Cina oggi abbiamo un capitalismo ancora più dinamico del vostro capitalismo americano, e che non ha bisogno della democrazia. Il che significa che quando voi criticate il capitalismo, non lasciatevi ricattare da chi dice che così si è contro la democrazia. Il matrimonio tra democrazia e capitalismo è finito.
Il cambiamento è possibile. Allora, cosa consideriamo oggi possibile? Basta seguire i media. Da un lato la tecnologia e la sessualità, e tutto sembra essere possibile. Si può viaggiare sulla luna. Si può diventare immortali grazie alla biogenetica. Ma guardate ai campi della società e dell’economia. Quasi tutto è considerato impossibile. Si vogliono aumentare un pochino le tasse a i ricchi, e ti dicono che è impossibile, perdiamo competitività. Volete più soldi per l’assistenza sanitaria: ti dicono che è impossibile, perché significa creare uno uno stato totalitario. C’è qualcosa che non va, in un mondo in cui vi è stato promesso che sarete immortali, ma dove non si può spendere un po’ di più per l’assistenza sanitaria. (parole incomprensibili)… impostare le nostre priorità direttamente qui. Non vogliamo più elevati standard di vita. Noi vogliamo un migliore tenore di vita. L’unico senso in cui qui ci sono comunisti è che ci preoccupiamo per i beni comuni. Il bene comune della natura. I beni comuni che vengono privatizzati dalla proprietà intellettuale. I beni comuni della biogenetica. Per questo e solo per questo dovremmo combattere.
Il comunismo ha fallito assolutamente. Ma i problemi dei beni comuni sono qui. Ci dicono che non siamo americani qui. Ma ai fondamentalisti conservatori che sostengono che essi sì, sono veramente americani, deve essere ricordato qualcosa. Che cos’è il cristianesimo? E’ lo Spirito Santo. Cos’è lo Spirito Santo? E’ una comunità egualitaria di credenti legati da amore reciproco. E che hanno solo la propria libertà e la responsabilità di esercitarla. In questo senso lo Spirito Santo è qui ora. E giù a Wall Street ci sono i pagani che adorano idoli blasfemi. Quindi tutto quello che serve è la pazienza. L’unica cosa che mi fa paura è che star qui un giorno solo e andare a casa: poi ci si riunisce una volta all’anno, beviamo birra e nostalgia ricordando ciò che bei giorni abbiamo avuto qui. Promettiamo a noi stessi che non andrà così.
Sappiamo che spesso le persone desiderano qualcosa, ma in realtà non lo vogliono. Non abbiate paura di volere davvero ciò che desiderate. Vi ringrazio molto!




La Klein in Piazza Liberty, con i manifestanti davanti Wall Street: http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/naomi-klein-in-liberty-plaza.html
Appello "Noi il debito non lo paghiamo": 
Appello della rete RibAlta-Alternativa Ribelle "In piazza per salvare il Paese": http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/il-15-ottobre-in-piazza-per-salvare-il.html 
Appello "Uniti per l'Alternativa":
L'adesione di De Magistris:






7.10.11

Naomi Klein in Liberty Plaza.

Questo discorso della scrittrice canadese, autrice di “No logo” e di “Shock economy”, è stato pronunciato in Liberty Plaza, il parco occupato a New York, il 6 ottobre, ed è stato pubblicato sul giornale del movimento “Occupied Wall Street Journal”. Democrazia Km0 lo ha tradotto in italiano.


