26.12.11

Recensione di “Beni comuni” di Ugo Mattei

di Stefano Casulli, 
articolo uscito anche su www.vialiberamc.it, il portale di riferimento della Rete dei movimenti per i beni comuni di Macerata.


La crisi economica di questi anni si va configurando sempre più come una crisi di sistema, in grado di determinare un cambiamento nell'organizzazione sociale e politica.
Se per un verso vengono al pettine contraddizioni che già negli anni Novanta erano state denunciate dal movimento altermondista e dagli studi più avanzati dell'epoca, d'altra parte dobbiamo inserire l'analisi e la pratica politica all'interno di quella che è una vera e propria congiuntura. Un punto di passaggio, d'indecisione, di ridefinizione degli equilibri. Possiamo leggere il carattere emergenziale di questa fase storica in senso letterale: emerge ora il futuro, emergono ora le potenzialità generative del mondo nuovo.

Le analisi di questo periodo riconoscono la duplice valenza congiunturale ed emergenziale della nostra fase storica: Beni Comuni, breve testo di Ugo Mattei pubblicato nel settembre 2011, si configura così come un'analisi sistemica ed allo stesso tempo come un manifesto programmatico aperto. Riconosce l'esigenza di andare a fondo teoricamente nella comprensione delle dinamiche globali e locali che vanno producendosi in questi mesi ed allo stesso tempo si inserisce sul solco politico-pratico dei referendum italiani, delle primavere mondiali, delle manifestazioni degli indignados, delle altrepratiche proliferanti nel tessuto sociale diffuso, come testimoniato anche nella città di Macerata dalla Rete dei Beni Comuni, dal Coordinamento per l'Acqua Bene Comune e dal progetto Cose dell'altro mondo, che vedono coinvolte decine di realtà del territorio.

Scrive Mattei nell'Introduzione:

Ritengo fondamentale, nello studio dei beni comuni, la piena integrazione tra ambito teorico e prassi politico-sociale, perché la piena tutela dei beni comuni richiede innanzitutto la piena coscienza politica della loro centralità. (pag. XIII)

Il testo si compone di 4 capitoli:
nel primo si affronta il contesto giuridico-politico attuale, all'interno del quale i nuovi assetti della globalizzazione economica e sociale rendono maturi i tempi per una riemersione del comune;
nel secondo, si riprendono le radici storiche delle istituzioni moderne, dove oggi il comune si trova intrappolato tra la proprietà privata e lo Stato sovrano;
nel terzo, si opera un'analisi fenomenologica del bene comune, ridefinendone il carattere contestuale e la natura relazionale;
nel quarto, di evidenziano le possibilità ed i limiti di un ritorno al comune.

Non volendo qui riassumere il testo, mi limito a segnalarne i principali passaggi ed i nodi concettuali, nella convinzione che le nostre pratiche glocali necessitino di un approfondimento teorico in grado di restituire la visione d'insieme che sola può permettere di costruire reti e resistenze collettive.

1) il bene comune si situa al di là sia della proprietà privata che di quella pubblica, in quanto non può essere ricondotto all'idea di merce. Noi non «abbiamo» un bene comune (un ecosistema, l'acqua) ma «siamo» partecipi del bene comune (siamo acqua, siamo parte di un ecosistema urbano e rurale). In quest'ottica, a partire XV secolo la tenaglia Stato-proprietà privata espropria, attraverso le enclosures, i beni comuni dai loro commoners. Non a caso, lo stesso termine di proprietà privata ha in sé l'etimologia di «privare», «togliere», «sottrarre» qualcosa a qualcuno che prima ne godeva. Il bene comune è di tutti, non di qualcuno (proprietà privata) né di chi è chiamato a gestirlo (lo Stato);

2) i beni comuni, avendo una natura relazionale (un bene è comune se è di tutti, e con ciò risponde a un diritto fondamentale), non possono essere astrattamente elencati o enumerati, bensì si iscrivono all'interno della prassi quotidiana, emergendo come necessità: è ciò che è accaduto con il referendum in Italia, ma che quotidianamente si ripropone dove si lotta contro l'esproprio dei campi in Africa, per la difesa delle sementi in India, per la democrazia in Egitto e Tunisia. Abbiamo quindi a che fare con una «tutela militante dei beni comuni» (p. VII), che si definisce come prassi di conflitto;

3) la nozione di bene comune è dunque ampia e flessibile, difficilmente riassumibile in classificazioni giuridiche (beni o servizi?) e politiche (destra o sinistra?). Un esempio indicativo è rappresentato dall'espressione Il lavoro è un bene comune, titolo di una recente manifestazione sindacale: dentro la prassi di lotta essa «indica il diritto di tutti a lavorare in condizioni 'libere e dignitose', a fronte di esigenze di profitto proprie di una multinazionale che asserisce di voler competere sul mercato globale» (p. 53). Il lavoro come bene comune
    non è né un oggetto (merce, entità astratta) né un astratto diritto soggettivo, ma un'entità collettiva (comune appunto) e contestuale, allo stesso tempo condizione dell'essere e del produrre (avere). Il lavoro come bene comune non è fine a se stesso, ma è un'entità necessariamente funzionale alla qualità dell'esistere in un determinato contesto (ecosistema), da tutelarsi nei confronti sia del capitale privato (proprietà) sia del sistema politico (governi), che del capitale privato sempre più frequentemente è succube. (p. 54)