Ho avuto l’onore di essere invitata a parlare a Occupy Wall Street nella notte di giovedi. Dal momento che l’amplificazione è (disgraziatamente) bandita, e tutto quello che dico è stata ripetuta da centinaia di persone in modo che gli altri potessero sentire (è il “microfono umano”), quello che ho detto in Liberty Plaza è stato davvero molto breve. Tenendo questo presente, ecco la più lunga, e integrale, versione del discorso.
Vi amo.
E appena l’ho detto, ho sentito centinaia di voi gridare dir imbalzo “ti amo”, anche se questo è ovviamente un vantaggio del microfono umano. Dite agli altri ciò che vorreste fosse detto a voi, solo con un tono di voce più forte.
Ieri, uno degli oratori alla manifestazione del lavoro ha detto: “Ci siano trovati l’un l’altro”. Questo sentimento cattura la bellezza di ciò che viene creato qui. Un ampio spazio aperto (anche se un’idea così grande che non può essere contenuta da nessuno spazio) per tutte le persone che vogliono un mondo migliore e vogliono trovare l’altro.
Se c’è una cosa che so, è che l’1 per cento ama la crisi. Quando la gente è nel panico e disperata, e nessuno sembra sapere cosa fare, che è il momento ideale per far passare la loro lista dei desideri delle politiche a favore delle imprese: privatizzare l’istruzione e la sicurezza sociale, tagliare i servizi pubblici, eliminare gli ultimi ostacoli potere delle multinazionali. Grazie alla crisi economica, questo sta accadendo in tutto il mondo.
E c’è solo una cosa che può bloccare questa deriva, e per fortuna, è una cosa molto grande: il 99 per cento. E che il 99 per cento scenda in piazza, da Madison a Madrid, per dire “No, noi non pagheremo la vostra crisi “. Slogan che ha esordito in Italia nel 2008. E ‘rimbalzato verso la Grecia e la Francia e l’Irlanda e, infine, ha preso la strada del miglio quadrato in cui è iniziata la crisi.
“Perché stanno protestando?”, chiedono gli esperti, sconcertati, in tv. Nel frattempo, il resto del mondo chiede: “Perché ci hanno messo tanto tempo?”. E soprattutto: “Benvenuti”.
Molte persone hanno paragonato Occupy Wall Street alla cosiddetta protesta anti-globalizzazione che si è imposta all’attenzione mondiale a Seattle nel 1999. Quella è stata l’ultima occasione globale, creata dai giovani, di un movimento diffuso che prendesse di mira il potere delle multinazionali. E io sono orgogliosa di aver fatto parte di quello che abbiamo chiamato “il movimento dei movimenti”.
Ma ci sono differenze importanti, tra allora ed oggi. Per esempio, allora scegliemmo i grandi vertici come nostri bersagli: l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale, il G8. I vertici sono transitori per loro natura, durano solo una settimana. Che ha reso anche noi troppo transitori. Noi siamo apparsi, abbiamo conquistato le prime pagine mondiali, poi siamo scomparsi. E nella frenesia di super-patriottismo e di militarismo che seguì l’11 settembre degli attacchi, fu facile per spazzarci via completamente, almeno in Nord America.
Occupy Wall Street, invece, ha scelto un bersaglio fisso. E non avete stabilito alcuna data per la fine sulla vostra presenza qui. Questo è saggio. Solo quando si può restare, si possono far crescere radici. Questo è fondamentale. E ‘ un fatto dell’era dell’informazione che troppi movimenti spuntino come fiori bellissimi ma rapidamente muoiano. Dipende dal fatto che non hanno radici. E non hanno piani a lungo termine su come continuare a sostenersi. Così, quando le tempeste finiscono, vengono spazzati via.
Essere orizzontali e profondamente democratici è meraviglioso. Ma questi principi sono compatibili con il duro lavoro di costruire strutture e istituzioni robuste abbastanza per reggere le tempeste a venire. Ho grande fiducia che questo accadrà.
Qualcos’altro molto giusto questo movimento sta facendo: avete impegnato voi stessi alla non violenza. Vi siete rifiutati di offrire ai media immagini di vetrine rotte e di scontri di strada che essi desiderano disperatamente. E il controllo tremendo ha fatto sì che, ancora e ancora, la storia sia consistita nella brutalità vergognosa e gratuita della poliziaa. Quel che abbiamo visto solo la scorsa notte. Nel frattempo, il sostegno a questo movimento cresce e cresce. Più saggezza.
Ma la differenza più grande rispetto a un decennio fa è che nel 1999 avevamo di fronte un capitalismo al culmine di un boom economico frenetico. La disoccupazione era bassa, i portafogli azionari erano gonfi. I media erano ubriachi sul denaro facile.