4) come in parte già detto, i beni comuni si definiscono come relazione e danno sviluppo ad un'antropologia ed una pratica della relazione diversa nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Ciò comporta che il governo dei beni comuni non può che articolarsi attorno a una diffusione del potere e un'inclusione partecipativa. Per cui una battaglia per i beni comuni determina un'autentica declinazione democratica della cittadinanza, attraverso la partecipazione attiva e diretta; inoltre, mentre il paradigma della proprietà pubblica e privata si fonda sull'esclusione e la concetrazione del potere nelle mani di un sovrano, le utilità dei beni comuni sono prodotte dall'inclusione. Infatti:

Secondo l'impostazione della Commissione Rodotà [La commissione che lavora sui Beni Pubblici, la proprietà pubblica e privata], quelli comuni intanto sono beni (cose che possono formare oggetto di diritto) in quanto siano accessibili a tutti. […] Il bene comune non è a consumo rivale; al contrario, presenta una struttura di consumo relazionale che ne accresce il valore attraverso un uso qualitativamente responsabile (e pertanto ecologico). (p.83).

Per concludere, è lecito affermare che il testo di Mattei rappresenta un breve opuscolo in grado di mettere in campo tutte le questioni cruciali del dibattito sulla congiuntura, la democrazia, la gestione dei beni e l'emergenza di nuove pratiche alternative.
Una società dei beni comuni è una società della pratica del bene comune, in grado di articolare i differenti livelli del potere (istituzionale e diffuso) al fine di modificarli nella direzione di una gestione diretta, democratica, della cittadinanza attiva.
Il ragionamento sui beni comuni, e sul Comune in genere, riconosce la centralità del conflitto politico nel determinare le priorità e afferma un modello di gestione e condivisione che va oltre lo schema Stato/mercato, che in realtà rappresentano le due facce della stessa politica di esproprio delle ricchezze e delle risorse condivise.


Ugo Mattei insegna Diritto civile all'Università di Torino e Diritto comparato e internazionale alla University of California. È stato vicepresidente della Commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici, co-redattore dei quesiti referendari per l'acqua bene comune e ha patrocinato come avvocato alla loro ammissibilità presso la Corte Costituzionale. È editorialista del quotidiano “il Manifesto”.
Spunti bibliografici:

Ugo Mattei, Beni comuni, Laterza, 2011, Roma-Bari
Alberto Lucarelli, Beni Comuni. Dalla teoria all'azione politica, Dissendi, 2011, Roma
Alberto Lucarelli-Ugo Mattei (a cura di), Italia Bene Comune: un altro modello di democrazia, scaricabile su http://www.democraziakmzero.org/2011/12/16/italia-bene-comune-una-proposta/
Ugo Mattei- Edoardo Reviglio – Stefano Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, 2007, Bologna
Antonio Negri-Michael Hardt, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010, Milano
Elinor Ostrom, Governing the Commons, Cambridge University Press, 1990, Cambridge

14.12.11

Una rete dei comuni per i beni comuni.

Riportiamo di seguito un appello lanciato da Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, per un appuntamento tra tutti coloro che lavorano a livello comunale per una società dei beni comuni. La proposta é molto interessante, e fa proprie le esperienze territoriali che, come a Macerata, cercano di mettere assieme le associazioni, i comitati, i centri sociali, i sindacati, i liberi cittadini e i militanti nei partiti. Come l`esperienza di Macerata puo`e deve crescere, cosi`pensiamo che la data del é_ gennaio possa rappresentare un mometo di approfondimento politico delle dinamiche nazionali, di confronto delle lotte e riapertura del dibattito sulla crisi e il modello economico e sociale.


Propongo una data: il 28 gennaio. Propongo un luogo: Napoli. E soprattutto propongo un tema di confronto che abbia come protagonisti gli amministratori, i movimenti, le associazioni, le cittadine ed i cittadini: vediamoci e discutiamo insieme di come uscire dalla crisi economica ma anche da quella politica. Vediamoci e discutiamo insieme di come elaborare un’alternativa economica alla ricetta liberista imposta dall’Europa della Bce e della Commissione, che indica nel welfare e nei diritti il forziere da depredare per far cassa. Vediamoci e discutiamo insieme di come rapportarci alla nuova stagione vissuta dal paese: quella di un governo tecnico che nasce sulle ceneri della politica, consegnatasi mani e piedi alla “tecnocrazia”, cioè agli interessi dei cda della banche, dei mercati, delle istituzioni finanziarie, poiché incapace di fornire una risposta come pure dovrebbe.