Abbiamo sottolineato che la deregolamentazione che abbiamo alle spalle ha presentato il conto. Un attacco ai del lavoro. Un attacco ai diritti ambientali. Le multinazionali sono diventate diventando più potenti dei governi e questo è stato un danno per le nostre democrazie. Ma per essere onesta con voi, i bei tempi correvano, grazie a un sistema economico basato sull’avidità, almeno nei paesi ricchi. Dieci anni dopo, è come se non ci fossero più i paesi ricchi. C’è solo un bel po’ di gente ricca. Quelli che si sono arricchiti con il saccheggio dei beni pubblici ed esaurendo le risorse naturali in tutto il mondo.
Il punto è che oggi tutti possono vedere come il sistema sia profondamente ingiusto e sia fuori controllo. L’avidità senza freni ha distrutto l’economia globale. Ed ha distrutto il mondo naturale. Facciamo una pesca eccessiva nei nostri oceani, inquinando la nostra acqua con perforazioni in acque profonde, cercando le più sporche forme di energia sul pianeta, come il catrame nelle sabbie dell’Alberta (regione del Canada, ndt). E l’atmosfera non riesce ad assorbire la quantità di carbonio che stiamo emettendo, creando così un riscaldamento pericoloso dell’atmosfera. La nuova normalità sono i disastri in serie: economici ed ecologici.
Questi sono i fatti sul terreno. Sono così esplicita, così chiara, perché è molto più facile entrare in contatto con il pubblico di quanto non fosse nel 1999, e per aiutare a costruire il movimento in fretta.
Sappiamo tutti, o almeno intuiamo, che il mondo è capovolto: ci comportiamo come se non ci fosse una fine a ciò che è realmente finito: i combustibili fossili e lo spazio atmosferico di assorbire le loro emissioni. E ci comportiamo come se non ci fossero limiti rigorosi e immodificabili.
Il compito del nostro tempo è quello di cambiare questa situazione: per sfidare queste scarsità false. Insistere sul fatto che possiamo permetterci di costruire una decente, inclusiva società-e al tempo stesso, rispettare i limiti reali della terra.
I cambiamenti climatici significano che dobbiamo fare questo guardando a una scadenza. Questa volta il nostro movimento non può distrarsi, dividersi, bruciarsi o lasciarsi spazzare via dagli eventi. Questa volta abbiamo tutto per avere successo. E non sto parlando di imporre regole alle banche e di aumentare delle tasse ai ricchi, anche se questo è importante. Sto parlando di cambiare i valori di base che governano la nostra società. Ed è difficile farlo adattandosi a porre un’unica domanda comprensibile dai media. Ed è anche difficile capire come farlo. Ma non è meno urgente che difficile.
Questo è quel che vedo accadere in questa piazza. Nel modo in cui vi state incoraggiando a vicenda, mantenendo gli altri attivi, nella libera condivisione delle informazioni e organizzando una assistenza sanitaria, o corsi di meditazione e formazione all’empowerment. Il mio cartello preferito, qui, dice: “Mi importa di te.” In una cultura che addestra la gente ad evitare lo sguardo dell’altro, per spongere a dire: “Lascia che muoia”, quella è una dichiarazione profondamente radicale.
Qualche considerazione finale. In questa grande lotta, qui ci sono alcune cose che non contano.
§ Cosa indossiamo.
§ Che alziamo i pugni o alziamo cartelli di pace.
§ Che noi rendiamo i nostri sogni per un mondo migliore utlizzabili dai media.
Invece ci sono alcune cose che contano.
§ Il nostro coraggio.
§ La nostra bussola morale.
§ Come ci trattiamo l’un l’altro.
Abbiamo scelto di lottare con le forze economiche e politiche più potenti del pianeta. Questo fa paura. E man mano che questo movimento crescerà, il suo obiettivo farà ancora più paura. Dobbiamo sempre essere consapevoli che ci sarà la tentazione di passare a piccoli obiettivi, come, ad esempio, la persona che è seduta accanto a voi in questo incontro. Dopo tutto, è una battaglia più facile per vincere.
Non dovete cedere alla tentazione. Questa volta, cerchiamo di trattare gli altri come se avessimo intenzione di lavorare fianco a fianco con loro nella lotta per molti, molti anni a venire. Perché il compito che abbiamo che richiederà niente di meno.
Facciamo in modo di trattare questo bel movimento come se fosse cosa più importante del mondo. Perché lo è. Lo è per davvero.

6.10.11

Una comunità dei beni comuni contro il "neo-totalitarismo capitalista" di Riccardo Pietrella


In un mondo disintegrato umanamente e socialmente, da dove ripartire per ricreare le condizioni per un modello culturale, politico ed economico alternativo che sappia ricucire le ferite inferte alla vita dal “neo-totalitarismo capitalista”? Da dove ripartire per ricreare le condizioni per una società in pace e solidale in cui il bene di ognuno possa riconciliarsi con il bene di tutti; una società in cui le persone possano convivere non solo per indignarsi ma anche per innamorarsi insieme della terra, del lavoro, dell’energia, dell’acqua, dell’aria, dell’ambiente, della conoscenza, della sicurezza? Da una comunità di cittadini che a livello locale, nazionale ed europeo possa prendere le decisioni che contano senza delegare questo diritto agli stessi responsabili della disintegrazione.
di Riccardo Petrella, da sbilanciamoci.org
Si può parlare di disintegrazione europea per una duplice ragione. Primo:la storia degli ultimi 30 anni (a partire dal 1971-73) in Europa è, in generale, la storia di una sempre più marcata regressione rispetto all’obiettivo dell’integrazione politica dell’Europa. Questa appare, nella testa delle attuali classi al potere, più lontana e impossibile di quanto lo fosse agli occhi degli europei di 60 anni fa. Secondo: la sottomissione voluta dai poteri forti dell’Unione europea al neo-totalitarismo capitalista ha disintegrato il tessuto sociale ed economico delle società europee. L’Europa è diventata un arcipelago di tante isole diverse, diseguali, internamente fratturate da forti ineguaglianze e sbattute da venti di esclusione verso l’esterno. Si potrebbe analizzare una terza ragione, la disintegrazione ecoambientale (rapporti esseri umani-natura), ma questa, per quanto estremamente importante per il divenire delle società, va ben al di là del contesto specificamente europeo.
La disintegrazione politica
Le classi dirigenti del secondo dopoguerra crearono nel 1951 la prima «comunità europea» (la Ceca, la comunità del carbone e dell’acciaio), dotata di poteri sovranazionali e mirante alla messa in comune di due risorse industriali chiave di grande importanza strategica per l’economia dell’epoca. In pochi anni, le speranze riposte nella Ceca, e poi nell’Euratom creata sei anni dopo, si infransero di fronte alla resistenza feroce dei poteri forti degli Stati membri (erano solo sei) i quali riuscirono – soprattutto la Francia e meno apertamente la Germania – a boicottare e far saltare de facto la sovranazionalità della Ceca e dell’Euratom. La creazione nel 1961 della Comunità economica europea (Cee, detta Mec – Mercato Comune) sempre a sei, segnò la prima grande regressione e la vittoria delle tesi funzionaliste in materia d’integrazione tra Stati sovrani.Secondo le tesi funzionaliste – sposate dalla grande maggioranza delle élite europee, auto dichiaratesi realiste, pragmatiche e possibiliste – l’integrazione politica dell’Europa sarebbe stata realizzata solo mettendo anzitutto insieme gli interessi economici. Essa doveva avvenire per fasi graduali, la prima essendo quella della creazione di un mercato unico (libera circolazione interna delle risorse, dei beni, dei prodotti, dei servizi). L’integrazione dei mercati avrebbe condotto alla seconda fase: la convergenza delle strutture economiche, la quale a sua volta avrebbe condotto necessariamente alla definizione e realizzazione di politiche europee comuni. Considerato che nessuna politica economica comune avrebbe potuto affermarsi solidamente in assenza di una moneta comune, il funzionalismo sosteneva che le politiche comuni avrebbero imposto e condotto alla creazione di una moneta unica e quindi, inevitabilmente, alla politica monetaria e finanziaria europea. Per essere efficace, questa avrebbe richiesto un potere politico europeo: l’integrazione politica sarebbe arrivata così all’appuntamento. «Dal mercato al potere politico europeo» attraverso l’economia, le politiche