Vediamoci e discutiamo insieme di come lanciare, dunque, un’alternativa economica e politica che a mio avviso dovrebbe partire dalla difesa dei beni comuni (acqua, internet, saperi, ambiente): un tema che si è dimostrato capace di sintetizzare una nuova idea di politica ma anche di economia. A difesa dei beni comuni si sono infatti mobilitati 27 milioni di italiani, scrivendo una bella pagina di democrazia partecipativa dal basso, a testimonianza di come sia vivo nel paese il desiderio di politica, diretta e attiva. Il perno di questa difesa dovrebbero essere gli enti locali, primo livello della rappresentanza e del governo, primo bersaglio del piano economico che fino ad oggi ha visto la riduzione drastica dei trasferimenti nazionali, costringendoli – adesso e nel futuro – ad una soppressione dei servizi e dunque ad una sospensione dei diritti, minando dunque la stessa tenuta democratica. Penso alla costituzione di una “rete dei comuni per i beni comuni” da cui partire per formulare questa alternativa economia e politica.

Il quadro, nazionale e internazionale, rende a mio avviso importante questo appuntamento di confronto. Il governo Berlusconi è crollato sotto i colpi dei grandi poteri economico-finanziari internazionali, espressione di quel neoliberismo e di quella finanziarizzazione dell’economia che hanno portato alla crisi attuale. Berlusconi è caduto, inoltre, per volontà di quelle istituzioni europee, penso alla Bce, che sono figlie di un’Europa definita come entità monetaria ma non come comunità, quindi non ancora compiuta politicamente e non ancora capace di assicurare una vera partecipazione democratica. Il governo Berlusconi è caduto, inoltre, a causa del protagonismo di forze più propriamente nazionali: quei poteri forti – massonici, ecclesiastici e bancari – che per anni hanno sostenuto il “laboratorio Berlusconi” come garante dei propri interessi e che, registrata la sua impresentabilità internazionale, hanno scelto di liberarsene. Per far cosa? Per sponsorizzare un governo di tecnici che potrebbe condurre un’operazione di continuità politica ed economica sfruttando, appunto, i nomi “illustri” di noti accademici, di ex membri di Cda bancari, di elevati giuristi ed economisti. Resta invece ancora vivo il berlusconismo come involuzione (sub)culturale che, per un ventennio, ha deformato il tessuto sociale del paese attraverso un interrotto controllo mediatico garantito dal conflitto di interessi permanente.

Stiamo dunque assistendo alla fine della politica e alla genesi della tecnocrazia: la prima non determina i cambiamenti né li governa perchè a farlo è la seconda. La prima risulta, inoltre, profondamente indebolita in conseguenza dello scollamento con la società e l’elettorato, in crisi di rappresentanza anche a causa di una legge elettorale che ha prodotto un parlamento di nominati da segreterie e correnti, non certo dunque di eletti dal popolo. E quello che resta della politica è riassunto in una maggioranza che assembla formazioni tra loro disomogenee per ideali e per storia, marcatamente gestita al centro e potenzialmente eterodiretta dai poteri forti prima citati. Di fronte a questo quadro, appare necessario ritornare alla politica nel suo senso originario, ritornare dunque alla democrazia. Per superare il berlusconismo, che ancora infiltra come modello culturale la società, ma anche per superare quel governo Berlusconi che potrebbe rivivere, in particolare dal punto di vista economico-sociale, sotto le mentite spoglie, soltanto più presentabili, dell’esecutivo Monti.
Per evitare dunque l’imposizione di una ricetta economico-sociale fondata sui dettami della Bce e della Commissione europea, di una risposta liberista ad una crisi che nasce dal fallimento del liberismo, della reazione conservatrice. Il governo tecnico mi fa paura per le ragioni espresse, ma da amministratore mi corre l’obbligo di giudicarlo dalle misure che attuerà. L’esordio certo non dirada il mio timore, anzi lo conferma: non una parola critica verso i diktat della Bce e della Commissione oppure sullo sviluppo sostenibile, non una presa di distanza dalla manovra d’agosto, che con l’art 4. obbliga gli amministrazioni a cedere ai privati buona parte delle azioni delle municipalizzate, azione resa ancora più forte dalla legge di stabilita, la quale prevede il commissariamento di quei comuni disobbedienti. È la cancellazione dei beni comuni, legati ai diritti fondamentali, per consegnarli al mercato e alla privatizzazione; è la cancellazione del welfare, usato per fare cassa; è la spoliazione degli enti locali, su cui si scarica la crisi. Semplificando è la sospensione della democrazia, che in primo luogo scompare nei luoghi di lavoro, dunque sparisce anche nel paese. Fine del Ccln, licenziamento illimitato, esclusione di una “parte” della rappresentanza sindacale laddove non si conforma agli accordi imposti dall’azienda, ovviamente senza referendum: il “laboratorio Pomigliano” esportato ed imposto in tutto il mondo dell’occupazione.
In questo quadro la voce della politica è flebile, mentre tuona quella della finanza e del mercato di cui si fa portavoce la “tecnocrazia”, soffocando gli stati, i governi e i parlamenti. Soprattutto soffocando le cittadine e i cittadini. Vediamoci dunque e confrontiamoci.