economiche comuni e poi la moneta comune.Sappiamo com’è andata: in 50 anni, l’Europa ha costruito un (quasi) mercato unico di risorse, merci, beni e servizi, e si è data una moneta unica (per quasi tutti i paesi dell’Ue), ma il mercato unico non ha indotto la convergenza economica e le politiche economiche comuni. In Europa non si parla più di «politiche comuni», ma di coordinamento delle politiche degli Stati membri. Né la moneta comune, l’euro, ha partorito il governo politico integrato, anzi ha prodotto il contrario, ha affossato il poco di potere politico europeo rappresentativo costruito nel frattempo. In effetti, con la creazione della Banca centrale europea (Bce), soggetto titolare della politica monetaria europea e costituzionalmente indipendente dalle altre istituzioni, la moneta unica ha tolto il potere monetario e finanziario agli Stati membri senza però trasferirli a un potere politico dell’Unione. Se la Bce è politicamente indipendente dai governi degli Stati e dalle istituzioni europee, essa non lo è, però, nei confronti dei mercati finanziari europei e mondiali. Secondo il suo proprio dire, la Bce non fissa il valore dell’euro, il suo «prezzo», via il tasso d’interesse. Le sue manovre sui tassi sono fatte esclusivamente in reazione ai mercati finanziari (abbassamenti, per riscaldare un’economia europea indecisa o infreddolita; aumenti, per ridurre l’eccitazione surriscaldata dei mercati). Lo stesso vale per i suoi interventi sulla massa monetaria, agendo come qualsiasi operatore privato (acquistando o vendendo beni e prodotti finanziari) sperando nella buona reazione dei mercati. In questo quadro, alla fine, sono i mercati finanziari che dettano la politica monetaria e finanziaria dell’Europa. Come si vede negli ultimi mesi, il futuro dell’Europa dipende in maniera crescente non più dai capitali europei e americani ma dai capitali cinesi che stanno facendo acquisti in massa di imprese, fabbriche, marchi e beni europei. I «responsabili» europei se la cavano dicendo: «in una società capitalista non c’è nessun male in ciò. Ieri abbiamo dominato i cinesi. Oggi la ruota va in senso contrario. Punto». Ma lo spettacolo della debolezza strutturale e della disunione politica dell’Europa di fronte alla potenza schiacciante e micidiale dei soggetti finanziari, speculatori per di più, e persino delle società private di rating induce una smorfia di rabbia e di indignazione.
La disintegrazione sociale ed economica
Quanto sopra descritto è stato possibile perché, in coerenza con il sistema di valori che le ha indotte a sposare le tesi funzionaliste, le classi dirigenti europee hanno aderito, a partire dagli anni ‘70, ai dogmi del neo-totalitarismo capitalista espressi dalla “Teologia Universale Capitalista”, la quale ha fatto credere, come dogma di fede, che non vi è alternativa al sistema capitalista, al dio trino del capitale-mercato-impresa privata, alle dee della competitività e dell’efficienza, al sommo pontefice del management.
Quest’Europa ha smantellato con voluta pervicacia la sola forma reale d’integrazione politica e sociale che si era sviluppata e consolidata nei vari paesi europei tra gli anni ‘50 e ‘70, e cioè lo Stato del welfare. Senza essere stato europeizzato sul piano istituzionale, il sistema del welfare aveva dato una certa coesione e caratteristiche comuni alle relazioni tra i cittadini europei, un italiano potendo andare a farsi curare in Danimarca o in Belgio, una studentessa irlandese potendo completare la formazione universitaria in Germania o in Grecia. Aver messo sempre di più i beni e i servizi del welfare sul mercato ha mercificato e monetarizzato il vivere insieme e sottomesso i 500 e più milioni di cittadini dell’Ue attuale alla dittatura dei rendimenti finanziari a breve termine. L’Europa – da Schroeder a Jospin, da Prodi a Blair, da Amato a Dehaene, da Gonzales a Rasmussen, da Ciampi a Trichet, da Bersani a Barroso, dalla Suez alla Fiat, dalla Danone alla Nestlé, da Nokia alla Philips, dalla Volkswasgen alla Eni, dalla Basf a Ikea, dalla British Telecom alla Trenitalia… – ha voluto e continua a voler mercificare tutto, beni e servizi. Continua imperterrita ad affermare, malgrado gli sfasci economici, sociali e ambientali provocati da tali “soluzioni”, che il nostro futuro dipende dalla competitività, dalle liberalizzazioni, dalle deregolamentazioni, dalle privatizzazioni, dall’arricchimento dei pochi e dai sacrifici dei molti, i più impoveriti. Essa è, infine, all’origine della formazione di un’oligarchia finanziario-commerciale e tecno-burocratica culturale la quale sta mettendo sempre più apertamente in crisi i principi di giustizia sociale, di eguaglianza nei diritti, e la democrazia rappresentativa.
L’idea della ricerca affannosa di una «governance economica europea», una costruzione lontana anni luce dall’Europa socialmente più giusta e pacifica e dal governo politico integrato europeo promessi 50 anni fa, la dice lunga sulla gravità della condizione degli europei oggi. Che l’asse della strategia 2020 dell’Ue sia diventata una «resource efficient Europe» rivela l’ampiezza del compito di ricostruzione che ci aspetta.
Il pragmatismo economicista totalitario del grande blocco ideologico-sociale europeo delle classi dirigenti nate negli anni ‘50 è fallito miseramente. Bisogna ri-cominciare.
Ri-cominciare dalla «comunità» di cittadini
Ri-cominciare da che cosa, con cosa e come? Le «vecchie» élite europeiste, anche fra chi è giovane d’età, pensano che la soluzione chiave sia di natura istituzionale. A tal fine, riprendendo l’approccio funzionalista alla rovescia, affermano che la formazione di un minimo di governo federale europeo è necessario per ripartire verso politiche comuni e verso un’Europa democratica, socialmente più giusta, solidale e aperta al mondo. C’è una buona parte di vero e di giustificato in siffatto approccio, ma non mi sembra soddisfacente. Un minimo di governo federale europeo per fare cosa? Rinviare la risposta a dopo è troppo semplice e pericoloso. Un governo europeo per meglio favorire la competitività interna e mondiale delle imprese, delle città e delle regioni europee più forti, più ricche? Per mettere l’Europa in condizioni di essere più «resource efficient» per i capitali investiti? Per meglio gestire la politica estera imposta dalla Francia, dalla Germania e dal Regno Unito?
La soluzione è quella che unifica l’approccio istituzionalista (ripartiamo dal governo federale europeo) e l’approccio sociale (partiamo dai contenuti politici).
Oggi il legame tra i due approcci è diverso da quello che sarebbe stato utile 60 anni fa, e anche 30 anni fa. Il legame è la «comunità» perché è il vivere insieme, «fare comunità», che è stato maciullato dall’Europa di questi anni. Occorre, quindi, ri-cominciare dal «fare comunità», e in particolare dal «fare comunità europea». Occorre ri-cominciare con le strategie di disarmo dei poteri finanziari. Infine, si deve ri-cominciare dando ai cittadini il potere che è loro, valorizzando e rivivificando i parlamenti rappresentativi – locali, regionali, nazionali e il Parlamento europeo – con l’adozione di metodi e pratiche di democrazia partecipata.
È superfluo dirlo, ma ri-cominciare significa posizionarsi su una prospettiva di due-tre decenni di grandi battaglie politiche, economiche e sociali. Il che non significa che non si debba subito tentare di cominciare dall’essenziale e «vincere» su obiettivi parziali a breve termine, ma determinanti.
Ri-cominciare dalla comunità, da «fare comunità» è essenziale perché quel che è stato atomizzato e polverizzato è il senso della comunità, al di là delle comunità di interessi immediati, tra vicini, tra affini. È stato sbriciolato il senso dello Stato, e non vi è democrazia né giustizia né libertà senza senso della comunità e dello Stato. A tal fine la priorità è arrestare a livello europeo la mercificazione dei beni essenziali e insostituibili per la vita e il vivere insieme. Si tratta di togliere alle logiche del mercato e della finanza privata il governo dei beni comuni. Propongo, a tal fine, che tutti i movimenti europei per un’altra società, un’altra economia, un’altra Europa, un’altra finanza, un’altra democrazia, un’altra sostenibilità, un’altra città, un’altra educazione, un’altra etica, un’altra immigrazione, si diano come obiettivo comune una campagna per la promozione di una Comunità europea dei beni comuni. Si tratterebbe di una Comunità dotata di poteri sovranazionali per quanto riguarda la terra, il lavoro, l’energia, l’acqua, l’aria, l’ambiente, la conoscenza, la sicurezza (nelle sue declinazioni essenziali: militare, energetica, alimentare, idrica, finanziaria). Una Comunità non verticale, piramidale, tecnocratica, ma fondata sull’integrazione di 100 e più comunità regionali dei beni comuni dotate delle responsabilità, competenze e mezzi di base per «fare comunità» al loro livello, rappresentante un livello costruttivo di identità, di appartenenza e di solidarietà. Tali comunità regionali, evidentemente, svolgeranno correttamente il ruolo loro solo se saranno a loro volta fondate sulla promozione e il sostegno delle «comunità locali». Non è mia opinione che sia necessario far saltare le «comunità nazionali» anche se, come dimostrano i casi belga, spagnolo e italiano, il «nazionale» può diventare un ostacolo anchilosante maggiore a «far comunità» nel senso nuovo desiderato e vissuto dalle nuove generazioni.
Per fare la «comunità europea dei beni comuni» occorre disarmare la finanza privata, liberando le nostre società dalla loro sottomissione ai soggetti finanziari. Le soluzioni immediate, realizzabili, sono note: mettere fine all’indipendenza politica della Banca centrale europea, stabilire una regolazione monetaria e finanziaria a livello della comunità europea mediante la messa fuorilegge delle transazioni speculative sui mercati dei derivati, togliere la legittimità di valutazione dello stato di salute economica di un paese, di un’impresa, di una banca, di una città, di una regione, alle cinque società principali private di rating e stabilire un sistema di valutazione pubblico, trasparente come quello emesso in piedi dall’Undp sugli indicatore di povertà umana. Ridare alle comunità locali, regionali, nazionali e alla comunità europea dei beni comuni il potere sulle istituzioni di credito (oggi esse sono tutte private) rappresenta una condizione necessaria e indispensabile per un’altra Europa, un’altra economia, un’altra città.  Se non si modifica radicalmente il sistema creditizio non vi è speranza per un altro cammino.
Per questo, è necessario ri-cominciare con il dare la responsabilità ai cittadini. La delega della responsabilità agli eletti è stato il salto storico maggiore nel funzionamento politico e socio-culturale delle nostre società. Oggi, però, esso rivela dei limiti strutturali, la conoscenza, la comunicazione, le informazioni, gli spazi pubblici possibili, i meccanismi identitari e decisionali collettivi, essendo profondamente differenti da quelli in atto 40 o 30 anni fa. Il mondo capitalista ha fatto tesoro di questi mutamenti imponendo il primato del consumatore auto-organizzato al ruolo del cittadino. La partita non è chiusa per sempre. Le varie primavere, anche recenti, hanno dimostrato che il cittadino è un fuoco che non si spegne mai. La parola «cittadino» è possente. Se sono messi in condizione di farlo, i cittadini preferiscono la responsabilità alla servitù. Occorre che il parlamento europeo, come i parlamenti regionali e locali, riorganizzino il loro funzionamento allo scopo di adottare metodi e mezzi sempre più intensi ed efficaci di partecipazione dei cittadini. L’enorme scandalo rappresentato dal governo italiano che rifiuta di applicare i risultati dei referendum abrogativi sull’acqua rappresenta l’ultimo esempio flagrante di una classe dirigente europea becera, incivile, che ha buttato alle ortiche il senso dello Stato e disprezza con malvagità le decisioni dei cittadini. La «Comunità europea dei beni comuni» sarà cittadina o non sarà.

3.10.11

Il 15 ottobre in piazza per salvare il Paese

Il 15 ottobre ci riprendiamo la piazza perché nei nostri sogni esiste un altro mondo.

Il 15 ottobre anche noi saremo in piazza con gli “indignati” d’Europa: indignati come chi subisce un torto e vuole giustizia, indignati come chi è stato derubato in modo sistematico da chi tiene i cordoni della Borsa, muove i fili invisibili delle banche e occupa le stanze dei bottoni.
Ci hanno cresciuto nel culto di un sistema economico che ci chiedeva flessibilità, “spirito d’impresa” e sacrifici promettendo ricchezza.
Siamo diventati precari, apprendisti sfruttati, stagisti non pagati, studenti universitari vessati da tasse sempre più alte e finanziamenti sempre più bassi.
Abbiamo comprato i loro prodotti, rinunciato a mutui e pensioni.
Abbiamo perso diritti sul lavoro conquistati con anni di lotte dai nostri nonni e dai nostri padri.
Non abbiamo rappresentanza nel Parlamento, complice una politica che si è ripiegata nel suo fortino, per rappresentare interessi ben precisi.
E ora che questo sistema improntato al “produci-consuma-crepa” crolla come un gigante dai piedi d’argilla, nonostante le molte ingiustizie su cui negli anni si era puntellato, gli stessi che ci hanno condotti verso il baratro vogliono che paghiamo ancora.
Quando alzavamo la voce, dicendo che oltre che ingiusto questo sistema era sbagliato, iniquo e irrazionale, ci chiamavano cassandre.
E come la Cassandra del mito classico avevamo ragione.
La nostra è una indignazione non autosufficiente, che parte da lontano, attraversa Genova dal 2001 al 2011, e non finisce.
La nostra indignazione percorre gli stessi sentieri di chi vuole costruire un’alternativa, di chi sa che questo non è il solo modo di far andare le cose.
Noi ne conosciamo uno più giusto ed equo,abbiamo proposte e pretendiamo di essere ascoltati.
Scenderemo in piazza il 15 ottobre perché in Parlamento si discute di dove e come prendere i soldi ma nessuno contesta per cosa si devono usare.
Noi pensiamo che “tranquillizzare i mercati” sia un tributo di sangue ad una divinità malevola, una ricetta impiegata troppe volte in passato e che non risolve il problema.
Noi crediamo che i soldi vadano presi dove ce ne sono, da chi finora ha pagato poco o nulla.
Con l’istituzione della patrimoniale, una lotta vera all’evasione fiscale nelle sue diverse forme, con la tassazione delle rendite finanziarie. Noi crediamo che i soldi vadano tolti, per esempio, alle scuole private, alla Chiesa Cattolica, alle spese militari, al finanziamento sistematico alla cultura del profitto, dell’impresa, della religione, della guerra e della morte.
Dobbiamo investire su una società dei saperi, sulla ricerca, sull’istruzione, e non regredire in un regime dello sfruttamento, di un capitalismo “straccione”, dell’Europa delle banche e della finanza.
Il 15 ottobre manifesteremo perché il destino dello stato sociale e della qualità della vita nel nostro Paese nei prossimi anni sta per essere determinato da organismi sovranazionali e lobby economiche che nessuno ha eletto. Siamo un paese commissariato e sull’orlo del baratro, e vogliamo riprenderci la democrazia che ci è stata espropriata da questa destra antirepubblicana, clericale ed eversiva.
 Il 15 ottobre manifesteremo perché dietro alla manovra Sacconi c’è la cancellazione di fatto di ogni garanzia sui contratti di lavoro nel nostro Paese e lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori (compreso l’articolo 18 che gli italiani hanno già difeso in passato) e quindi la Costituzione. Il 15 ottobre saremo in piazza perché non siamo ancora rassegnati: chi tiene in mano le redini del Paese lo sta distruggendo e spetta a noi salvarlo.

Alternativa Ribelle (RibAlta)





Altri articoli:
Appello "Noi il debito non lo paghiamo": 
Appello della rete RibAlta-Alternativa Ribelle "In piazza per salvare il Paese": http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/il-15-ottobre-in-piazza-per-salvare-il.html
Appello "Uniti per l'Alternativa":
L'adesione di De Magistris:
La Klein in Piazza Liberty, con i manifestanti davanti Wall Street: http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/naomi-klein-in-liberty-plaza.html

1.10.11

La lettera segreta della Bce a Berlusconi

Riportiamo di seguito la lettera della Banca Centrale Europea a Silvio Berlusconi, in merito alla crisi economica e alle riforme "necessarie" al nostro Paese. Non la commentiamo perché siamo convinti che non necessiti di spiegazioni: è fin troppo chiara nella sua crudeltà. Segnaliamo soltanto che alcune delle cose suggerite sono state inserite in Finanziaria, molte riprese dalle proposte della Confindustria e l'intera lettera è ritenuta "il punto di partenza dell'alternativa a Berlusconi" da parte di Enrico Letta, vice segretario del Partito Democratico.


Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.

Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo.
Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

29.9.11

Appello: Noi il debito non lo paghiamo.

La grande manifestazione del 15 ottobre vedrà scendere in piazza, assieme, tante soggettività differenti, che si presentano a quella data seguendo strade (fatte di contenuti, critiche e proposte) differenti.

Pubblichiamo di seguito l'appello Noi il debito non lo paghiamo, primo firmatario Giorgio Cremaschi. A Macerata si è riunito martedì il Coordinamento per il 15 ottobre, che coinvolge tante realtà e singoli cittadini indignati che vogliono costruire una società diversa, equa e giusta.

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Appello: Noi il debito non lo paghiamo

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.
Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile. La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.
Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale. L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati. L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.
Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla  di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.
La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.
Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.
Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.
Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1.    Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2.    Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3.    Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4.    I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5.    Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.
Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.
Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.
Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.



Altri articoli:
Appello "Noi il debito non lo paghiamo": 
Appello della rete RibAlta-Alternativa Ribelle "In piazza per salvare il Paese": http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/il-15-ottobre-in-piazza-per-salvare-il.html
Appello "Uniti per l'Alternativa":
L'adesione di De Magistris:
La Klein in Piazza Liberty, con i manifestanti davanti Wall Street: http://lgsmacerata.blogspot.com/2011/10/naomi-klein-in-liberty-plaza.html